Nonostante corra l’anno 2014, ogni qual volta viene tirata in ballo una questione di gender o di alterità in ambito pop, succede un finimondo. Prevedibile quindi, alla luce dei nuovi annunci di casa Marvel, l’esplosione di articoli e opinioni comparse sulla stampa internazionale durante quest’ultima settimana.
Riassunto per i ritardatari: Capitan America diventa afroamericano; e Thor pare destinato a cambiare sesso. E’ l’ennesima “rivoluzione-epocale-temporanea” dei comics – mezzo ormai consolidato per il rilancio (a tempo determinato) di una casa editrice – eppure sembrerebbe che nessuno sia riuscito a prendere la cosa con la giusta dose di leggerezza.
Da una parte abbiamo i militanti puri e duri, quelli che vedono sessismo e discriminazione ovunque. C’è da dire che, mai come in questo caso, la Marvel ha proprio mostrato il fianco ai suoi detrattori. Prendendo alla lettera i loro comunicati stampa, infatti, sembrerebbe che le caratteristiche di “afro-americano” e “donna” siano più che sufficienti a descrivere un nuovo personaggio. Come se questi due aspetti della loro identità andassero a influenzarne tutto il resto. Potevano definire il nuovo Cap come più tosto, più umano, inesperto o pronto a tutto. Invece hanno puntato sull’unico aspetto che non dovrebbe – o almeno si spera: non siamo più negli anni ‘70, giusto? – influenzarne il carattere. Difficile non immaginarsi un fiume di saggi istantanei, dove si espone con arguzia come la cultura pop contribuisca a diffondere stereotipi limitanti e offensivi.
In questo caso, i detrattori si possono muovere in diversi modi. Magari meglio evitare lo stile goffo e raffazzonato di Darren Franich (Entertainment Weekly), tanto desideroso di creare polemica da vedere una metafora del colonialismo nel fatto che il nuovo Cap (quello nero) verrà addestrato e guidato da quello vecchio (e bianco). Se proprio si volesse procedere in questa direzione, si potrebbe invece seguire l’esempio di Anita Sarkeesian, nota per la sua serie di video “Tropes vs Women” dove analizza la figura femminile in ambito videoludico. Tanto precisa e inattaccabile nella sua costante analisi della mortificante situazione odierna, da garantirsi costanti minacce di morte (non scherzo) e un inesauribile flusso di insulti da parte di legioni di videogiocatori traboccanti testosterone (o, meglio ancora, a cui piacerebbe traboccarlo). Segno che se certe cose tendono a ripetersi, forse un fondo di verità c’è, anche se si fa finta di non vederla (mi spiace, ma non riuscirò mai a trovare del marcio nella leggenda di Zelda).
Dall’altra parte della barricata, c’è chi non riuscirebbe a vederci nulla di male nemmeno se il nuovo Thor si ritrovasse tra le mani un ferro da stiro, o il nuovo Capitano se ne andasse in giro con pettinatura cotonata e pantaloni a zampa (e venisse dalla dura strada del ghetto, naturalmente. Ehi, aspetta… il nuovo Cap viene davvero da Harlem!). Gli esponenti di questa curva, tronfi del loro irrinunciabile distacco ironico, finiscono inevitabilmente per schernire i musoni dell’altra squadra (cui appartengo pure io, devo ammetterlo) dietro il solito, mortificante muro di cinismo da tweet sagace. Dimenticandosi, magari, di come i grandi autori che hanno fatto della misoginia uno dei loro tratti più distinguibili (nel cinema, per esempio Miike e Verhoeven) lo abbiano fatto in realtà per arrivare ad altro (basta la quasi scena di fellatio al crocifisso culturista de Il Quarto Uomo, da parte del regista olandese, per capire dove voleva andare a parare?).
Eppure, anche questo schieramento ha le sue ragioni. E viene sempre da chiedersi se valga la pena di indignarsi davanti a una provocazione da due soldi come questa, piuttosto che godersela per la bambinata puerile quale è. La narrativa pulp e il cinema exploitation sono forse tra le forme d’intrattenimento più reazionarie e retrograde di sempre, eppure mai penserei di privarmene. E no, non penso che questo faccia di me un razzista omofobo.
Come dicevamo, entrambe le tesi hanno una parte di ragione, ma sono destinate a finire nel torto per via dei propri eccessi. Certo, sarebbe meglio se non fossero gli stessi dirigenti Marvel a fomentare questa diatriba. Alex Alonso ha dichiarato al Time:
«C’è una grande voglia di personaggi che riflettono quello che vediamo allo specchio e il nostro obbiettivo è fare in modo che questi personaggi riflettano il mondo là fuori»
ergo: donne e afro-americani come novità assoluta della società. Con la misera speranza che una ragazza si metta a leggere Thor solo per via di un cambio della sua identità di genere?
In tutta questa sarabanda di opinioni forse la sola cosa giusta l’ha scritta, andando completamente controcorrente rispetto al provocatore professionista Noah Berltasky («Abbiamo bisogno di donne supereroi!»), la sempre bravissima Alexandra Petri del Washington Post. Le belle storie conquistano tutti perché universali, e non perché si condivide lo stesso sesso con il protagonista. E basterebbe guardare l’esempio di Ms.Marvel per capire come questa sia una verità semplice eppure inossidabile.
Ms. Marvel, ovvero “la prima super-eroina islamica proveniente dagli Stati Uniti”. Anche quel lancio, partendo da simili proclami, era bastato per ricadere nella baruffa cui abbiamo assistito in questi giorni. Vero slancio progressista, o ennesima trovata di marketing? Ci si aspettava di tutto. E invece, guarda caso, mesi di hype drogato e di polemiche inutili sono finiti sbriciolati sotto l’indiscutibile peso della realtà: Ms.Marvel non è una serie che parla di musulmani, ma solo una serie adolescenziale. E a dir poco riuscita. Una serie in cui l’elemento religioso gioca una parte fondamentale della vita civile della giovane protagonista: quella del legame con la famiglia e le sue radici. Kamala Khan non è che un’adolescente, appassionata di cultura pop, costretta a scontrarsi quotidianamente con la visione del mondo dei genitori, severi osservanti. Musulmani, cattolici o indù, poco sarebbe cambiato.
Sarebbe bastato questo per costruirci una serie interessante (e in parte così aveva operato Craig Thompson, nel suo straordinario Blankets). Figuriamoci con l’aggiunta dei super poteri, e il cambio di prospettiva da lettore di supereroi a supereroe in divenire. Potenzialmente Ms. Marvel è l’Invincible di casa Marvel, ma con meno ultraviolenza e più leggerezza adolescenziale. La versione statunitense e in spandex del teen drama tedesco Kebab fo Breakfast. In questo caso l’aggiornamento dell’epica del supereroe con superproblemi è funzionato alla grande, fungendo DAVVERO da normalizzatore per un aspetto della nostra società che ormai dovrebbe esserlo da un bel pezzo. Quindi la serie funziona (e vende sempre di più, confermando ancora una volta come siano i titoli a carburazione lenta la vera benzina dell’editoria) perché scritta benissimo e disegnata in maniera meravigliosa (sui primi cinque numeri c’è la firma di Alphona).
Ms. Marvel, insomma, è un progetto che ha reso possibile la tanto ricercata empatia tra nuovo lettore e personaggio di finzione. Perché ogni preadolescente del mondo – musulmano, ma non solo – si è sentito almeno una volta prigioniero della sua famiglia, o desideroso di un aspetto diverso (e leggetevi la serie per vedere con che classe hanno risolto questa cosa). Riconoscersi in questo genere di tensioni sull’identità – ben al di là di un afro-Cap o una she-Thor – funziona. Ben di più di qualsiasi trovata di marketing.