«Noi non siamo San Diego. Noi non vi daremo una semplice caramella. Noi siamo New York!.»
Sono le parole di apertura della New York Comic-Con, giunta alla nona edizione e mai così grande. Perfino più di San Diego, stando ai numeri di quest’anno. 151.000 presenze per una manifestazione così giovane – nata nel 2006 – è un ottimo risultato, raggiunto anche grazie allo spostamento dai freddi giorni di gennaio delle prime edizioni al mese di ottobre delle più recenti, nonché al carisma di una città che offre, al contrario di San Diego, un corollario di attività turistiche degne di nota. Insomma, vieni per i fumetti, resti per la città.
Vista poi l’aria d’incertezza che tira in California (la convention è blindata fino al 2016, ma lo stop degli ampliamenti da parte dell’amministrazione locale potrebbero farla traslocare), la Comic-Con di New York sta capitalizzando l’attenzione delle industrie, incluse quelle cinematografiche, disposte a muoversi dalla loro casa losangelina per promuovere i loro prodotti.
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L’aspettativa
Decidere di andare a una convention, ora come ora, è un impegno a lungo termine. Prima di questa, ero stato a un paio di Comic-Con sul suolo americano (San Diego, Toronto e Chicago). Tutte in anni non sospetti – o almeno in anni in cui non c’era l’esplosione di pubblico derivante dalla generalizzazione di una cultura di nicchia – e una sola (la San Diego del 2004) con una ressa di una certa importanza. E nonostante tutto, all’epoca i biglietti li avevo comprati in loco.
Dieci anni dopo, sulla costa est, le cose sono cambiate. I biglietti per New York sono stati rilasciati su internet in primavera a scaglioni, onde evitare il crash ai server del sito, e sono stati venduti nell’arco di poche ore. Tranne quelli del giovedì, disponibili ancora qualche giorno prima dell’inizio della mostra. Le ragioni del disavanzo sono molte: giovedì è una giornata lavorativa (e fin qui poco male, durante il pre-panel della Disney il moderatore ha chiesto quanti nel pubblico stessero bigiando scuola o lavoro, e le mani alzate erano molte), apre a mezzogiorno e ha un calendario di incontri e ospiti relativamente moscio.
Io, infatti, ci sono andato di giovedì, il primo giorno. Un giovedì di sole che ha reso sopportabile l’attesa fuori dal Javits Center, un complesso a ovest di Manhattan dal disegno felice: vetro e acciaio, senso di apertura e ariosità. Resta pur sempre un centro convegni, quindi nelle vicinanze non aspettatevi di trovare altro se non fabbricati e stabili lavorativi. Ma la city è poco distante e l’agibilità è tra le migliori.
Non sapevo bene cosa aspettarmi, a parte calca, caldo e code, code esterne, interne, seduto o in piedi, ai panel, all’Artist’s Alley, ai bagni. Sta di fatto che di calca ce n’era il giusto, di caldo neanche l’ombra – grazie agli altissimi soffitti del Javits – e code… Be’, di code sì, ne ho fatto parecchie. Ma erano code quasi trascendentali, file indiane a maglie larghe che in Italia si sarebbero trasformate in baruffe chiozzotte nell’arco di due secondi. Un imbucato, uno sforo impunito, un sorpasso, sarebbe valso tutto per strappare anche solo una posizione di vantaggio. Qui no, anche perché superare la massa di persone equivale a fare circumnavigazioni magelliane parecchio dispendiose in termini di energia. I bagarini, quelli ci sono anche a New York, ma non è che la gente dia loro molta retta, dato il prezzo esorbitante a cui sparano il biglietto da quattro giorni.
La coda inizia dopo aver ritirato i biglietti. Si entra al Javits, si prendono i badge e si esce per mettersi in fila. Quando sono arrivato io, alle nove del mattino, ho dovuto camminare una manciata di minuti per raggiungere il mio posto, situato a quasi un giro completo dall’edificio. Passando lungo la fila, vedo persone con sedie e sacchi a pelo. Immagino fossero lì dalle prime luci dell’alba, se non prima. Tutto sommato, uno sforzo inutile, dato che arrivando lì alle nove sono riuscito comunque a vedere quello che avevo programmato di vedere.
Cosa ho fatto
Dopo un paio d’ore, l’attesa all’esterno si trasforma in attesa all’interno. Gli addetti controllano il badge e ti indicano l’entrata. E lì ogni senso d’ordine viene meno. Si diventa maratoneti in un percorso parecchio lungo in cui per superare gli altri inizi a camminare il più velocemente possibile senza dare l’impressione di una corsa. Il tutto per arrivare primi a un’altra coda. Da una parte lo show floor, la convention vera e propria, dall’altra i panel.
I panel. Questa misteriosa e intraducibile parola (a metà tra la conferenza stampa e la presentazione, ma che a volte sfora nella tavola rotonda se non c’è nulla in ballo da promuovere) che non avevo mai sperimentato sulla mia pelle. Non ne vedevo il senso. Attese infinite, alzatacce, altre attese interminabili solo per avere un contatto ravvicinato – ma neanche tanto – con i propri idoli o per vantare il magro primato di aver visto qualcosa che sarà alla portata di tutti la mattina dopo. Perché, mi domandavo, perché? Così ho deciso di trovarlo, questo perché. Mi sono messo in fila per il panel che reputavo il più interessante – e perché era anche il primo della giornata, quello della Disney. Foto non se potevano fare, nemmeno agli ospiti, e le guardie del corpo si assicuravano che la regola non venisse infranta. Erano ovunque, sulla galleria e ogni due o tre file, con un binocolo per vedere al buio nel caso qualcuno tentasse di registrare i filmati.
Due i film presentati: Big Hero 6 e Tomorrowland. Del primo si sapeva ormai tutto, l’uscita statunitense è vicina e i produttori hanno abbondato di clip e scene. Si è parlato molto poco e l’unica cosa interessante è stata la comparsata di Joe Quesada: lui e Jeph Loeb, ha dichiarato il regista, hanno presenziato a ogni riunione per la storia. Il gelo nella stanza.
Molto più succosa la presentazione di Tomorrowland, di cui è stato mostrato un teaser e una lunga scena, fin troppo derivativa da Terminator 2 per essere apprezzata da uno spettatore mediamente scafato (almeno tre momenti sono copiati in toto dal film di Cameron e c’è lo stesso tono angosciante da “forza inarrestabile all’inseguimento degli eroi”). Anche qui, poche ciance, zero interazione col pubblico, qualche apparizione a sorpresa da parte del cast e molto, molto, molto riserbo. Era un continuo «Non possiamo sbottonarci», «questo non ve lo possiamo dire», «aspettate maggio». Lo sceneggiatore Damon Lindelof, tra le righe, questiona la voglia del pubblico di sapere, vedere e conoscere tutto del film prima ancora di entrare in sala. Ed è un pensiero che appare calzante dopo l’ingorda abbuffata di materiale dal precedente panel su Big Hero 6. «Questi ragazzi meritano di vedere di più» chiosa George Clooney. Perché? Che gusto c’è a vedere così tanto del film da non riservarsi alcuna sorpresa? Dov’è finita la voglia di meravigliarsi del pubblico? Poi ci regalano la borsetta con dentro la spilletta che si vede nel trailer e smetto di preoccuparmi.
Finito il panel, si passa alla convention. C’è lo show floor, si diceva, quello con gli stand veri e propri, un mischione di casi editrici, negozi e rivenditori. Se riuscite a pensare a qualcosa su cui apporre la targhetta del prezzo, loro ce l’hanno. Sparsi i giro per l’edificio, i cartelli Cosplay is not consent mi illudono per un momento che le persone mascherate non sono consent(ite) nell’edificio e verranno allontanate da una speciale polizia anti-costumi. E invece è “solo” uno dei messaggi contro le molestie, campagna su cui gli organizzatori hanno puntato molto, nel tentativo di rendere il Comic-Con un’esperienza felice e rilassata per tutti.
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E poi l’Artist’s Alley, il corridoio infinito degli artisti, dove i più anonimi tra i disegnatori fanno spalla a spalla con glorie viventi. È una terra di nessuno, ognuno ha le sue regole, i suoi prezzi per qualsiasi cosa – dalle firme, agli sketch alle commission (le foto no, quelle per ora sono ancora gratis) – e l’unica cosa che si può fare è stare al gioco. O non giocare.
Disegnatori in circolazione da pochi anni e con una o due opere sul proprio curriculum chiedono centinaia di dollari per commission che sembrano più sketch ben rifiniti, quando agli stessi prezzi si trovano tavole pubblicate. Altri, con vent’anni di esperienza e fama, che elargivano disegni e firme. E magari non c’era nessuno a far la fila al loro banchetto. Se il mercato è disposto, se i fan sono disposti e ricettivi a questo tipo di ragionamenti, così sia. Ma è indubbio che questo gonfi fenomeni che, forse, non sono destinati a durare. Steve McNiven, per esempio, con molta intelligenza non poneva limiti agli oggetti da firmare ma fa pagare qualsiasi doppione (a dire, se mi fate firmare due copie dello stesso fumetto, probabilmente una la rivenderete, quindi tanto vale lucrare); David Mack regalava un secondo fumetto per ogni acquisto – lussi che ci si può permettere se detieni i diritti sulle tue creazioni – ed era in generale molto affabile.
Al di là dei disegni e delle firme – la questione è spinosa, le mentalità diverse e i discorsi tangenziali – la cosa più bella era proprio questa, chiacchierare con gli artisti in uno spazio scevro dalla calca e dalla puzza di popcorn al burro.
Il resto del pomeriggio vola via tra acquisti vari e, uscendo dal Javits Center, mentre l’addetto passa il mio badge per spuntarmi dalla lista dei presenti nel palazzo, un po’ mi dispiace non poterci tornare il giorno dopo. Poi penso alla ressa del sabato e mi accontento di essere sul bus che mi porta all’hotel.
Gli annessi e connessi
C’è un episodio che credo riassuma il nuovo spirito delle fiere fumettistiche. Ero in fila al panel Disney e c’erano tutti questi gruppetti che si formavano spontaneamente, conversando del più e del meno. A un certo punto, il discorso devia su Squirrel Girl, ricordata dai più per aver fatto da babysitter alla figlia di Luke Cage e «Jessica qualcosa, quella che faceva la detective, avete presente? Ora non ricordo il nome. Che si son sposati ed erano nei Vendicatori. Capito?». «No, scusa» risponde una ragazza «Io non seguo la DC.»
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Il fumetto è solo un pretesto per un raduno allargato, molti si professano appassionati di fumetti solo per aver visto il film dei Guardiani della Galassia. Gli stand più grandi appartenevano a case cinematografiche o di effetti speciali. Perfino la Marvel, che fagocitava parte dello show floor, puntava tutto sul settore cine-televisivo, con grandi cartelloni dedicati a Agents of S.H.I.E.L.D. Ma lo spirito del Comic-Con è davvero così nuovo? Certo, lo spazio dedicato al fumetto puro è esiguo, ma la commistione di linguaggi e settori non appartiene solo a questo decennio. Vale la pena ricordare che nel 1976 un piccolo film di nome Guerre stellari cercava un pubblico tra i corridoi della Comic-Con di San Diego.
Più della fiera, a tappezzare le fermate della metropolitana erano i poster della Super Week, settimana in cui sono organizzati un centinaio di eventi culturali di stampo disparato (dall’incontro con Neil deGrasse Tyson all’anniversario di Karate Kid) che puntano a far diventare la Super Week una versione nerd della settimana della moda. O almeno queste sono le intenzioni di Lance Fensterman, creatore della ReedPop, la compagnia dietro alla NYCC.
A New York l’intenzione è chiara, trasformare un evento di nicchia in un momento sempre più generalista e trasversale. Il Comic-Con, per la ReedPop, ha il potenziale di un marchio esportabile, un modello standardizzato e replicabile come gli hamburger McDonald o i caffè Sturbucks (e con la triade New York-Parigi-Lucca, fumettisticamente parlando, gli ottobri dei prossimi anni non potrebbero essere più caldi).
Assomiglia a San Diego? Parecchio. Ha qualcosa di diverso da una qualsiasi delle tante fiere statunitensi? Non direi. Non c’è da aspettarsi grandi scoperte letterarie, ma neanche la fatica probante di una Lucca. Se avesse piovuto non avrebbe fatto grande differenza (forse solo per la fila), non ho dovuto fare la spola tra un padiglione e l’altro continuando a mostrare biglietto e braccialetto. C’è una stanchezza produttiva, quando sei dentro sei dentro e riesci a ottimizzare il tempo in maniera efficiente. Certo, non c’è l’afflato culturale di Angoulême, ma sono gli Stati Uniti, la patria che più di tutti sa trasformare ogni esperienza umana in una baracconata su cui vale la pena farsi un giro, ogni tanto.