Interstellar è il nuovo film di Christopher Nolan, con Matthew McConaughey, Jessica Chastain, Anne Hathaway e Wes Bentley. Verrà distribuito nelle sale italiane dal 6 novembre. Sono andato a vederlo in anteprima e vi racconto cosa ne penso.
«Non nuoce al mistero il saperne qualcosa. Perché la realtà è tanto più meravigliosa di quanto artista alcuno del passato immaginasse! Perché i poeti del presente non ne parlano? Che uomini sono i poeti che parlerebbero di Giove se fosse simile a un uomo, ma se egli è un’immensa sfera ruotante di metano e di ammoniaca restano in silenzio?» – Richard Feynman
Un po’ di spoiler sulla trama. La Terra sta diventando inabitabile. L’umanità è sull’orlo dell’estinzione. Un gruppo di coraggiosi parte alla volta dell’Universo per trovare un nuovo pianeta abitabile. In seguito a diverse peripezie, dopo aver attraversato il tempo e le dimensioni, visitato tre pianeti ed essere caduti in un buco nero, scoprono che quello che può salvare la nostra razza è solo l’amore.
Cosa è successo alla fantascienza cinematografica? Figlio della deriva metafisica e spirituale del genere, ma impostato come una interminabile puntata di una soap opera sudamericana, Interstellar mette a nudo tutti i limiti dei fratelli Nolan, nei film precedenti più o meno nascosti sotto il tappeto di trame più farraginose che complesse.
Quello dei Nolan è un cinema spettacolare che da sempre si traveste con gli abiti dell’autorialità, nel tentativo di proiettare l’idea di opere che trascendono il genere cui appartengono, rivelandosi poi invece, il più delle volte, dei gusci vuoti. E quando, come nel caso di Interstellar, gli aspetti spettacolari sono ridotti all’osso e per lo più mutuati da altri generi – il dramma familiare, l’avventura marinaresca, la ghost story, etc. – l’inconsistenza degli assunti si esplicita attraverso momenti a volte quasi involontariamente parodici.
I Nolan cercano insistentemente – e spesso esplicitamente – di inserirsi nella scia di autori come Kubrick e Tarkovskij ma battute come (cito a memoria): «come potevi essere sicura che sarei tornato?» «perché il mio papà me lo aveva promesso» o – quando il protagonista affronta un viaggio in un buco nero che lo proietta in uno spazio pentadimensionale – «come puoi essere sicura di trovarla?» «perché mi guida l’unica forza che trascende il tempo, lo spazio e la gravità, l’amore», vanificano fin troppo facilmente l’impresa.
Ce ne sono tante, troppe di parole in questo film e ,anche se rappresentano solo uno dei molti problemi della pellicola, questa prolissità è sintomatica della sfiducia che regista e sceneggiatore nutrono nei confronti delle immagini che mettono in scena. E cos’è, quello fantascientifico, se non un cinema d’immagini, un cinema che riscrive, o per lo meno dovrebbe riscrivere, il nostro immaginario?
Siamo ben lontani dal futuro rarefatto e umanissimo di Solaris, così come da quello iper scientifico e perciò astratto di 2001: Odissea nello spazio. La messa in scena galattica di Interstellar si rifà, piuttosto, alla scientifica correttezza di un documentario promozionale della NASA. Del resto, dopo lo scossone rappresentato da Guerre Stellari che, a partire dal 1977, risollevò le sorti della fantascienza più orientata verso aspetti fantasy, favorendo il rinascimento di quella space opera che sembrava essere stata sepolta dal terremoto della new wave letteraria statunitense e soprattutto britannica, non ci si dovrebbe lamentare di un ritorno ad una science fiction antropologica e questo sembra l’intento di molti degli ultimi blockbuster d’autore legati al genere, compreso Interstellar. Ma se Alfonso Cuarón in Gravity, pur utilizzando un repertorio iconografico da opuscolo dei Testimoni di Geova, tenta una strada più coraggiosa, lasciando la propria protagonista in balia dell’immensità del vuoto e di se stessa (ma quante parole, quante parole anche qui), e Duncan Jones in Moon, ancora un volta tenendo ben (troppo) presente l’imprescindibile Solaris – ma anche Blade Runner e persino Wall-E – riflette sull’idea stessa di umanità, Nolan riesce a tradire totalmente l’assunto che ha posto alla base della propria opera.
In Interstellar lo sguardo è talmente antropocentrico da essere disarmante, a tratti persino offensivo. La Terra sta morendo. Il problema è la carenza di cibo che ha decimato la popolazione e che ha trasformato la maggior parte dei superstiti in agricoltori. Quelli che sembrano essere degli alieni pentadimensionali aprono un wormhole nello spazio per permettere all’umanità di raggiungere altri pianeti e, di fatto, depredarli, replicando all’infinito la drammatica storia: consumato un pianeta troviamone un altro. Tutto sembra creato ad uso e consumo dell’uomo, ogni pianta, ogni animale, ogni pianeta, pur non mancando le sparate ecologiste di maniera («pensa ad un mondo in cui sei miliardi di persone vogliono tutto. questo mondo non è così male»).
L’universo, con la sua infinita desolazione, sembra essere l’ultimo luogo ancora incontaminato ma, sorpresa, quegli esseri pentadimensionali che sono stati capaci di piegare il tempo e lo spazio, che piazzano cunicoli spazio-temporali a nostro uso e consumo come un qualsiasi speculatore edilizio, non sono alieni, ma sono la nostra, evoluta, versione del futuro. Non c’è più spazio nello spazio verrebbe da dire. E i pionieri che solcano l’immensità e le dimensioni invece di aspettare la morte sulla veranda di casa, più che eroi sembrano solo iper-tecnologici predoni. E tutto, naturalmente, in nome dell’amore che non solo muove «la vita, l’universo e tutto quanto» e che giustifica tutto. E l’amore, unito alla scienza, sembra imbattibile. Perché, seppur ci viene detto che bisogna mettere da parte la razionalità per leggere spazio, tempo e materia con gli occhi umidi di un sentimentalismo da Harmony, non ci viene risparmiato neanche il più becero dei dualismi che vede contrapposti i contadini ignoranti, patriarcali e violenti – quelli che tengono i piedi per terra (Terra), in molti sensi – che liquidano l’era spaziale come propaganda simil-superstiziosa, e gli scienziati, avventurosi e fieri superuomini, talmente nobili da riuscire nella più ardua delle imprese, quella di mettersi in discussione se stessi e le proprie granitiche convinzioni.
Non ci si può esimere dal confrontare, inoltre, questa pellicola con uno dei più recenti esempi di quella fantascienza cinematografica che si contamina con tematiche religiose: Contact, tratto dal fondamentale romanzo di Carl Sagan. Ma il coraggioso agnosticismo di Sagan, che nel film vira con più decisione verso un ateismo sì dubbioso ma perfettamente consapevole, e la anti-hollywoodiana messa in scena di Zemeckis, sono molto lontane dall’infinito, melenso e frettoloso polpettone post new-age di Nolan.
2001, Solaris, Contact. Tutte pellicole che affrontano i più grandi dei misteri conosciuti – il nostro ruolo nell’universo, il mistero dell’identità, quello del concetto stesso di umanità – ma restando aperti al dubbio, fornendo tante domande quante risposte. Il cinema di Nolan, come al solito, non è invece parco di risposte – la trottola di Inception, il cui destino può tranquillamente lasciare indifferenti non rappresenta un’eccezione – e la luce della chiarezza illumina al fosforo ogni angolo buio dove potrebbe annidarsi un po’ di mistero, e anche qualche traccia di poesia. Le sovrastrutture più esplicite dei classici della fantascienza di cui sopra vengono malamente adattate ad un racconto che più didascalico non potrebbe essere. Vengono spiegati, ripetutamente, insistentemente, i misteri del cosmo, della fisica dell’uomo, dell’amore. A tutto, pur guidati dall’ineffabile sentimento, si arriva attraverso una sterile chiarezza da manuale d’istruzioni. Quando il dubbio affiora, viene subito respinto, sviscerato, dissezionato, atomizzato. Pur di dare una risposta ad ogni cosa ci si spinge fin dentro un buco nero, nelle viscere di uno dei più grandi misteri della fisica per scoprire che anche lì tutto ruota intorno all’uomo, alla sua singolarità, al suo egocentrismo, alla sua vita e ai suoi ricordi. Tutto è compreso, o lo sarà, tutto è a portata di mano, o lo diventerà. La stanza della piccola Murph non è la stessa stanza bianca di 2001: Odissea nello Spazio. Nella prima viene risolto un enigma, nel secondo questo si dischiude. In Interstellar l’uomo vitruviano assume proporzioni cosmologiche e 42 è destinato a restare solo un numero come tanti.
Questo antropocentrismo si risolve, sul piano stilistico, attraverso una macchina da presa che assedia i volti dei personaggi, con stretti primi piani a spiarne le reazioni, mentre l’universo e i pianeti e i fenomeni che lo popolano sono sempre mostrati, didascalicamente, in campo lunghissimo. C’è poco spazio, qui, per i virtuosismi registici, quei pezzi di bravura – penso alla sequenza dell’albergo in assenza di gravità di Inception – che restano, nella loro singolarità, fra le cose migliori nel cinema di Nolan. La sceneggiatura è frettolosa e poco originale e pesca a piene mani in tanta letteratura e cinema fantascientifica del passato più o meno recente: il romanzo Morte nell’erba per lo spunto iniziale, ad esempio, ma anche stereotipi consolidati come «il migliore pilota [soldato, fisico etc.] disponibile si è ritirato da tempo, ma è solo lui che può risollevare le sorti dell’umanità», come succede anche, senza andare troppo lontano, nel recente Pacific Rim.
I protagonisti, schiacciati dal peso del ruolo profetico che sono costretti ad incarnare, si muovono così meccanicamente per tutto il corso del film. Chi deve partire parte, e non importa se la fretta non sembra giustificata da nulla e la preparazione scientifica inadeguata costringerà ad inserire interminabili spiegoni più avanti nell’azione, chi deve morire muore, chi deve tradire tradisce (quello di Matt Damon è forse l’unico personaggio davvero interessante del film) e cose esplodono quando devono esplodere.
Ma, si sà, queste sono piccole cose di fronte a «L’amor che move il sole e l’altre stelle.» Peccato che l’amore di Nolan manchi di poesia, empatia e, infine, umanità.