Di fumetti incompiuti, lasciati a metà, abbandonati, ne è pieno il mondo. A volta è perché l’autore viene a mancare (Storia di Astarte), perché mancano i fondi (Termite bianca) o perché semplicemente i fumettisti hanno altro da fare (gran parte della bibliografia di Warren Ellis). Tra le tante a cui poter attingere, quindi, abbiamo scelto le sei storie a fumetti mai terminate più interessanti.
I Vangeli di Chester Brown
Alla fine degli anni Ottanta, per bilanciare il suo lavoro su Ed the Happy Clown, un fumetto che giocava con umorismo fisico, blasfemia e idee matte (a un certo punto Ed si ritrova la testa dell’alieno Ronald Reagan al posto del pene), Chester Brown si dedicò all’adattamento dei Vangeli. Lo fece anche per analizzare la propria fede, che durante la sua adolescenza aveva iniziato a vacillare: «Cercavo di capire se credevo in quelle cose, se Gesù era o meno un essere divino.» Risultato: Brown divenne prima agonistico, poi passò allo gnosticismo e nel 2011 dichiarò di non essere più cristiano ma di credere in Dio.
Pubblicato a puntate sulle riviste Yummy Fur e Underwater, questo imponente lavoro andò avanti per dieci anni, dal 1987 al 1997, con varie interruzioni. Brown iniziò il Vangelo di Marco con un approccio canonico: usò fonti consolidate (la Bibbia di Re Giacomo, la New International Version), ma più passava il tempo più il testo diventava idiosincratico e il fumettista incorporò versioni apocrife del Vangelo o libri che descrivevano Gesù come un mago pagano.
A un passo dal concludere il Vangelo di Matteo, in cui Gesù è diventato un uomo martoriato, calvo e collerico, Brown perse il padre e decise di dedicare tempo a opere che ne valessero la pena. Lasciò così incompiuto il lavoro, insieme a Underwater, racconto che narra l’acquisizione del linguaggio da parte di un infante. «Non sarebbe difficile concludere il progetto» ha dichiarato in un’intervista al Comics Journal nel 2011 «perché non sono tanto distante dalla fine. Sono fermo al punto in cui Gesù sta per entrare a Gerusalemme, sono i suoi ultimi giorni. Ma il mio cuore non è più lì. Non mi interessa finirlo.»
Icaro, di Moebius e Jirō Taniguchi
Pulp dell’agosto 2001, Carl Gustav Horn intervista Paul Pope a proposito del suo periodo trascorso a lavorare in Giappone per Kodansha:
HORN: La Kodansha ha sperimentato con molti artisti stranieri.
POPE: Sì, però sono anche molto riluttanti ad aprirsi verso l’esterno. È una questione d’onore. Ti direbbero “Siamo la più vecchia e venerabile casa editrice giapponese. Abbiamo pubblicato Mishima, perché dovremmo ristampare Moebius?”. Se scavi un po’, alla fine scopri che hanno un forte pregiudizio culturale. Il loro approccio era tipo “Se dobbiamo spendere tutto questo tempo e questi soldi con un autore, tanto vale che sia giapponese”. […] È una società omogenea. Hanno un senso molto forte di identità stagna. Sai, del tipo “Siamo giapponesi!”.
La chiusura mentale descritta da Pope si è tradotta negli anni in scarsissime commistioni con e dall’oriente. Eppure l’idea del secolo, l’ecumenismo a fumetti, unire fumetto e manga, si è realizzata in occasioni sparute. No, non il ciclo degli X-Men di Chuck Austen e Kia Asamiya. Si tratta di Icaro, manga scritto da Moebius e disegnato da Jirō Taniguchi. Libero adattamento del mito greco, il fumetto fu voluto da Yoshiyuki Kurihara, direttore della rivista Comic Morning, che ospitò la serie.
Ora, io ricordavo, non so dove, non so quando – quindi forse non è mai avvenuto – di aver letto che il progetto arenò perché tra i due non correva buon sangue, ma Taniguchi non ha che speso buone parole per Moebius e in giro non ho trovato fonti a conferma della mia illazione. Così sono andato a chiederlo direttamente a Igort, la cui Coconino portò in Italia la storia in due volumi: «Il fumetto fu interrotto perché Kodansha cambiò direttore e linea editoriale a Comic Morning. Tempo dopo, la Coconino organizzò un meeting a Parigi tra Taniguchi e Moebius. Era presente anche il nuovo editor di Taniguchi della Shogakukan. L’editor era disponibile nel caso l’autore volesse. Si parlò di riprendere il progetto e di ultimarlo, ma ebbi la percezione che Taniguchi avesse altre priorità.»
Secondo Igort, Kurihara fu «direttore illuminato e coraggioso che ebbe l’idea di fare collaborare un autore giapponese con un autore occidentale, cosa unica sinora, e di finanziare il tutto attendendo i ritardi di anni di Moebius».
Void Indigo, di Steve Gerber e Val Mayerik
Void Indigo fu un progetto che assunse diverse forme nel corso degli anni. Al centro della storia, l’alieno Jaghur, che in una vita precedente era stato un umano seviziato da un gruppo di demoni. Tornato in vita, decide di far visita ai suoi aguzzini e finisce a fare mattanze in quel di Los Angeles.
Il suo sceneggiatore, Steve Gerber, provò a piazzare la serie alla DC Comics, come potenziale reboot per Hawkman, poi a varie etichette indipendenti e, alla fine, firmò con la Marvel, da cui se n’era andato poco prima per i contenziosi su Howard il Papero. Disegnata da Val Mayerik, la serie era stata pensata come una storia in sei parti per la linea Marvel Graphic Novel.
Edito dalla costola Epic Comics, il primo numero di Void Indigo uscì nel novembre 1983. Comics Buyer’s Guide lo definì «un crimine contro l’umanità» e le reazioni negative alla violenza esplicita dell’albo fecero calare le richieste per il secondo numero, che uscì solo nel marzo 1985. Dopodiché l’editor-in-chief della Epic Archie Goodwin ne fermò la pubblicazione, lasciando inediti gli altri quattro numero. Via, se proprio ci tenete, qui potete leggere la conclusione della storia.
Big Numbers, di Alan Moore e Bill Sienkiewicz
Questo è il Quarto potere dei fumetti incompleti. La storia è famosa e intricata, vediamo se riesco a darci un senso in meno di tremila battute. Epopea joyciana sulla vita degli abitanti di (Nort)Hampton, Big Numbers era il tentativo di Alan Moore e Bill Sienkiewicz di tradurre in fumetto le idee sulla geometria dei frattali di Mandelbrot (scovare tematiche su ampia scala – la città – che fossero riproponibili nel piccolo – le vite dei personaggi). Dodici numeri previsti, in un atipico formato quadrato.
I primi due uscirono per Mad Love, l’etichetta di Moore, poi rimpiazzata dalla Tundra di Kevin Eastman. Sienkiewicz, che aveva deciso di disegnare ogni vignetta basandosi su foto da lui scattate, usando i suoi amici come modelli, restò invischiato nella sua ossessione del riferimento fotografico e allungò i tempi di realizzazione a tal punto da dove assumere il diciannovenne Al Columbia come assistente. Terminato il terzo numero la vita del disegnatore andò a rotoli; uno dopo l’altro, i modelli si defilarono (la protagonista partì per la Germania, altri due moririno, un altro, adolescente, crebbe da una sessione all’altra rendendo inutilizzabili gli scatti), sua madre venne a mancare e Bill iniziò a tradire la fidanzata. Non che a Moore stesse andando meglio: poco più tardi la moglie e Deborah Debano, con cui stava intrattenendo uno stuzzicante triangolo, lo lasciarono, portandosi via le figlie e la quasi totalità dei soldi guadagnati dalla Mad Love.
Sienkiewicz ringraziò per il pesce e disse addio, lasciando ad Al Columbia il compito di sostituirlo, ma a un certo punto anche lui fece fagotto, distrusse le tavole del numero quattro e sparì. Alcuni dicono che ebbe la meglio il suo perfezionismo maniacale, che gli impedì di divulgare i disegni, Eastman ha invece dichiarato che il problema fu «il fatto che Al si rese conto che non lo volevamo in quanto Al Columbia, ma in qualità di clone di Bill», mentre Columbia stesso scrisse prima che «ero innamorato dei soldi che mi avevano dato in anticipo, li spesi tutti e disegnai soltanto metà dell’albo» e poi che la distruzione era da imputare alla richiesta del gruppo rock Sebadoh per una copertina fatta da un collage delle tavole.
Eddie Campbell, nell’autobiografico Alec: Come diventare un artista, racconta la vicenda seguendo le dichiarazioni di Eastman, ma aggiunge alcuni episodi che evidenziano un trasfert padre-figlio tra Sienkiewicz e Columbia presto deterioratosi (addirittura, secondo Campbell, Columbia prese a vestirsi come Bill). Con il posto di disegnatore vacante, Eastman chiese aiuto a Kent Williams, George Pratt e altri, ma incassò solo rifiuti e, preso dalla frustrazione, gettò la spugna.
Di quella che sarebbe dovuta diventare la magnum opus di Alan Moore restano i primi due numeri, editi, e l’intero terzo numero, mai pubblicato ma leggibile grazie a Pádraig Ó Méalóid, che nel 2009, dopo aver comprato a un’asta su eBay le fotocopie dell’episodio, lo ha pubblicato online, con il permesso di Moore.
Tintin e l’Alph-Art, di Hergé
Prima di morire, nel marzo 1983, Hergé stava scrivendo una nuova avventura di Tintin, Tintin e l’Alph-Art. La storia è ambientata nel mondo dell’arte moderna, scena che l’autore aveva iniziato a frequentare visitando i musei di Bruxelles. La morte di un gallerista conduce Tintin alla scoperta di una cospirazione guidata dal falsario e guru religioso Endaddine Akass (un personaggio che combina il contraffattore Fernand Legros e il santone indiano Osho Rajneesh).
Hergé aveva prodotto più di centocinquanta pagine di schizzi, appunti e note, ma non aveva ancora elaborato un finale. Bob de Moor si offrì per ultimare l’albo, ma Fanny Vlamyck, vedova di Hergé, prima accettò e poi impedì il completamento della storia, stando alle volontà del marito, che desiderava il ritiro del personaggio dopo la sua dipartita. Tintin e l’Alph-Art venne pubblicato nel suo stato grezzo, dopo una selezione operata da amici e studiosi di Hergé, nel 1986.
Devil/Bullseye: Il bersaglio, di Kevin Smith e Glenn Fabry
Kevin Smith è un caso patologico. Di tutti i lavori scritti per Marvel o DC sono più quelli che non ha completato che quelli finiti. E anche quelli terminati sono stati il frutto di lungaggini e ritardi (un anno per leggere i tre numeri di Batman: Cacofonia, quattro per la saga dell’Uomo Ragno La malvagità degli uomini). A oggi, Batman: Spirale crescente e Devil/Bullseye: Il bersaglio sono i due titoli senza finale che attendono soddisfazione. Mentre Spirale crescente sembrerebbe essere in dirittura d’arrivo con il nuovo titolo di Bellicosity, Il bersaglio è una storia monca che tale resterà.
Il bersaglio nacque nel 2001: Smith avrebbe voluto narrare lo scontro definitivo tra Devil e Bullseye, tanto che Joe Quesada promise (mentendo) che nessun altro scrittore avrebbe potuto usare la nemesi di Matt Murdock finché la sua storia non fosse terminata. Oberato di impegni (e con ‘oberato di impegni’ intendo ‘cappottato d’erba’), Smith non riuscì a rispettare le scadenze. In un’intervista per i contenuti extra di Daredevil affermò che «per quando questo DVD sarà sugli scaffali, spero di aver ultimato la storia». Il regista consegnò la sceneggiatura del secondo numero agli inizi del 2003. Nel frattempo, Fabry lasciò il progetto e venne sostituito da Adam Kubert, che disegnò solo alcune tavole prima dello stop della dirigenza, decisa a procedere coi lavori soltanto dopo la consegna di tutte le sceneggiature. Nel 2005 Kubert passò alla DC Comics lasciando la serie senza un disegnatore.
Nello stesso anno Smith dichiarò sul suo forum che la mini avrebbe comunque visto la luce a metà del 2006. Da allora di Il Bersaglio si sono perse le tracce, anche per volontà dell’autore, che ha più volte ammesso di non ritenere granché ispirata la miniserie e che la stava scrivendo in ottemperanza agli accordi presi con Quesada. Nel libro Writers on Comics Scriptwriting, il regista ha svelato che il bersaglio in questione, quello che Bullseye avrebbe dovuto uccidere, era Capitan America. Della serie non ci resta che il primo numero – visto in Italia su Devil & Hulk n. 160 – e un paio di pagine di Kubert, tra cui una splash page inchiostrata da Danny Miki.