In un futuro lontano lontano compaiono dal nulla nove enormi robot, uno per ogni pianeta del Concilio Galattico Riunito. Le inquietanti presenze, dopo un periodo di stasi, si riattivano e cominciano a distribuire morte e distruzione in dosi ben più che generose. Non riuscendo a trovare una spiegazione logica a questo genocidio così insensato – giunto come un fulmine a ciel sereno – né tantomeno a reagire in maniera significativa, gli abitanti di ognuno di dei corpi celesti travolti da tale furia decidono di sfogare la propria rabbia su un obbiettivo molto più prossimo: gli automi con cui convivono, giorno dopo giorno, nelle loro faccende quotidiane. Una reazione vile e pusillanime, carica di rabbia e di odio indirizzato contro chi – per sua stessa progettazione – non potrà mai reagire a tale violenza. Dopo dieci anni da questi eventi tragici, su di una sperduta stazione mineraria, un droide da compagnia si risveglia trovando la sua famiglia adottiva sterminata. A complicare ulteriormente le cose – il Nostro è praticamente l’ultimo superstite della sua specie – salta fuori che il piccolo condivide lo schema di base con gli imperscrutabili invasori di cui parlavamo prima, aspetto a cui più di una persona pare molto interessata.
Questo per darvi un’idea sommaria di dove si voglia andare a parare con Descender. Allo spunto iniziale aggiungiamo ripugnanti razze aliene, ribelli robotici, la solita composizione di un nuovo nucleo familiare che più male assortito non si può, complotti, antiche civiltà e pecore elettriche di Dickiana memoria. Come si dovrebbe già aver capito, dal punto di vista dei contenuti non si fa nulla per nascondere la vocazione da space opera barocca e favolistica di questa serie, partendo da uno spunto che potrebbe avere anche un vago sentore politico ma scegliendo ben presto di intraprendere una strada del tutto diversa. Al centro di ogni snodo narrativo di questo primo volume troviamo infatti due elementi che non ti aspetteresti mai in un contesto così artificioso e pretestuoso: empatia e calore umano.
Se il tutto vi suona familiare è perché probabilmente il vostro pensiero è già corso a un’ottima serie del 2014, Trillium, anch’essa costruita sul binomio guerra/amore e scritta dallo stesso autore. Quel Jeff Lemire ormai abilissimo nel vestire i panni di un Jonathan Hickman dei sentimenti. Dove i lavori dello sceneggiatore di The Manhattan Projects sfruttano infatti la fantascienza come trespolo su cui poter accumulare ogni derivazione possibile dello stesso ceppo tecno-speculazionistico – viaggi nel tempo, dimensioni parallele e ogni altra trovata parascientifica vi possa venire in mente – l’autore di Essex County parte dall’idea di avventura spaziale e puntualmente la impregna di relazioni umane. Anche se sviluppate tra uomini e robot. I flashback familiari del piccolo Tim-21 sono di una tenerezza unica, così come i goffi tentativi di difesa del piccolo portati avanti dal rozzo automa minerario Drill. Insomma, viaggi intergalattici più tanto amore.
La grossa differenza con il passato è che questa volta il canadese non è solo. Al suo fianco – non solo come disegnatore, ma come co-creatore di tutto il titolo – troviamo il gigante Dustin Nguyen. La genialità di una tale scelta e la grazia del suo intervento sono palpabili. Il concept dietro a tutta la serie trova nelle tavole di questo artista il suo compimento più cristallino, senza il minimo compromesso. Come abbiamo già detto è il lato sognate e fantastico ad avere il sopravvento in queste pagine. Leggendo qua e là sulla rete affiora più volta il parallelismo con Pinocchio, a testimonianza di come il tono da favola sia fortemente voluto da parte della coppia di autori. E allora come pensare a una scelta migliore degli acquerelli? Vi assicuro che vedere tavole dove il solito armamentario da fantascienza spicciola viene reinterpretato con questa tecnica così delicata ne cambia completamente l’impatto. Spietati e mostruosi farabutti galattici si tramutano in colorite presenze da film della Amblin Entertainment mentre minuscoli cani robot prendono vita sotto i nostri occhi. Non si rinuncia di certo a passaggi duri o spaventosi, ma in Descender non troverete mai nulla di neppure comparabile all’aggressività di titoli come Black Science. Indovinatissime soluzioni di character design – il protagonista Tim-21, con la sua fisionomia dolce e rassicurante, sembra uscito da una pubblicità per bambini degli anni ’60 – danno poi il colpo di grazia. Stiamo parlando di una di quelle rare opere dove il disegno racconta tanto quanto la sceneggiatura, rafforzandosi a vicenda e non costituendo semplicemente l’uno un supporto passivo per l’altro.
Tutto perfetto quindi? Mi spiace, ma no. E il problema sta tutto nell’eccessivo perseguimento della visione alla base del progetto Descender. Perché va bene l’empatia, la lettura umana di personaggi robotici e il focus sui legami familiari, ma stiamo pur sempre parlando di fantascienza. Lo svilimento costante degli aspetti più tecnico-scientifici di questo genere può anche essere una scelta voluta – e va benissimo, per quanto mi riguarda – ma non dovrebbe mai raggiungere certe vette di sciatteria o ridicolaggine involontaria. Non ci si possono aspettare da tutti le architetture di Tsutomu Nihei, ma questo non vieta di dire che l’astronave tentacolare del quarto capitolo – tanto per fare un esempio – sia davvero impresentabile. Stupida e incomprensibile dal punto di vista visivo. La stessa idea alla base di tutta la serie – esiste un Concilio Galattico Riunito ma la robotica è ancora vista come qualcosa di avvolto nel mistero – risulta ben poco chiara e un pelo forzata. Per quanto ci si sforzi di passare sopra a questi aspetti, ripetendosi che sono ben altri i punti cardine della storia, risulta piuttosto difficile pensare a un classico della fantascienza assunto a tale riconoscimento senza un solido lavoro di costruzione del mondo dove viene ambientato. E più di tante paginette enciclopediche messe in coda all’episodio del mese – come succede sull’edizione statunitense – sarebbe stato molto più gradito uno studio meno frettoloso del design di mezzi e attrezzature varie. Che non deve per forza di cose essere plausibile – cosa ne vogliamo sapere noi di cosa avranno a disposizione i ricercatori da qui a mille anni? – ma perlomeno capace di strapparci un sorriso stupito. L’esempio fumettistico più importante penso rimanga L’Incal dove, a favore di una carica visionaria ancora oggi imbattuta, di realismo ne troviamo davvero poco. Se ci dovete intrattenere vedete almeno di farlo alla grande.
In realtà la mancanza in questione, che avrebbe segnato in maniera indelebile titoli meno brillanti, in questo caso risulta solo piuttosto fastidiosa. Un leggero, persistente senso di amarezza, non così intenso da affossare completamente il risultato. Forse perché, tornando al sentimentalismo di cui si parlava prima, l’effetto soap-opera in cui spesso si cade quando si cerca di risultare caldi e profondi in un contesto di genere viene scansato con classe infinita. Alla stessa maniera, dal punto di vista estetico, la scelta di alternare tavole molto nitide ad altre più nervose e dinamiche svincola da certo kitsch pittorico molto presente nell’industria del fumetto statunitense. A conti fatti due pregi non da poco, in grado di portare a casa da soli il risultato. A questi vanno aggiunte poi le prospettive per una grande avventura, aspetto fondamentale per darci la spinta definitiva vero l’entusiasmo più sincero. Come succede puntualmente quando la voglia di mettere le mani sul prossimo volume – solo per scoprire cosa ci potrò trovare – ti fa soprassedere a ogni debolezza.
Descender – Libro primo: stelle di latta
di Jeff Lemire e Dustin Nguyen
Bao Publishing
160 pag. – colore, 18€