Se osserviamo con un po’ di attenzione la storia recente della Marvel (ma il ragionamento varrebbe per tutto il fumetto seriale statunitense) è difficile non riconoscere quanto sia ormai radicato un fenomeno editoriale su tutti: il perenne rilancio.
Nella nuova “età del reboot” in cui viviamo, l’assunto è tanto chiaro quanto perentorio: non si può correggere la rotta in corsa. Bisogna per forza di cose fermarsi, spostare la linea della partenza e ricominciare. Da capo. Questa proficua pratica, purtroppo, ha un problema: il più delle volte genera tonnellate di carta straccia. La logica che ispira tanti rilanci, d’altra parte, è rigorosamente commerciale. L’idea è quella di saturare il mercato e piazzare più prodotti possibile prima che i lettori si accorgano di come stanno realmente le cose (narrativamente parlando). Fortunatamente, questo circolo vizioso ha anche un lato positivo, deliziosamente puntuale, che noi – vittime consapevoli del rito del rilancio, del restyling, del reboot – ormai aspettiamo come se si trattasse di una ricorrenza: da tutto quel marasma riesce sempre a emergere almeno una serie destinata a restare. E, nei casi più importanti, anche a cambiare le cose. Come a voler dimostrare che oltre alle dodici serie inutili dedicate a Wolverine, agli infiniti spin-off dei Vendicatori e all’ennesimo rilancio dell’Uomo Ragno qualcosa di buono è possibile fare.
Se poi cambiamo ottica al nostro microscopio e ci avviciniamo ancora di più, di questo fenomeno riconosceremo un altro aspetto: con il passare del tempo queste “eccezioni diventate titoli di punta” hanno – ironicamente – preso sempre più le distanze dal mondo dei supereroi. Senza per questo rinunciare al solito bestiario di cattivoni vestiti in modi imbarazzanti e alle altrettanto improbabili evoluzioni a mezz’aria che tanto amiamo (inutile negarlo). Potrà sembrare una generalizzazione azzardata, eppure basta dare una scorsa, per esempio, ai titoli Marvel che tutti conoscono per rendersi conto di quanto la loro popolarità sia dipesa proprio da questa voglia di sfondare i compartimenti stagni delle formule ‘standard’ in voga ai loro tempi. Facciamo qualche esempio: alle “origini” troviamo le soap-opera di Claremont, l’epica fantasy di Simonson, il noir di Miller,… dalla nuova gestione Quesada in avanti troviamo la satira di Milligan, il poliziesco procedurale di Bendis, il teen drama di Vaughan, lo spy story di Brubaker, le infinite sfaccettature psicologiche degli X-Men,… Fino alla chiusura del cerchio, avvenuta lo scorso anno con il Daredevil di Waid. Un titolo magnifico, basato unicamente sul virtuosismo dello storytelling.
Quel Daredevil, peraltro, meriterebbe qualche considerazione in più. All’apparenza di un classicismo esasperante, in realtà Waid pare essere riuscito a sviluppare un’analisi certosina delle ossessioni e degli stilemi di tutta la narrativa seriale statunitense recente, applicandola direttamente alla materia in questione. Come se il cinquantenne sceneggiatore – di recente passato alla microimprenditoria, come socio di una piccola catena di fumetterie – avesse cercato di scrivere il (suo) titolo supereroistico definitivo, agendo solo sulla struttura del genere. Niente contenuti, solo forma. Un albo mensile di pura narrazione, dove si potrebbe parlare anche di me che vado a fare la spesa e sarebbe comunque frizzante, dinamico ed emozionante. E in effetti ancora oggi, a ogni numero della serie, ci si chiede come facciano a far stare tutto quello che succede in sole venti pagine. La risposta non è certo la più semplice: utilizzando ogni possibile trucchetto escogitato nel corso degli anni da generazioni di sceneggiatori. Inclusi quelli grafici: ad accompagnare la stilizzazione della sceneggiatura si ritrovano un susseguirsi di astrazioni e trovate geniali, perfette per togliere ancora più peso dalle spalle della parola.
A questo ciclo di eccezioni, da circa un anno, si è aggiunta anche Hawkeye, la testata incentrata su Clint Burton (il nostrano Occhio di Falco) e grande perdente dell’ultima tornata di premiazioni statunitensi. A soffiargli ogni sogno di gloria è stato il mega hit Saga, premiato più per quello che rappresenta (una space opera d’altri tempi con la maturità della televisione post-HBO, slegata da tutto e pensata per durare un sacco di tempo. Roba che fosse capitata in seno a Marvel/Disney ci avrebbero costruito attorno un Impero [Galattico]) che per il suo reale valore (comunque enorme). La Hawkeye gestione Fraction e Aja merita di essere considerata come una naturale prosecuzione del lavoro di Waid e della sua squadra di funamboli della matita. Anzi, ne pare quasi un’estremizzazione. Del tipo ”prendiamo un personaggio inutile e gli rifacciamo tutto il guardaroba”. Con il fatto che, una volta tanto, “rendere fico” un personaggio non significa esaudire i sogni bagnati del mondo nerd (quella sindrome per cui a ogni reboot di personaggi femminili il costume si riduce sempre più) ma ripensarlo per un pubblico decisamente più smaliziato. Se Daredevil è il massimo della vita per chi legge supereroi, Hawkeye – giocando con le stesse armi – è tra il meglio che possa capitare a chiunque apprezzi il fumetto d’evasione. Ci sono copertine adatte quasi più a magazine lifestyle che ai fumetti popolari di un tempo (tendenza che Marvel sta allargando a tutte le testate più ricercate); storie tra l’urbano – rigorosamente gentrificato – e il Robert McGinnis-mo spinto; tavole nelle quali la ricerca di stile è praticamente sempre sopra il livello di guardia. Risultato? Immaginatevi qualcosa del genere “Elmore Leonard che sceneggia i titoli di testa di Saul Bass”. Senza dimenticare qualche sfumatura dell’avanguardia retrògrafica di Chris Ware e delle copertine del New Yorker. Seriamente: non meritiamo di più. Ma, diciamolo chiaramente: neppure tanto di meno.
Le ragioni di fondo di tutto ciò (hey, parliamo di Occhio-di-Falco: l’avreste mai detto?) vengono ovviamente da lontano. La cultura popolare finalmente ha raggiunto il ruolo che merita (esempio da manuale: tutta la Genesi di Robert Crumb esposta alla Biennale di Venezia), eppure un mare di inedia sta rischiando di fare affondare tutta la baracca messa in piedi con tanta fatica (leggasi: orgia di reboot). Le testimonianze di Jonathan Franzen e Bruce Sterling sull’erosione della cultura potranno apparire anche drammatiche, ma è innegabile che non abbiano un fondo di verità. La continua discesa verso il facile-a-tutti-i-costi sta facendo un sacco di vittime, a partire dal buon gusto. Da lettore mi aspetto sempre il meglio dal lavoro di qualcuno appartenente alla classe “creativa”. Se lui è lì e io no ci deve essere un motivo, non conta quanto io sia sagace su Twitter (e probabilmente non lo sono) e quanto cool sia il mio Tumblr (e anche qui avrei qualche dubbio). Devo poter avere quello che voglio senza sapere ancora di volerlo. E lo foglio nella migliore maniera possibile. Hawkeye ci riesce benissimo. E’ un fumetto di super-tizi che presterei volentieri a chiunque, senza paura di fare la figura del Peter Pan fuori tempo massimo. Perché è una serie sofisticata, che se ne frega dell’anti-intellettualismo dilagante e dimostra che avere un paio di riferimenti “colti” nel proprio carniere non può che fare bene. Anche se si parla di un tizio che se ne va in giro con un arco e decine di frecce diverse.