Lo scorso 15 maggio al Salone del Libro di Torino, nell’ambito dell’iniziativa Cross-over che ha visto scrittori e fumettisti confrontarsi fra loro, lo scrittore Giorgio Fontana, premio Campiello nel 2014 con Morte di un uomo felice, ha conversato con Zerocalcare.
Di seguito, una trascrizione (adattata per la pubblicazione) della chiacchierata fra i due autori.
Giorgio Fontana: Pensavo, visto che si parla di due forme di raccontare storie (fumetti eletteratura), di chiedere a Michele quali sono i fumetti e i romanzi che ci hanno formato di più in quello che facciamo, giusto così per aprire.
Zerocalcare: Facciamo questa cosa che prima lo dico io e poi lo dici tu. Diamoci un metodo perché questa cosa nasconda il nostro imbarazzo.
Le cose che mi hanno formato sono tantissime, ho delle difficoltà a elencarle, però ho molto chiare le cose che mi hanno fatto fare una specie di scatto, un clic, e che mi hanno dato la voglia di disegnare. Tutte le volte che devo dire quali sono queste persone e quali sono questi libri io vergogno un sacco, perché ho il terrore da un lato di sembrare che voglia mettermi su quel piedistallo assieme a quegli autori che per me sono dei giganti; dall’altro, siccome qualcuno di questi l’ho conosciuto anche di persona, ho sempre il terrore di farli vergognare, nel senso che poi qualcuno dica “ah ammazza, questo m’ha nominato un’altra volta, a me fa schifo ma questo ogni volta mi tira in ballo”. Quindi sgomberate il campo da queste cose qua.
Quando ho letto La mia vita disegnata male di Gipi è stata una cosa che ha proprio azzerato il mio concetto di fumetto in generale e mi ha fatto vedere un’opera che era completamente diversa anche dalle regole grammaticali del fumetto che avevo letto fino a quel momento. Mi ha dato voglia di ricominciare a disegnare e di provare a disegnare delle storie che fossero mie personali intime e non fantascienza o avventura.
In realtà questa cosa l’hanno fatta tre fumetti più o meno contemporaneamente, letti quasi assieme, che sono stati LMVDM di Gipi, Lo scontro quotidiano di Manu Larcenet, che anche lì è una storia di vita quotidiana e di piccole fragilità e di grandi passi da fare nella vita di ognuno, e I Kill Giants, che una storia di dolore e malattia ma raccontati attraverso gli occhi di una bambina che vede nella malattia della madre dei giganti e dei mostri da affrontare. E questi sono i tre libri a fumetti che m hanno fatto un po’ essere quello che sono rispetto a quello che ero prima.
Vai tu coi fumetti poi parliamo dei romanzi.
GF: Io sono stato un lettore vorace di fumetti e lo sono tuttora. Lo sono fin da quando ero bambino. Ho imparato a leggere su Topolino, letteralmente, ed è una cosa di cui vado molto fiero. Continuo a leggerlo tuttora e quindi non lo posso che citare fra le primissime mie esperienze con le storie. Diciamo che credo sia partita da lì la fascinazione per il racconto delle storie, per l’ascolto e il racconto delle storie. Poi ricordo che quando avevo 18 anni, era un’estate che ero a casa malato, e mio padre mi disse “senti, hai mai letto Doonesbury?”, di Gary Trudeau. E io scoprii, da adolescente cretino che non era mai andato a spulciare, che mio padre aveva tutto Linus, tutti i numeri della rivista. Al che ho passato tre settimane a leggermi tutto Doonesbury in fila, da quando è stato pubblicato all’inizio fino al ‘97/’98, che era l’anno in cui l ho scoperto. È stato un altro di quei fumetti che mi hanno un po’ spiazzato, mi ha proprio cambiato la prospettiva con cui guardavo al fumetto stesso.
E poi sono sempre stato un grandissimo lettore, anche oggi, di fumetti da edicola, al di là dei graphic novel o delle cose ‘più impegnative’, anche se è un brutto termine da usare. Ci sono cose stupende in tutti i fumetti della Marvel, fumetti della Bonelli, sono un lettore vorace di queste cose, però – e ne parlavamo giusto prima venendo qua – mi diceva Michele “per me possiamo parlare anche un’ora di Manu Lacernet”, che è un amore condiviso da entrambi. In efetti Lo scontro quotidiano è un libro che non ti lascia indenne, se hai un certo tipo di sensibilità. Per me è una storia bellissima e anche per me merita di essere letta. Io l’ho scoperta un po’ più di recente, però mi ha davvero influenzato e colpito moltissimo.
ZC: Romanzi, invece. Mentre sui fumetti potevo dare dei riferimenti alti che mi facevano sentire una persona sensibile, sui romanzi purtroppo invece le cose che maggiormente mi hanno appassionato sono di segno diverso in verità, di cui non si trova assolutamente traccia tra l’altro nei fumetti che scrivo credo, perché sono atmosfere e toni estremamente diversi. Ho letto un sacco di roba e a un certo punto alcune anni fa mi sono innamorato del noir contemporaneo americano, da Leonard a Lansdale. A oggi una delle cose che che rileggo con più piacere e con più divertimento in generale sono proprio i libri di Lansdale, che sono a metà fra il noir e l’avventura americana che affonda le radici nel Texas degli anni ‘30, negli anni della Depressione e tutta quella roba là. Non lo so, mi sembra di leggere – è un po’ banale dirlo – cose che ti portano lontano con la fantasia, ‘ste cazzate qua, ma effettivamente è quanto di più diverso faccio io a fumetti. E poi ha un po’ questa retorica degli ultimi, della decadenza, di quelli al margine del mondo polveroso, senza denti, che è tutta una cosa che su di me e chi viene dall’ambiente punk e skin ha una grossa fascinazione, per tutto l’immaginario del sorriso sdentato che non si vergogna però di sorridere. Quindi diciamo che quelli sono i libri che leggo con più piacere, ma non ho nel romanzo una cosa che m’abbia illuminato e m’abbia dato uno stimolo artistico che non fosse appunto la passione per il continuare a leggere.
GF: Io adesso invece mi gioco qualche riferimento alto che mi farà sembrare un figo, invece no. Però questi sono tre fra i tantissimi autori, anzi quattro dai: il primo è stato quando ho letto, tarda adolescenza, Il processo di Kafka, un altro di quei libri che mi ha invertito la visione del mondo e mi ha fatto partire tutta una lunga riflessione su cosa fosse giusto, cosa pensiamo spesso sia giusto e invece non lo è, la questione della colpevolezza. Una cosa che si è riverberata tanti e tanti anni dopo in quello che provo a fare.
Ogni volta che faccio questi nomi, sono sempre a disagio, perché, come diceva Michele, sembra sempre che “ah, ti stai lentamente paragonando a”. Ovviamente neanche per sogno.
L’altro è uno scrittore svedese semi-sconosciuto, si chiama Stig Dagerman ed è pubblicato per lo più da Iperborea e anche da Lindau e un altro paio di piccole case editrici. Era un genio assoluto ed è morto suicida quando aveva 32 anni. Sì, gli scrittori che amo non fanno tendenzialmente una bella fine purtroppo. È un altro che ha saputo raccontare le contraddizioni e il dolore dell’adolescenza, il bisogno di purezza che si sente da adolescenti e che spesso ti porta quasi a bruciare, perché si scontra inevitabilmente con un mondo, quello adulto, che spesso e volentieri fa del cinismo e del totale rifiuto di qualunque idealità la propria caratteristica principale, per cui piu sei cinico, piu sei stronzo, più sei un uomo vero.
Poi tutta l’area della narrativa nord-americana: ho cominciato come tanti leggendo Jack Kerouac, Sulla strada. Quando hai 16/17 anni e leggi quel romanzo e vivi nella provincia nord di Milano, in quei paesini dove il paesaggio è fatto di case, palazzi e fabbriche, e vedi questi che attraversano l’America e vivono avventure folli, diciamo che ti scompagina un po’ dentro e ti accende qualcosa. Ed è tutta questa narrativa che mi ha influenzato, che passa attraverso tanti scrittori, fra cui ricordo fra gli altri Bernard Malamud, che è un altro scrittore nordamericano straordinario che consiglio sempre a tutti.
Tra l’altro pensavo mentre parlavo che abbiamo fatto fumetti, letteratura potremmo anche fare anche musica, visto che siamo entrambi appassionati– e so che tu ascolti ancora tantissima musica che ascoltavi da ragazzo.
ZC: Io, di base, ho la cosa di dire “io ascolto il punk. Punto.” Poi se penso a cosa sento, effettivamente mi rendo conto che c’è anche altro, perché poi crescendo uno allarga le cose. E mi chiedo “perché continuo a dire che ascolto il punk, se poi mi ascolto pure gli 883?”. In realtà mi sono reso conto del perché dico questa cosa ed è perché è soltanto per il punk che esco di casa. Non ho una vita di grossi consumi sociali, non è che vado a feste, discoteche o cose del genere, nella vita l’unica cosa per cui esco per andare in posti pieni di gente sono i concerti, e i concerti a cui vado sono soltanto quella cosa là.
Una volta mi sono trovato a un concerto grosso, l’estate scorsa, alle Capanelle, uno di quelli dove devi prenotare il biglietto un sacco di mesi prima, e c’erano diecimila persone ed era anche un gruppo che mi piaceva in realtà – adesso non mi ricordo chi, pensa come sto, è che ho preso un sacco di botte in testa da ragazzino, non è che mi faccio le canne (che non mi faccio) – e praticamente mi sono trovato che stavo un sacco a disagio perché mi sono reso conto che in realtà la mia presenza al concerto non determinava nulla, se io ci stavo o non ci stavo era assolutamente irrilevante, la stessa presenza del pubblico era irrilevante. Era tutto molto bello quello che si stava svolgendo sul palco, le luci e tutto, dei professionisti bravissimi. Ai concerti di quella che io chiamo la musica mia però, la musica punk, invece quello che fai e quello che fa il pubblico è determinante per decidere se un concerto va bene o va male. Anche proprio fisicamente, quanto uno sale sul palco, quanto si butta, quanto si lancia. È una parte che non riesco a scindere dalla musica e quindi è una cosa che considero così.
Tu invece?
GF: Io da ragazzo, fino ai 22 anni, sostanzialmente ascoltavo solo metal, che è una cosa diversa per certi versi dal punk, ma condivide molte cose con la scena hardcore. Innanzitutto la qualità della performance complessiva del concerto inteso non solo come chi suona ma come chi reagisce. Per cui se a un concerto di un gruppo metal di provincia come quelli a cui andavo si pogava come pazzi, allora voleva dire che il concerto era riuscito bene, che la musica era buona. Ovviamente non era l’unico scopo di quella musica, ma ovviamente era uno degli scopi di quella musica. È una cosa molto interessante ma anche difficile da far capire a volte.
Poi negli anni anche io ho iniziato ad assorbire tipi di musica differente e mi risulta difficile dire “ascolto quello, ascolto questo”, da tanti anni sono diventato appassionato di musica jazz e di un po’ di musica classica, non piccandomi di essere un esperto.
ZC: La musica classica pur’io in realtà, però sulla musica jazz è l’andropausa che galoppa.
GF: Hai ragione, sto invecchiando a una velocità stellare, però quando arriverò al punto di mettere su Dexter Gordon in vestaglia con un whiskey, mi sentirò molto figo e sarò molto solo.
Poi tantissime altre cose, però ogni tanto metto su un disco degli In Flames e mi sento a casa.
ZC: Sai, ne parlo poco in realtà – anche nei fumetti ci sta qualche piccolo riferimento ma non ne parlo tanto – perché mi sembra che quell’ambiente là in realtà vada tutelato dalla cannibalizzazione che fanno i media, i giornali e internet di un sacco degli aspetti della vita mia. Quando se ne parla, ho il terrore che quella cosa venga sussunta e destituita come un elemento di folklore e mi terrorizza. Infatti ne parlo poco, anche perché, ogni volta che faccio qualcosa, un’altra delle cose che non vorrei mai è essere associato dai giornali o altro a quella cosa lì, perché non vorrei che quel mondo là non dovesse vergognarsi di quello che faccio. È sempre difficile trovare un equilibrio fra le cose.
[domanda dal pubblico] Volevo chiedere a Zero, come ha preso la candidatura al Premio Strega, t’ha sorpreso?
ZC: La mia candidatura fa parte delle quote sociali, sono uno degli svantaggiati che sono obbligati a mettere.
In realtà mia madre è molto contenta di questa cosa e io l’ho trovata molto buffa, una cosa nata in maniera totalmente spontanea. La persona che mi ha candidato, Igiaba Scego, è una persona che conosco da molto prima, è una persona molto entusiasta del mio lavoro da un sacco di tempo. Quest’anno è diventata una delle amiche della domenica, quindi aveva la possibilità di candidare, ha fatto un giro di telefonata per capire a chi è che piacevo, perché devono essere in due a fare la candidatura. Le ha risposto la Bignardi, “sì, il libro m’è piaciuto, facciamolo”, quindi la cosa è stata molto tranquilla. Poi i meccanismi successivi che decidono quello che va avanti, quello che non va avanti, sono di tutt’altra natura. Da un lato immagino che ci siano dei ragionamenti che portano a un libro che vadano al di là della qualità del libro, vanno al numero dei click che riceve o l’attenzione mediatica che riceve. Uno valuta se farlo andare avanti, non farlo andare avanti, insomma sono tutte altre cose…
Io in generale la trovo una cosa buffa, vorrei dire che sono contento. Cioè, da un lato penso che sia un riconoscimento del fumetto come linguaggio non di serie B ma come linguaggio che possa raccontare ogni cosa, dai saggi alla Storia all’amore, quindi questa cosa penso sia buona. Vorrei poter dire che fa bene a tutti i fumetti, ma in realtà non lo so se è vero, perché poi appunto i meccanismi non dipendono dalla qualità. Ci sono un sacco di fumetti che sono molto più belli, disegnati meglio del mio e scritti molto meglio del mio, che continuano comunque a non avere nessuna attenzione da parte del mondo della cultura alta, banalmente perché non riescono ad arrivare sui radar delle vendite, e finché non arrivi la gente non ti si incula di striscio. Quindi non lo so quanto questa cosa ci aiuti effettivamente a tutti, però io spero sempre di sì. Male non penso che possa fare, quindi è già qualcosa.
Te la giro a te con il Campiello.
GF: Io ero felice ma anche piuttosto tranquillo perché – lo so che poi lo dicono tutti – non mi aspettavo di vincere. Infatti, quando sono salito sul palco de La Fenice a Venezia, dopo aver combattuto con la cravatta una lotta abbastanza all’ultimo sangue, ero sereno, cioè, mi cagavo sotto perché c’erano un milione di persone ed era una situazione veramente molto formale e anche molto sontuosa e quindi sei al centro dell’attenzione e a me non piace tantissimo esserci. Poi quando in effetti ho vinto è stato un po’ un mezzo shock perché appunto 1. non me l’aspettavo per nulla e 2. il mio primo pensiero è stato “oddio, ora come gestisco tutta questa roba?”. Ripeto, non lo dico davvero per piaggeria o finta modestia, ma veramente è stata una cosa bellissima che mi ha aiutato a cambiare molte cose della mia vita, ma anche impegnativa a livello emotivo per l’indole che ho. Magari c’è qualcuno che il giorno dopo se ne va in giro per strada con la lingua di Menelik a dire “ho vinto, ho vinto, ho vinto” e altri che magari se la vivono un po’ diversamente, quindi nel complesso, ripeto, è stato fantastico ma anche anche un po’ complicato da gestire a volte. Mettiamola così.
[domanda dal pubblico] Prima parlavate di fumetto e graphic novel un po’ più alti. C’è differenza fra fumetto e graphic novel? Secondo voi il graphic novel non è un fumetto ed è qualcosa di più alto, che mettete pari a un libro, a un vero e proprio romanzo di narrativa?
GF: Il linguaggio è ovviamente il medesimo, quindi differenza di mezzo non c’è, anzi. Tra l’altro grazie, era una cosa che volevo chiedere a Michele. Probabilmente da qualche anno il graphic novel è arrivato sulla bocca di tutti, quindi sembra che il fumetto sia improvissamente diventata una forma d’arte. Lo è sempre stata invece. È sempre stato un linguaggio espressivo straordinario che ha raggiunto dei risultati che non hanno nulla da invidiare alla narrativa e alla letteratura. Su questo sono sempre stato convinto al 100%. Esattamente come ci sono romanzi di fruizione più semplice, ci sono fumetti di fruizione più semplice e fumetti più impegnativi, ma non è un discorso etico o di divisione o che altro, per me assolutamente non c’è differenza.
ZC: Sono abbastanza d’accordo. Io chiamo in genere tutto fumetto, graphic novel mi sembra più una categoria che serve alle librerie per dare dignità agli scaffali che mettono. Tra l’altro, fra le cose più alte che io abbia mai letto, c’è roba della Marvel, il ciclo di Devil di Ann Nocenti, Frank Miller etc, è una roba bellissima e struggente, ed è fumetto popolare vero ed è altissimo.
GF: Ti capita ancora di parlare con persone che pensano che i fumetti siano solo disegnetti e non un linguaggio a tutti gli effetti?
ZC: In realtà sì. Questa comunque rimane una cosa, qualcosa sta cominciando, succede molto meno di prima, un sacco di settori riconoscono che il fumetto è una cosa con dignità anche adulta, però comunque rimane che sei il fratello scemo. Non lo so se dall’interno del mondo della letteratura – fa ridere ‘sta roba del mondo del fumetto e del mondo della letteratura come due cose staccate – hai la percezione che ormai sia sdoganato tutto.
GF: Mah, non tanto in realtà. Io credo, tornando al discorso di prima, che sia stato sdoganato il graphic novel, il fumetto che tende ad assomigliare per lunghezza e “ambizione”, fra mille virgolette, alla forma del romanzo. Quindi è solo uno sdoganamento parziale in verità e per certi versi rischia di essere un po’ quasi classista nei confronti dei tipi di fumetto che ci sono. Quello che si dovrebbe veramente liberare è l’idea del fumetto proprio come linguaggio a se stante in qualunque sua incarnazione, che sia anche la tavola singola che leggi su una fanzine o su qualunque altra cosa, fino al libro di 600 pagine o la saga di Bendis di Devil, come citavi prima.
ZC: Però devo dire che in verità questa cosa di noi popoli colonizzati che interiorizzano lo sfruttamento sta anche nella testa di noi fumettisti. Noi ci siamo conosciuti mezz’ora fa, non ci eravamo mai visti di persona, e mentre arrivavamo e parlavamo, hai cominciato a dire delle cose e hai parlato di robe che mi hanno fatto capire che in realtà non eri uno che s’era letto tre graphic novel, ma sei un vero appassionato di fumetti, e io nella mia testa ho pensato “ammazza, ma questo è sfigato come noi”. Quindi in qualche modo pure io ce l’ho questa cosa del complesso di inferiorità.
[domanda dal pubblico] Perché però c’è poco ‘cross-over’ fra scrittori e disegnatori?
ZC: tu hai mai pensato di scrivere sceneggiature?
GF: Ci ho pensato eccome, ed è una cosa che mi piacerebbe fare tantissimo. Però dovevo studiare e ho studiato un po’, perché è un linguaggio diverso. È vero sono contaminazione interessanti, però non vorrei che sembrasse come se il fumetto avesse bisogno dal mondo della letteratura di una legittimazione/benedizione. Poi magari io come sceneggiatore potrei fare assolutamente schifo, per esempio. Quindi non è necessario che uno sia un romanziere che ha un minimo di padronanza tecnica del suo mezzo per farlo diventare uno che ne sa. Ripeto, ci ho pensato a lungo all’idea di sceneggiare qualcosa, ho anche fatto un paio di tavole, però il tempo che mi sono preso nel frattempo era dovuto proprio alla necessità di impadronirmi un po’ del linguaggio, non solo da lettore, da fruitore, ma da uno che vorrebbe pian pianino avvicinarsi a ‘sta cosa.
ZC: A te pesa la cosa opposta? Quando qualcuno dice cose tipo “eh ma coi ragazzi arriva meglio il fumetto della scrittura”. Perché c’è anche questa cosa opposta, che ti dicono che il fumetto è un viatico per parlare ai giovani, perché è diretto e immediato e invece la scrittura sembra una cosa noiosa, impagliata.
GF: Un po’ sì, un po’ anche questo. Infatti, quando magari chiacchierando salta fuori che sono un grande amante del fumetto e mi dicono “ah, hai mai pensato di?”, io rispondo di sì e mi dicono “eh certo così intercetteresti una fetta di pubblico”. C’è ancora molto lavoro da fare da questo punto di vista, non è che automaticamente il romanzo sia un genere morente o noioso o colto. Poi in Italia c’è tutto un discorso da fare sul fatto che si pensa che la cultura ti migliori eticamente. Invece banalmente uno può leggersi una storia perché gli piace, come se godersi una lettura fosse un peccato mortale.
Tu hai mai pensato di scrivere narrativa?
ZC: Sono una pippa. È impossibile per me. Io non sono abbastanza bravo come scrittore per pensare di scrivere, né abbastanza bravo come disegnatore per pensare di disegnare su sceneggiature di altri. Io faccio sto accrocco qua che funziona per adesso e mi tengo questa roba qua.
[domanda dal pubblico] Tu arrivi dalla cultura underground e adesso sei mainstream. Ti senti la responsabilità di restare vero?
ZC: Allora, responsabilità è una parola orrenda da questo punto di vista. Verso chi la dovrei sentire? Io non so manco cosa voglia dire ‘restare vero’, perché poi il problema è che se tu cambi come persona rimani vero? Non è che continuando a far finta di essere quello che eri 5 anni fa sei più vero, se poi in realtà sei cambiato come persona. Io ho paura dei cambiamenti in generale, perché quelle cose che m’hanno fatto avvicinare alla cultura mainstream in realtà a me hanno fatto orrore. Tutto il mio incontro con quel mondo là m’ha fatto orrore e m’ha fatto pensare che la mia piccola riserva indiana è meglio e ci sto più sicuro. Quindi non voglio perdere i legami con quella roba, perché mi piace di più, e il giorno in cui dovesse piacermi di più quell’altra cosa, vorrebbe dire che sono diventato una persona diversa e che al me stesso di oggi non piacerebbe. L’unica responsabilità che sento è quella che dicevo prima rispetto al punk, ma anche rispetto ai centri sociali. Io all’inizio ho spinto molto sul fatto che venissi da quegli ambienti, perché non volevo che quando se ne parlava, quegli ambienti potessero essere rimossi, perché per me era importante sottolineare che questa cosa qua che c’ha un sacco di lettori veniva dai centri sociali. Quindi l’ho molto caricata e adesso mi trovo questa responsabilità che sento, ossia essere associato così tanto a quell’ambiente. Ogni tanto, quando vado a fare un’intervista da una parte o da un’altra, c’ho paura che quell’ambiente si vergogni di me. Il mio incubo è essere una mosca che può sentire i discorsi delle persone e sentire qualcuno che dica “ammazza, noi a quello abbiamo pure chiesto di disegnare la locandina”. Quella cosa là mi terrorizza, quindi in quello cerco di essere rigoroso, per evitare che si possa produrre quel tipo di situazione. Comunque è un modo per tenere la barra dritta.
[domanda dal pubblico] Avete dei riferimenti cinematografici/visivi, vi ritenete influenzati?
GF: Io sono assolutamente, credo, la persona più ignorante di cinema nell’universo. Può sembrare paradossale quando lo dico, anche perché poi mi dicono che nella struttura delle mie storie sembra che ci sia un’influenza cinematografica. In verità guardo due film all’anno, quindi a maggior ragione non dovrei giudicare chi legge poco.
ZC: Ma perché non ti piace o non hai tempo?
GF: No, la questione del tempo è relativa. La cosa paradossale è che quando mi trascinano al cinema mi piace, però non lo so, giuro che non lo so, è stranissima questa cosa. È veramente uno dei miei più grandi crucci, non riesco a capire come mai. Però no, non ho influenze da quel punto di vista. Tutto quello che mi viene di visivo nei miei libri, viene dal linguaggio dei fumetti e un po’ dall’arte, ma poco, per la maggior parte dai fumetti. So che è paradossale e non mi sono spiegato neanche bene, mi dispiace, è uno delle contraddizioni più grosse che ho a livello di arti.
ZC: Io invece vado un sacco al cinema ed è una delle poche cose che faccio. I concerti e il cinema sono le uniche due cose per cui esco di casa e che prevedano il contatto con tanta gente. E soprattutto guardo un sacco di serie tv.
Tu le serie tv le guardi? Ti influenzano nella scrittura?
GF: Le guardo, ma non lo so. A te influenzano?
ZC: No, per un cazzo.
GF: Neanche a me, proprio per niente.
ZC: Io però non farei niente se non ci fossero le serie tv: non cucinerei, non mi laverei i denti, non pulirei casa, non laverei i piatti, non disegnerei, non inchiostrerei. Io se non ho una serie tv in sottofondo non faccio nulla. Quindi mi influenzano nel senso che sono il carburante per vivere, però poi se devo vedere qualcosa nei contenuti di quello che disegno, per nulla allora.
GF: Anch’io per nulla, però ne guardo spesso e volentieri. Non parlerei di influenza, ma è una cosa che mi piace fare, è una cosa che mi dà piacere e gioia estetica o piacere e basta o anche solo relax e tranquillità.
[domanda dal pubblico] Entrambi siete molto timidi e tenete costantemente un basso profilo, pensate sia una delle caratteristiche della nostra generazione di ventenni/trentenni? Visto che in certo senso siete ‘arrivati’ e rappresentate comunque questa generazione, che consiglio vi sentireste di dare a chi vi sta davanti per coltivare un sogno o comunque andare avanti nel proprio percorso?
GF: Una volta in un’intervista che hai fatto tu Michele, ti hanno detto che rappresenti una generazione e tu hai risposto “ma de che”. È una cosa che assolutamente condivido e che a me mette pure a disagio. Né io né credo Michele ci sentiamo di rappresentare nulla in particolare, né ho delle opinioni così definite su quello che è una generazione per potermi esprimere con chiarezza sul fatto che determinati modi di essere siano generalizzabili o meno. Io cerco di vivermela a mio modo, molti miei amici – e forse sono miei amici proprio per questo – hanno questo genere di approccio con le cose, però ho anche conosciuto ventenni e trentenni che sono degli stronzi fatti e finiti oppure dei montati. Non credo sia una questione generazionale, ma non ho elementi conclusivi.
Invece, per chi scrive, suona, disegna etc. Mi limito al romanzo, che è la forma che coltivo io. Innanzitutto consiglio sempre di sviluppare abbastanza rapidamente un senso critico. È molto facile e anche molto comprensibile scrivere e dar da leggere a qualche amico e sentirsi dire “ah bravo, che bello” e pensare poi di essere Dostoevskij. In verità bisogna abbastanza rapidamente imparare a essere un po’ feroci con se stessi su quello che si scrive, il che va di pari passo col secondo consiglio: imparare rapidamente a riscrivere. C’è l’idea dello scrittore illuminato dallo Spirito Santo, che si mette lì con la penna d’oca e la prima stesura è quella giusta. Invece, perlomeno per quanto mi riguarda, è un lavoro molto artigianale: comporre, ricomporre, smontare. Una volta un mio amico e collega Paolo Cognetti disse che scrivere è come mangiare un granchio, butti via un sacco di roba, continui a spaccare chele e tutto, poi rimane poco, però quel poco teoricamente è buono.
Poi, in verità, mi è capitato di parlarne abbastanza recentemente con un ragazzo del liceo che chiedeva “cosa posso scrivere affinché sia pubblicato e abbia successo?”. Gli ho detto che se partiva così aveva già sbagliato tutto. L’unica cosa, il consiglio più importante, è non farsi mai dire da nessuno, nemmeno dal Padreterno – che non esiste, ma mettiamo che esista – che cosa scrivere. Scrivi quello che ti va, come ti va, se poi sei bravo e hai talento e hai tenacia – perché ce ne vuole tantissima – e sei uno che lavora sodo, probabilmente otterrai qualcosa. Sennò la vita è bella e varia e ci sono tantissime altre cose da fare.
ZC: Io sono d’accordo con tutto quello che ha detto Giorgio. Sembro quello che arriva dopo l’interrogazione, però è vero. Io pure non lo so se sia una caratteristica della generazione. Tutta una serie di cose che io ho attraversato negli ultimi due anni e mi hanno messo in crisi e in difficoltà e su cui ho dovuto ponderare, cercare di capire che cosa fare, penso che se fossero capitate ad altre persone che conosco ci starebbero una bomba, sarebbero le persone più felici del mondo e si riuscirebbero a godere tutta questa cosa molto più di quanto faccia io. Forse le persone che si leggono la nostra roba ci trovano degli elementi in cui si riconoscono e quindi sono più simili a noi. Però penso che c’è anche una grossa di fetta di persone che questa roba non ce l’ha dentro.
Per i consigli, credo alla fine che l’unica cosa che mi viene in mente è molto simile all’ultima detta da Giorgio: ascolta le cose, cerca di capire effettivamente quello che ha senso raccontare per te stesso prima di tutto. Intanto perché se racconti delle cose che non ti piacciono, non piacciono neanche a chi le legge. Io ogni volta che mi sono trovato a fare qualcosa obtorto collo, ho trovato che alla gente non piaceva, perché lo restituisci proprio quel senso di noia che ti accompagna mentre scrivi e disegni. Per il resto, mia nonna mi diceva sempre “guarda dritto o vai sbattere”: guarda le cose che stai facendo tu e non guardare quello che fanno gli altri.