Ok, partiamo dall’assunto che criticare Zerocalcare si può, si deve persino. Lasciamo da parte per ora che “criticare” non va necessariamente declinato in maniera negativa, ma piuttosto come l’esercizio di un giudizio, che non per forza – anzi – deve risolversi in una stroncatura. Del resto ci si potrebbe anche lamentare di chi, sotto il mantello della critica, nasconde la lode sperticata, l’incensazione da fan, la sospensione del giudizio, appunto, trasformando il ragionare in adorare.
E perché si deve criticare Zerocalcare? Perché ogni fenomeno, specialmente se di enorme successo, chiede di essere analizzato. E perché è utile e anche divertente capire come funzionano o non funzionano le cose, perché riscuotono consenso, perché comunicano, a chi comunicano e con quali modalità. Insomma, tutto questo credo che possiamo darlo per assodato. Naturalmente l’analisi che la critica sottintende può partire da una questione di gusto, da un’innamoramento o da una repulsione. In un mondo ideale il critico dovrebbe potere o sapersi educare a mettere da parte il proprio sentimento iniziale e sviscerare l’opera sia a prescindere dal proprio gusto sia dall’autore che l’opera ha creato. Questo in un mondo ideale. Ma siccome l’idealità, per chi ci crede, appartiene a più alte sfere, possiamo tranquillamente dire che questo non è quasi mai possibile. Togliamo pure il quasi.
C’è però la controparte del critico, il lettore, che invece del proprio innamoramento – in parte giustamente – se ne fa un vanto, lo esibisce, lo espone. Dell’illogicità se ne frega, lui ama. Del sentimento che il critico, senza riuscirci cerca di tenere domato, lui ne fa il proprio centro. E questo è un meccanismo naturale, in quanto tutti i critici sono fan, ma non tutti i fan sono critici (e per fortuna). Eppure la modalità di approccio del fan ha un peso anche sulla creazione e sulla successiva percezione dell’opera. Entriamo nel vivo.
Sulla legittimità della critica, intesa in senso negativo, dell’opera di Zerocalcare (e collateralmente anche dell’uomo Michele Rech) ed in particolare in riferimento al recente Kobane Calling si è espresso Valerio Mattioli in un articolo pubblicato su Vice. Alle posizioni di Mattioli si è allineato anche il nostro Gianmaria Tammaro. Il mio approccio sarà un po’ diverso, ma è interessante tenere presenti alcuni passaggi di questi due articoli. Mattioli, in particolare, dopo aver specificato tutti i motivi per cui non ama l’opera dell’autore, afferma:
[…] a me Zerocalcare non piace. Non piacciono i suoi fumetti, intendo. Il modo in cui sono disegnati, le storie che raccontano, lʼautobiografismo al tempo stesso sentimentale, ironico e consolatorio, gli armadilli e gli “accolli”, gli ammiccamenti generazionali e gli “stacce”.
In una qualche maniera si arrende e ammette che Kobane Calling funziona, nel senso raggiunge lo scopo che Mattioli immagina che Rech si sia fissato, cioè quello di «raccontare la resistenza dei curdi del Rojava contro lʼISIS sul confine turco-siriano», aggiungendo «non so perché; forse veramente perché lui a Kobane cʼè stato e io no». Tammaro sottolinea, fra gli altri, anche questo punto dell’articolo di Vice.
Mattioli ammette che ha dovuto sospendere il suo giudizio dopo aver letto Kabane Colling (nonostante i cliché, le cose già lette e già viste, i tiri a porta vuota di Zc). L’ha dovuto sospendere perché, forse, «effettivamente lui c’è stato e io no» a Kobane. E quindi, anche se a tentoni, c’è il tentativo supremo che dovrebbe compiere un critico: quello di mettersi nei panni (e capire, subito dopo, che non gli appartengono) dell’oggetto o dell’autore criticato.
Non so se il tentativo supremo del critico sia quello di «mettersi nei panni […] dell’autore criticato». Certo, bisogna saper tenere presenti alcuni elementi – la contestualizzazione storica, la formazione etc. – ma se questi elementi sono mancanti (che so, nel caso di un’opera anonima ad esempio) bisognerebbe forse arrendersi?
Credo che sia interessante conoscere molte cose dell’autore – oltre che utilitaristicamente parlando molto più comodo – ma in realtà quello che deve interessare è l’opera. Non solo perché è attraverso l’opera che l’autore ha deciso di parlare ma anche perché è quella che più onestamente abbiamo sottomano. Poi ci sono critiche e critiche. Un saggio monografico su un romanziere deve tenere ben presente sia le dichiarazioni che la biografia dell’autore, ma un articolo che analizzi una singola opera, specialmente se di uno scrittore/fumettista/etc. a noi contemporaneo, beh… può anche, relativamente, fregarsene.
Chi non può proprio fregarsene è invece il fan. Il fan cannibalizza l’autore, raccoglie sempre più informazioni su di lui, è presente quando lui è presente, assiste ai suoi incontri pubblici, commenta le sue dichiarazioni e identifica al tempo stesso l’autore con l’opera e se stesso con l’autore. Questo accade in special modo nel caso di un autore mediaticamente generoso come Zerocalcare, che inoltre rende se stesso protagonista della propria opera, attraverso quell’ “autobiografismo spesso sentimentale” sottolineato da Mattioli. Va da sé che per questo tipo di fan ogni attacco portato all’autore viene percepita come una pugnalata alla propria viva carne. Questa è una modalità di fruizione e di assimilazione che chi approccia un’opera non può permettersi di prendere in considerazione.
Togliamoci subito il dente. A me Kobane Calling non è piaciuto. Voglio dire di più. Mi sono fermato a pagina 13 (in realtà poi, per scrivere questo articolo l’ho letto tutto ma fingiamo che io non l’abbia fatto). Essendomi fermato a pagina 13 per amor di completezza ho chiesto ad un’amica di cui mi fido e con cui sono spesso in disaccordo di leggerlo e commentarlo al posto mio. Troverete il suo interessante pezzo in coda a questo. Kobane Calling non mi è piaciuto per molti dei motivi citati da Mattioli – ma non tutti – e per altri che coinvolgono più in generale il mio relativo disinteresse verso l’intera opera dell’autore. Non sono così severo come l’articolista di Vice.
Credo che Zerocalcare abbia delle capacità di racconto e di disegno notevoli ed è un fatto che sia riuscito a creare un proprio stile riconoscibile allargando la propria comunità di lettori – e credo che tutti sappiamo quanto sia vasta ora – ben oltre i confini che la sua storia personale, i suoi interessi, l’utilizzo di regionalismi e la cifra fortemente generazionale che contraddistingue i suoi lavori avrebbero potuto far presupporre come a lui connaturati. Ha, creato, insomma, una comunità. Una comunità in gran parte costituita da fan. Io in questa comunità non riesco a riconoscermi e questo ha un peso non indifferente sulla mia percezione delle sue opere. Il fatto che mi sia fermato a pagina 13 dipende anche da questa mia estraneità. È infatti proprio in queste prime, per me interminabili, pagine che l’autore, dopo un breve riassunto sulla situazione kurda, sviluppa una lunga riflessione analizzando le motivazioni che lo hanno spinto a partire. Personalissime motivazioni. Tutto il discorso è condotto all’insegna della riduzione, della “sminuizione”, della giustificazione.
Facciamo qualche esempio partendo dalla tavola di apertura. Il sottotitolo dell’opera recita: “facce, parole e scarabocchi da Rebibbia al confine Turco-Siriano”. Più sotto possiamo trovare la dicitura “Zerocalcare è un fumettista romano. Il suo ultimo libro è Dimentica il mio nome”. Non un autore italiano, dunque, o perlomeno non solo, ma romano, anzi, addirittura di un quartiere della capitale. Questo è un elemento che nella scrittura biografica dell’autore ha un ruolo particolarmente importante e che i suoi lettori affezionati hanno imparato a riconoscere. Dove un Joe Sacco sarebbe stato presentato come Maltese o Corrado Formigli – tanto per citare un giornalista che recentemente ha realizzato un bel reportage da Kobane – forse come napoletano, Reich si presenta come “di Rebibbia”. Questo serve a configurare il suo punto di vista e il successivo reportage come quello di un non professionista, anzi, da uno del popolo, da uno di noi.
Più che un reportage, dunque, il viaggio, un po’ sconclusionato di un ragazzo di borgata. I lettori non in confidenza con i temi trattati possono quindi sentirsi rassicurati. Il racconto sarà al loro livello, non sarà un’analisi particolarmente complessa ma, per così dire, sarà quasi come trovarsi lì. Del resto quello che stanno acquistando prima che un reportage su Kobane è una storia di Zerocalcare, questo non può essere dimenticato. Per gli stessi motivi il breve riassunto di due tavole sulla situazione kurda viene chiamato insolentemente “pippone”. Zerocalcare suggerisce, a chi conosca già l’argomento, di “skipparlo” o “zomparlo”. L’avatar grafico dell’autore, per l’occasione, è stato fornito di un paio di occhiali che lo configurano, nella logica caricaturale del fumetto, come un intellettuale, cioè appartenente a quella categoria di “laureati” sbeffeggiati nella vignetta precedente (non che i laureati non possano dire enormi fregnacce, anzi, ma qui il collegamento è diretto).
L’armadillo, contraltare critico dell’autore, una sorte di grillo parlante collodiano, lo rimprovera in conclusione del “pippone”: «Mentre sali [a casa dei suoi genitori, Ndr] io porto un fiore per tutti gli storici, gli analisti geopolitici e gli amanti dell’approfondimento morti nella lettura del tuo riassunto». Zc riprende lo stesso artificio retorico anche nel disegno che il Venerdì di Repubblica ha utilizzato per una copertina di qualche settimana fa, compiendo una sorta di recusatio. L’espediente, insomma, è quello di abbassare le aspettative dichiarandosi ripetutamente indegno dell’opera intrapresa.
Eppure le aspettative dei lettori di Zc – molti dei quali sono sicuramente confluiti nel gruppo degli acquirenti di Internazionale – sono già chiaramente definite.
Non pago Zc ritarda ancora il reportage vero e proprio, di cui finora abbiamo avuto solo un assaggio nelle prime tavole, per raccontarci altri due momenti: il proprio interrogarsi sulle motivazioni della propria partenza e la – presupposta traumatica – comunicazione della notizia ai propri genitori. Con sincera onestà, Zc elenca fra le motivazioni anche una certa voglia di riscatto: «E mo’ chi cazzo è il fumettista disimpegnato? Io so’ stato a Kobane, ammerda». Questo tipo di autodenigrazione o, se si vuole, di sguardo impietoso rivolto verso se stessi, è uno degli elementi che caratterizzano gran parte del fumetto autobiografico contemporaneo, che per certi versi potrebbe quasi configurarsi come un genere a sé stante. Se l’autore si pone al centro del proprio dileggio siamo portati a credergli. Chi attirerebbe su di sé il disprezzo se non per un fine più alto? Zc, comunque, sembra ormai rivolgersi direttamente alla propria platea, come nota anche Mattioli:
Cʼè un che di perverso nelle diatribe che Zerocalcare va suscitando da mesi. Da una parte ci sono i suoi fan, o perlomeno i più integralisti tra questi, per i quali Rech è una specie di santo, di icona inviolabile, e se provi a muovere mezza critica a storie tipo il Tizio-cozza ti rispondono “Eh ma tu a Kobane mica cʼhai le palle di andarci” (un atteggiamento a cui sembra alludere lo stesso Zerocalcare nel suo reportage per Internazionale, quando sbotta “E moʼ chi cazzo è il fumettista disimpegnato? Io soʼ stato a Kobane, ammerda!”). Dallʼaltra, ecco un agguerritissimo stuolo di arcinemici per i quali lʼautore di La profezia dellʼarmadillo è responsabile di nefandezze che manco Fabio Volo. È anche un partito piuttosto trasversale, che va dai duri e puri dellʼunderground a Guia Soncini, il cui “noi almeno avevamo Serra” racconta la statura del personaggio. Comunque.
È dello stesso tono, del resto, la presentazione che lo stesso Zc fa del reportage sul suo blog:
Il millantato storione sull’assedio di Kobane alla fine si trova da oggi venerdì 16 gennaio in edicola su Internazionale. C’ho messo un sacco di tempo perché sono 42 pagine e quindi mi vale come bonus per il blog, a cui ora posso ricominciare a dedicarmi.
Alcune informazioni per chi se lo va a comprare, per esempio, COSA CI TROVERETE:
-Un racconto il più possibile onesto di quello che ho vissuto durante il viaggio e nei giorni immediatamente precedenti, sia dal punto di vista emotivo che da quello della cronaca, comprese le contraddizioni e i dubbi del caso.
-Un tentativo di tenere un equilibrio tra il pippone didascalico e la cazzata spicciola. In certi punti spero di non aver fatto nessuno dei due, in altri probabilmente li ho fatti entrambi, però oh se nascevo imparato non stavo qua.
-La mia risposta (una delle tante) alle questioni che sollevano i fatti di Parigi.
COSA NON CI TROVERETE:
-Il sensazionalismo i morti i cadaveri.
-Un trattato preciso, esaustivo e imparziale di storia e geopolitica.
-Delle anatomie disegnate decentemente.
Sembra non esserci più un lettore anonimo, standardizzato, indefinibile dall’altra parte della pagina, ma un fan, un aficionados, che oltre a conoscere l’opera di Rech si interfaccia ad essa anche attraverso i retroscena che la coinvolgono. Ad ogni modo dopo questa lunga premessa il fumettista finalmente arriva a raccontare il proprio viaggio. La mia (prima) lettura si è fermata un paio di tavole più avanti, quando al confine della zona di conflitto Zc è tornato su uno dei suoi più famosi tormentoni, quello dei plumcake. In quel momento, da lettore, ho capito che non era cosa per me.
Mattioli, fra i molti altri, invece è andato avanti. Pur credendo che Kobane Calling abbia dei meriti non credo siano sufficienti ad attrarre il mio interesse. Fra questi meriti c’è sicuramente quello di portare il dramma del popolo kurdo ad una platea molto ampia, raccontandolo in una maniera accattivante e attraverso degli stratagemmi che l’abituale frequentazione da parte del suo pubblico (Zc pubblica da tempo, fra le altre cose, una striscia su Internazionale) ha reso facilmente riconoscibili e famigliari.
Insomma, Zc ha trovato una chiave attraverso cui raccontare le proprie storie, si è forse eccessivamente cementificato intorno ad alcuni leitmotiv di successo ma ciò al tempo stesso gli ha permesso di crearsi un solido zoccolo di appassionati che ora “monetizza”, per così dire, anche su progetti più “importanti” come questo. Tanto di cappello. Però questo non mi basta. L’impegno politico o sociale non si è mai configurata come elemento né minimo né sufficiente a costruire un buon racconto e l’unica cosa che mi viene da dire è «scansati da queste vignette e fammi leggere la tua storia». Su questo punto non concordo con Mattioli, che afferma: «L’ho letto e per una volta mi è venuto di sospendere il giudizio, perché… non so perché; forse veramente perché lui a Kobane cʼè stato e io no».
Il “lui c’è stato e io no” non basta più come motivo per rendermi interessante una storia. Anche Guy Delisle è stato in molti posti che probabilmente non vedrò mai ma il suo sguardo e il suo modo di raccontare nel migliore dei casi mi lasciano indifferente, nel peggiore mi indignano. Anche Joe Sacco è presente nei propri reportage, ma con una discrezione che non mi infastidisce ma che anzi serve a condurre il racconto senza sopraffarlo o soffocarlo.
Non viviamo più (o quasi) in tempi in cui alcune storie, alcuni conflitti, alcuni paesi, potevano essere raccontati solo da quei pochissimi che c’erano stati e quindi il loro racconto assumeva un valore testimoniale a prescindere dallo stile con cui era condotto. C’è la possibilità, oggi, di scegliere come informarsi – anche se alcune “storie” sono meno coperte, meno raccontate di altre, naturalmente. Anche sulla tragedia di Kobane, che i media hanno raccontato e approfondito poco, è possibile informarsi attraverso altri canali, attraverso altri punti di vista. Quello di Zc mi interessa poco perché mi interessa poco il suo modo di raccontare, perché lo trovo ripetitivo e a tratti semplicistico, perché il tono eccessivamente intimista, confessionale e “piacione” dei suoi racconti, specialmente in questo caso, mi irrita. Forse perché non sono un fan.
Reportage da Kobane, di Cecilia Alessandrini
Davvero uno strano destino quello del popolo curdo passato in pochi mesi dall’oblio ostile alla ribalta folclorista attraverso le foto delle sue donne in armi. Ho osservato in queste settimane la crescita di interesse intorno ai curdi chiedendomi quanto se ne sappia davvero, in Occidente e in Italia in particolare, delle istanze e delle rivendicazioni di questo popolo che adesso improvvisamente ha acquistato appeal mediatico per la sua strenua difesa della libertà rispetto alla barbarie rappresentata dall’ISIS.
Qualche giorno fa ho mostrato ad una delle mie classi una mappa tematica del mondo con i conflitti in corso mettendola a confronto con una di 20 anni fa. La difficile situazione in cui è scivolata l’Europa assediata nei suoi confini orientali da guerre e conflitti balza agli occhi in modo evidente senza che però nessuno ne parli mai davvero. I più accorti di noi fiutano il pericolo, la maggioranza non sa nemmeno perché improvvisamente ci ritroviamo ad affrontare da tre anni una forte ondata migratoria proprio dalla Siria.
Da anni abbiamo il Mediterraneo agitato da conflitti sociali, economici e geopolitici di ogni tipo a seguito della rottura di equilibri che duravano da decenni, abbiamo il Medio Oriente sempre più in fiamme e sempre più attorcigliato su stesso, abbiamo la Russia che è tornata ad affacciarsi come grande potenza mondiale, e poi ci siamo noi “Europa” sempre più smarriti nei nostri valori e soprattutto nelle nostre politiche interne ed esterne e che dimostriamo di non sapere proprio che pesci pigliare in questo casino di conflitti che non accenna a diminuire.
Per fortuna dunque che sono arrivati i curdi a salvarci dal dover prendere noi qualche decisione difficile. Sì perché mentre il vecchio continente europeo percorre la stessa strada dell’ignavia che 20 anni fa lo portò a tollerare la sanguinosa guerra nei Balcani (anche quella alle porte di casa) l’attivismo vivace e la resistenza di questo popolo curdo senza patria ma con una precisa identità e una precisa idea rispetto ai valori sui quali fondare una convivenza civile ha fatto irruzione nei media occidentali conquistandosi, finalmente, molte simpatie; anche perché, diciamolo chiaramente, ci stanno togliendo le castagne dal fuoco questi bravi ragazzi curdi!
Ci pensano loro a respingere l’ISIS così nel frattempo gli Stati Uniti e l’UE possono gestire il delicato equilibrio che si è venuto a creare dentro la NATO con la Turchia, fedele alleato in quell’area, che piuttosto che rischiare di perdere un pezzetto di territorio in favore di quello che potrebbe diventare il mai nato ma sempre richiesto a gran voce “stato curdo” fa finta di non fare nulla e in realtà favorisce con mezzi e mezzucci l’ISIS e i suoi combattenti. Per non parlare dei difficili rapporti con gli altri califfati che, si sa che finanziano l’ ISIS. Tipo l’Arabia Saudita con la quale la NATO dimostra un livello di pazienza e tolleranza raro nella sua storia.
Gran parte di questo contesto geo politico così complicato e così poco lusinghiero per l’Occidente emerge chiaramente anche dal reportage a fumetti da Kobane di Zerocalcare uscito qualche settimana fa su Internazionale. Realizzato senza dubbio con il “cuore”, come lo stesso autore evoca, è stato uno sforzo di disseminazione di notizie importanti sicuramente sconosciute a molti. Un’operazione apprezzabile anche perché ha reso fruibile a diversi livelli di persone un contenuto complesso, affatto scontato e sicuramente poco conosciuto.
Dal reportage emergono ad esempio alcuni aspetti che non vengono mai trattati sui grandi media come la particolare organizzazione della regione del Rojava che attraverso una vera e propria rivoluzione culturale e sociale ha portato anche ad un grande livello di emancipazione delle donne nell’ambito della stessa religione musulmana. Si capisce dunque meglio che le foto delle donne combattenti per la libertà di Kobane non hanno nulla di folcloristico ma sono la rappresentanzione plastica dell’idea di condivisione della libertà e dell’autonomia e di cosa si è disposti a fare per salvaguardarla.
Tutto questo ai nostri occhi di occidentali sembra ancora più strano poiché pienamente inserito all’interno del mondo musulmano. Leggendo il reportage di Zerocalcare mi tornano in mente le parole di un gruppo di “femministe” musulmane di diverse provenienze incontrate molti anni or sono che mi spiegarono il loro pensiero secondo il quale il percorso di emancipazione femminile, differentemente da quanto avvenuto negli anni’70 in Europa, dovesse avvenire all’intero dell’ambito religioso e attraverso l’uso liberatorio dello stesso Corano.
L’unica vera omissione – non so quanto involontaria – che fa (anche) Zerocalcare è relativa alla mancanza di un qualsiasi accenno al ruolo fondamentale che ha avuto il PKK nella crescita della consapevolezza sociale del popolo curdo. In tutti i media, compreso il reportage di Zerocalcare, il PKK è il grande assente della storia presumo in quanto formazione armata di stampo marxista considerata terroristica dalla Turchia, dall’UE e dagli USA. Eppure si sa che è stato il PKK a rifornire i combattenti di Kobane di armi, cibo e munizioni (se avessero aspettato l’UE o la Turchia o anche gli USA l’ISIS li avrebbe spianati con poco sforzo) oltre ad avere da anni un grande ruolo di emancipazione culturale dei curdi.
Voglio chiudere questa breve riflessione dunque ricordando le tre militanti curde del PKK uccise a Gennaio 2013 in pieno centro a Parigi con proiettili sparati alla nuca e al petto da assassini mai identificati. Una di loro era tra le fondatrici del partito le altre erano due giovani militanti. I media internazionali, come era prevedibile, diedero poco spazio alla notizia, l’assedio di Kobane e la sua ribalta mediatica era ancora lungi da venire ma credo che quegli omicidi e quel silenzio internazionale la dicano lunga su molte altre cose. Speriamo che tutta questa vicenda di Kobane, che il tributo di sangue alto pagato dal popolo curdo per respingere l’ISIS serva finalmente a spezzare nell’opinione pubblica occidentale l’oblio per la causa curda e per le sue istanze, qualora così fosse anche Zerocalcare con la sua opera sicuramente avrà dato un grande aiuto.
Leggi anche: “Macerie prime. Sei mesi dopo”, il manifesto generazionale di Zerocalcare