Pilastro dell’intrattenimento per l’infanzia, ma apprezzabile anche da adulti più o meno cresciuti, i Babapapà sono nati come serie a fumetti nei primi anni Settanta, per poi ramificarsi in tanti rivoli commerciali, tra il merchandising, i libri e la serie animata. I coniugi Annette Tison e Talus Taylor – scomparso il 19 febbraio 2015 – hanno saputo combinare un concept semplice e intrigante a grandi tematiche sociali, lasciando un segno indelebile nell’immaginario collettivo.
Ecco 7 cose che ci hanno insegnato i Barbapapà.
1 – Il barbatrucco
Entrare nel lessico di una nazione è impresa degna di nota. I Barbapapà ci sono riusciti grazie al ‘barbatrucco’, definibile come metodo ingegnoso per risolvere un problema o, in negativo, come mezzuccio per evitarlo, il problema, invece che risolverlo.
In uso fin dagli anni Settanta, quando prese piede grazie all’arrivo della serie animata, è stata riconosciuta ufficialmente come parola dell’italiano solo di recente, quando entrò nell’edizione 2011 dello Zingarelli. Nell’idioma d’origine, il francese, i Barbapapà già s’erano insediati, dato che gli autori avevano preso il nome dal lemma francofono dello zucchero filato (‘barbe à papa’).»
«Resta di stucco, è un Barbatrucco!» è la traduzione del francese «Hupla hup Barba-truc!»; in inglese è stato reso con «Clickety-click Barba-trick!» e in giapponese, la più divertente: «バーバトリック».
2 – Il corpo, le forme e i colori
Nei lavori di Tison e Taylor l’apprendimento dell’infante passa anche per la conoscenza di forme e colori. Riuscire a verbalizzare concetti di figura e spazialità era uno dei tanti obbiettivi del fumetto. A questo si annetteva anche il discorso sul corpo: i Barbapapà, con le loro forme cangianti, aiutavano il bambino a conoscere e scoprire il proprio corpo, il movimento, la rappresentazione di sé e degli altri e, soprattutto, l’interazione esterna e conseguentemente la scoperta delle differenze sessuali.
3 – L’ecologia
I Barbapapà nascono sotto il segno dell’impegno civile, a ridosso dei moti francesi del 1968. Pur non contenendo la stessa carica sovversiva, furono uno dei primi fumetti con chiari messaggi ecologisti: il rispetto per la natura, i pericoli dell’inquinamento e la coabitazione tra specie. Gli esempi si sprecano: ne L’arca dei Barbapapà la famiglia è costretta ad abbandonare il pianeta, insieme a tutti gli animali, a causa dei danni alla natura provocati dall’uomo; in Barbapapà. La fattoria gli esseri a forma di pera entrano in contatto con gli animali da cortile e imparano a contemplarne le biodiversità. In trasparenza, quindi, le storie di Tison e Taylor mostravano anche messaggi di uguaglianza e solidarietà umana.
4 – La famiglia
Altra grande tematica del fumetto è quello della famiglia, che i Barbapapà declinavano in forme alternative: il nucleo dei protagonisti è numeroso e composto da esseri di colori diversi. Un nesso, secondo le parole di Taylor riportate da La Stampa, alle famiglie allargate:
«Abbiamo grande senso di responsabilità nei confronti di bambini e genitori. Barbapapà comunica infatti un senso della famiglia che tranne l’eccezione dei Simpson non è mai compreso nei cartoni animati. I Barbapapà sono amati dai figli di genitori separati proprio perché comunicano il senso di famiglia, per di più numerosa».
5 – La canzone
La sigla italiana del cartone venne scritta da Roberto Vecchioni, che adattò i componimenti dell’originale di Harrie Geelan e Joop Stokkermans. Il cantautore interpretò la canzone nella sua versione integrale, contenuta nell’album Barbapapà (scritto interamente da Vecchioni adattando e musiche di Stokkermans e contenente singoli come La canzone di Barbottina, Barbapapà Rock, Barbabella, bella, bella), insieme al coro Le Mele Verdi; fondato da Mitzi Amoroso, Le Mele Verdi si specializzò in jingle per cartoni animati per poi sciogliersi nel 1987 (tranquilli, fecero anche loro le obbligatorie reunion negli anni Duemila).
https://www.youtube.com/watch?v=ZSha0K1w2eo
Nel 1979, invece, la sigla venne cantata da Claudio Lippi e Orietta Berti, che prestarono anche le voci per tutti i personaggi dello show.
6 – Il soprannome di Eugenio Scalfari
‘Barbapapà’ è anche il soprannome con cui la redazione di Repubblica appellava il suo direttore Eugenio Scalfari, salito alla ribalta per essere stato compagno di classe di Italo Calvino.
7 – L’esportazione degli anime
Dimenticatevi Dragon Ball, Goldrake e i suoi circuiti di mille valvole. È solo grazie a Barbapapà che l’animazione giapponese è entrata di diritto nella cultura pop italiana – e di conseguenza europea, dato che lo stivale è stato il primo e più fertile terreno di crescita per l’anime.
Il cartone del 1974 è infatti una coproduzione eurasiatica: vi lavorò lo studio di Tokyo Top Craft, dalle cui ceneri nacque lo Studio Ghibli, ed è a tutti gli effetti un anime. Trasmessa a partire dal 13 gennaio 1976 dalla Rete 2 (l’allora Rai 2), fu la prima serie animata giapponese a vedere la luce nel nostro paese.
Nonostante molti anime cinematografici erano già arrivati in Italia a partire dal 1959, con opere come La leggenda del serpente bianco e La grande avventura del piccolo principe Valiant, fu Barbapapà – e il suo successo – a far decidere alla televisione di stato di puntare sugli anime e, negli anni successivi, a importare Vicky il vichingo, Heidi e Atlas UFO Robot.