I libri cosiddetti per l’infanzia – quelli più riusciti, per lo meno – sono spesso oggetti misteriosi ed incerti. Senza troppa ostentazione riescono persino a inquietare, portando il lettore a mettere in discussione la realtà sensibile delle cose. E’ il caso di quello che viene considerato, almeno nei paesi anglosassoni, un classico per antonomasia, Il paese delle creature selvagge del recentemente scomparso Maurice Sendak. Ma penso anche a un altro celebre picture book come Jumanji di Chris Van Allsburg. Ed è anche il caso di un libro riemerso dagli anfratti della storia editoriale solo recentemente: il leggendario Spiaggia Magica di Crockett Johnson (per Fumettologica ne ha scritto Emilio Varrà; un mio intervento è invece apparso qui).
Questi libri sono in grado di offrire qualcosa di raro: una visione laterale rispetto al mondo reale, che svelano senza costruire rifugi in mondi fantastici, ma aprendo piccoli squarci nella quotidianità. Varchi dell’immaginazione, attraverso cui il giovane lettore passa per raggiungere terre selvagge, pianeti lontani, mondi altri. Il buco, differentemente dagli esempi citati, mette in scena il qui e l’adesso. L’altrove non è celato dietro la realtà di tutti i giorni, ma si manifesta come un’anomalia che trapassa sia l’oggetto libro che il mondo, quotidiano e contemporaneo, in cui la storia è ambientata: un mutevole ma fisso centro di attenzione (gravitazionale) attorno a cui tutto si sviluppa.
Il protagonista de Il buco, al momento di traslocare in un nuovo appartamento, si accorge della presenza di un buco. Quando lo esamina questo si sposta, sfugge, ricomparendo prima nell’oblò di una lavatrice, poi sul pavimento, facendo inciampare il malcapitato curioso. Ci accorgiamo ben presto, però, che non è il buco a muoversi: è la realtà intorno a lui a spostarsi, intorno al suo centro. Il buco, immobile è ed immobile resta. Impassibile. Inquietante.
Quella dei “libri con il buco” è una categoria editoriale ben precisa e fertile. Il primo esempio di questa categoria è probabilmente The Rocket Book di Peter Newell (1912, pubblicato in Italia anch’esso da Orecchio Acerbo, col titolo Il libro esplosivo), in cui il buco che attraversa le pagine è un pretesto narrativo per raccontare la distruttiva e anarchica corsa di un razzo, dalla cantina fino alla soffitta di un condominio borghese. Successivamente i “i libri coi buchi” sono diventati quasi esclusivo dominio dell’editoria dedicata al pubblico prescolare, per la loro capacità di facilitare l’esplorazione tattile e di raccontare come una forma può ripresentarsi, tramite piccoli adattamenti, a descrivere i contorni di oggetti fra loro apparentemente diversissimi. Già questo ha del meraviglioso, anche se non lo si vede con gli occhi di un bambino di tre anni: la visione di un mondo in cui una cosa può essere – o quasi – anche un’altra, in una continuità fluida e metamorfica. Non si tratta, naturalmente, solo di buchi rotondi, anche se inizialmente erano i più utilizzati. Nel corso degli anni la fantasia degli illustratori ha dato vita a buchi quadrati, rettangolari, ovali, seghettati e persino irregolari. Difficilmente dimenticare, ad esempio, la serie di volumi Libri coi buchi proposta, a partire da fine anni Settanta, da La coccinella.
Diversamente dagli esempi citati, inclusi quelli destinati a lettori più maturi, il libro di Øyvind Torseter – già vincitore del Bologna Ragazzi Award nel 2008 per il bellissimo Avstikkere – tratta il topos del buco in maniera originale. Non è più, il buco, un elemento interno alla narrazione. Inoltre, è solo parzialmente mimetico rispetto al mondo in cui si manifesta: come quando si confonde con l’oblò della lavatrice, dalla forma simile alla propria. Se il protagonista della storia fosse stato un bambino, capace di accettare con più semplicità l’anomalia, le cose sarebbero state probabilmente diverse. Ma così non è, e l’adulto che lo scova ne è subito terrorizzato. Invece di scoprire dove possa portare o quali meraviglie possa aprirgli, compie un’azione matura e razionale: lo porta a un laboratorio per farlo analizzare.
La traversata della città, destinazione “il laboratorio”, con il buco inscatolato – o meglio, che torna nella scatola solo quando si va a controllare e che invece gira liberamente diventando ora la luce di un semaforo, ora una bocca fischiettante etc. – è una gioia per gli occhi. Ma non solo: rivela un altro aspetto anomalo del libro di Øyvind Torseter, al punto da rendere impossibile ritenerlo un canonico picture book. Il buco, piuttosto, si colloca ad un interessante trivio tra libro illustrato, fumetto (per la presenza di balloon e di una forte componente sequenziale visiva nella narrazione, che si estende anche oltre la struttura pagina dopo pagina) e le ultime tendenze della grafica scandinava. Un ambito che, se nelle mani del Torseter di Avstikkere raggiunge le sue vette di astratta lunarità elettro-jazz, qui si offre in una sintesi più dolce e quasi docile, con un segno fumettistico vicino ad altri classici della stessa area grafico/geografica (penso ai Mumin).
Il laboratorio, naturalmente, non riesce a venire a capo del mistero e non propone altra soluzione che imprigionare di nuovo il buco, in attesa di altre analisi. Ma il buco è il racconto, è il suo centro, è quello intorno al cui fulcro tutto ruota; e quindi basta girare pagina e trovarlo di nuovo libero, nel cielo, al posto della luna. Il protagonista però, l’adulto, incapace di fantasticare, scoprendo l’arma della scienza spuntata, trova una propria personale soluzione: lo ignora. E così si addormenta. Mentre, circolarmente – per abbandonarsi al gioco di parole – il buco torna al proprio posto, in un inquietante memento all’infanzia perduta.
Il buco
di Øyvind Torseter
Orecchio Acerbo Editore, 2013
64 pagine, € 21