Il cane che guarda le stelle (J-Pop), storia del cane Happy e di un uomo abbandonato dalla sua famiglia nell’ultimo ed emozionante viaggio della loro vita, è un manga firmato da Takashi Murakami. Ma soprattutto, un manga poco ordinario. Murakami (che non è quel Takashi Murakami, l’artista fondatore dell’estetica superflat) realizza infatti con questo lavoro del 2008-2009 un’anomalia, un’opera sicuramente imperfetta ma che ci permette di godere di uno sguardo diverso e trasversale sulla società giapponese e i suoi demoni contemporanei.e
Ne Il cane che guarda le stelle non è lo stile a farla da padrone: sebbene ci sia un’attenzione evidente e ricercata per i fondali, in cui il dettaglio è strumento essenziale di rappresentazione, tutto il resto sembra abbandonare gli stilemi classici del manga. I corpi abbandonano la classica posa plastica in favore di una più “umana”, quotidiana, quasi banale. Certe proporzioni risultano addirittura poco convincenti, come nelle tavole in cui l’autore rappresenta il viaggio in macchina dello strano duo protagonista di questa triste storia. Insomma, abituati a un’attenzione spasmodica per la dinamicità delle forme, questa rappresentazione quasi atterrisce, e comunque denota una scarsa attenzione del mangaka allo specifico elemento grafico. La qual cosa potrebbe risultare strana, specie se si sta parlando di manga; eppure, in qualche modo acquista invece un senso, in relazione al modo di raccontare e all’oggetto del racconto stesso.
Partiamo dalla struttura narrativa: Murakami racconta questa storia utilizzando un punto di vista privilegiato, quello del cane. Per mezzo dei suoi occhi e della sua voce silenziosa ci avviciniamo lentamente a conoscere la sua storia e quella della famiglia che l’ha adottato. La sua incomprensione delle cose di tutti i giorni che affliggono l’uomo contemporaneo è una prospettiva inedita (o quasi), capace di amplificare ancor di più l’insensatezza di alcuni comportamenti e la tragicità di un’esistenza. Così, mentre gli anni passano, il cane continua a fare le sue passeggiate con il padrone e guarda senza empatia lo sfaldarsi della famiglia: la bimba che l’ha voluto a tutti i costi è cresciuta ed è una ribelle impenitente, la madre si allontana sempre di più dal marito fino a trovare il coraggio di lasciarlo. Di questa deframmentazione familiare il papà è pienamente consapevole, tanto da sfogarsi in maniera indiretta proprio con il proprio cane, vivendo quelle passeggiate come un momento di liberazione personale. Ma quando quel precario equilibrio si frantuma, al padre, ormai abbandonato da moglie e figlia, non resta che intraprendere un viaggio verso una nuova vita. Accompagnato dal fidato animale.
A metà della storia, quando sembra che la narrazione abbia fatto il suo corso e si stia avvicinando alla sua naturale conclusione, Murakami compie una sorta di twist narrativo e ribalta le prospettive: racconta un’altra storia, con un altro personaggio, adottando un’altra prospettiva. Questo gli permette non solo di far collidere le due storie pur mantenendo una progressione temporale lineare, ma di esprimere un discorso emozionale a 360 gradi. Nel farlo, tra le righe, Murakami compie un gesto ancora più importante: analizza in maniera distaccata ma al tempo stesso coinvolgente una società che, nel corso degli ultimi anni, sta attraversando un problema di atomizzazione familiare, in cui il progressivo allontanarsi degli elementi familiari (nonni, genitori, figli), come fossero oggetti che vagano nello vagano privi di attrito, crea un vuoto sicuramente sociale ma anche emozionale.
La solitudine descritta in Il cane che guarda le stelle è, insomma, qualcosa di terribilmente vero. E lo sguardo di un cane che non comprende queste dinamiche, non fa che sottolineare ulteriormente questa sofferenza esistenziale.
Il cane che guarda le stelle
di Takashi Murakami
J-Pop, 2015
176 pagine, 7 €
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