The Long Tomorrow è una delle opere di fantascienza più influenti di tutti i tempi. Una di quelle che, in un lampo di genio, ha finito per cambiare la storia del cinema, del fumetto e della letteratura.
Se dovessimo compilare la lista degli autori che ne sono stati dichiaratamente influenzati, probabilmente finiremo per includere tutta una serie di nomi indispensabili nel rendere enorme il fantastico tra gli anni Settanta e Ottanta. Il più scontato è sicuramente Ridley Scott, ma sarebbe impensabile non citare – tra i tanti – anche William Gibson, John Carpenter e George Lucas. Non male per una storiella di sedici pagine scritta e disegnata in un momento di noia sul set di uno dei kolossal più improbabili di sempre.
Era il 1975 e Alejandro Jodorowsky, il visionario regista di El Topo e La montagna sacra, lavorava a pieno regime sulla sua trasposizione di Dune di Frank Herbert. I produttori non si erano ancora resi conto in che follia si stavano per infilare, e i lavori di pre-produzione procedevano come se tutto fosse possibile, senza nessuna forma di limite imposto da budget e tempistiche tecniche.
Per riuscire a dare forma alle sue visioni il regista cileno si era circondato da quelli che lui definiva come i suoi quattro “guerrieri”. Il britannico Chris Foss rappresentava forse la scelta più ovvia, vista la sua esperienza sulle copertine dei romanzi di Isaac Asimov e Jack Vance. Nonostante si vantasse di non aver mai letto un romanzo di quelli che aveva illustrato, la sua importanza come concept artist e futurista visuale era innegabile. L’universo di Dune necessitava di un designer in grado di donargli credibilità e un certo aspetto tecnico.
Meno banale era stata la scelta di un tale H.R. Giger, giovane e tenebroso artista svizzero alla sua prima grossa esperienza. Nel suo curriculum un buon numero di esposizioni in Svizzera, un pugno di cortometraggi e la pubblicazione di un volume monografico – ARh+ – destinato a diventare un classico. A completare il quartetto di eccentrici artisti ecco il fumettista francese Moebius e l’hippy Dan O’Bannon, forse l’elemento più stravagante di tutta la squadra.
O’Bannon era nato nel Missouri nel 1946. Al college aveva cominciato a esprimere il suo talento occupandosi di teatro e lavorando come disegnatore per il giornale del campus. La sua creatività inquieta lo aveva portato a diversi cambi di rotta, fino a quando aveva deciso di seguire la sua vocazione per il cinema iscrivendosi alla prestigiosa University of South California, dove avrebbe fatto un incontro in grado di cambiargli la vita. John Carpenter frequentava infatti lo stesso corso, e i due erano presto finiti a collaborare a stretto contatto.
Il loro primo lavoro era il cortometraggio Dark Star, destinato a diventare il film d’esordio del regista di classici come Halloween, 1997: Fuga da New York e La Cosa. Con soli sessantamila dollari di budget i due avevano consegnato un film destinato a segnare la carriera di entrambi. O’Bannon ne aveva scritto la sceneggiatura, si era occupato degli effetti speciali e aveva persino interpretato uno dei protagonisti.
Tanto bastò a Jodorowsky per volerlo a lavorare con lui a uno dei progetti di fantascienza più visionari, eccessivi e fuori controllo di sempre. Non solo il giovane americano sapeva scrivere, ma era anche un ottimo tecnico, sapeva disegnare – in maniera eccezionale secondo Moebius – e riusciva a occuparsi di praticamente qualsiasi aspetto della macchina cinema. Ma, forse più di ogni altra cosa, aveva un’immaginazione inarrestabile. Dopo il “disastro Dune” sarebbe finito sul set di Guerre Stellari a curare gli effetti speciali, avrebbe scritto Alien, Space Vampires, Invaders, Tuono Blu, Atto di forza e Screamers. Avrebbe diretto Il ritorno dei morti viventi e collaborato al progetto animato Heavy Metal. Un’intera vita dedicata a dare forma alle nostre visioni del futuro e in cui The Long Tomorrow rappresenta uno dei punti più alti.
Nato per noia durante le lunghe pause di lavorazione di Dune, si tratta di una storiella noir perfettamente attinente ai clichè del genere. C’è un investigatore privato scolpito nella roccia, una femme fatale, intrighi, macchinazioni, una città sordida e corrotta, violenza, sesso e una narrazione tutta fatta di voci off. Praticamente una parodia di quanto fatto dai vari Raymond Chandler o Edgard G. Ulmer, ma di una tale fedeltà al materiale di partenza da rendere il risultato qualcosa di straordinario.
Lo stesso Moebius scriveva: «Quando gli europei provano a cimentarsi in questo tipo di parodia, non è mai del tutto soddisfacente, i francesi sono troppo francesi, gli italiani sono troppo italiani… sotto il mio naso c’era invece un pastiche che era più originale degli originali. Da fanatico del materiale di partenza, Dan ha continuato quella tradizione».
Ma ecco il vero colpo di genio. Se a livello di scrittura abbiamo una riproposizione filologicamente perfetta di un genere urbano, crudele e cinico come l’hard boiled, O’Bannon ebbe la grandiosa idea di ambientarlo in un futuro ultra-speculativo. Moebius vide le pagine disegnate dallo scrittore e, logicamente, andò fuori di testa.
Nonostante durante il giorno fosse vessato dalle folli richieste di Jodorowsky e di notte passasse le ore lavorando su Arzach, il fumettista francese si offrì di ridisegnare The Long Tomorrow giocando con la sceneggiatura e l’intuizione che la sorreggeva. Il risultato fu una fantascienza mai vista prima.
Dentro The Long Tomorrow c’è di tutto: città sotterranee composte da un numero infinito di livelli, costumi in grado di unire epoche lontanissime, auto alla Virgil Exner (ma volanti), robot antropomorfi, creature disgustose, pugnali laser. Il tutto riesce a convivere miracolosamente con una sceneggiatura che avrebbe retto benissimo anche se ambientata sulle colline di Los Angeles degli anni Quaranta.
Si tratta di un equilibrio delicatissimo, raggiunto da due giganti in vena di scherzi. Nonostante non ci sia nulla di divertente o esplicitamente umoristico – se non una sadica esecuzione sotto il bruciatore di un razzo – il divertimento dei due autori è papabile. In sole sedici pagine viene sintetizzato un mondo ricchissimo di particolari e trovate, spesso lasciate sullo sfondo.
Mentre la sceneggiatura viaggia con la precisione di un cronografo svizzero – il ritmo e la scansione degli eventi sono mutuati in maniera perfetta dal cinema di genere, come se O’Bannon fosse riuscito a condensarne l’essenza nell’archetipo perfetto – il lavoro di worldbuilding si insinua in ogni interstizio delle vignette, diventando ben presto qualcosa di enorme.
Basti la prima pagina. Abbiamo una superficie lunare bluastra, dalle cui spaccature scorgiamo una sorta di città sotterranea. Nel cielo vediamo fluttuare una stazione orbitante, mentre il lancio di un razzo si sovrappone al lettering del titolo. Nelle vignette seguenti vediamo la camera da presa muoversi, sempre più vicina e sempre più in verticale sul pozzo che costituisce la parte centrale dell’insediamento abitato. La colonia è simile a una sorta di formicaio follemenente complesso, dove transitano mezzi volanti e strane automobili. Non è il futuro che ci aspettavamo poco prima vedendo l’astronave solcare il cielo, è qualcosa di molto di più. Ma è anche stranamente familiare.
Ci sono grosse pubblicità, ponti sospesi, gente a spasso su balconi protratti sul vuoto. Si tratta chiaramente di una realtà sovrappopolata, come una megalopoli sviluppata in verticale. Nella pagina seguente incontriamo il nostro investigatore e, quasi con l’amaro in bocca, scopriamo che il suo ufficio non è troppo diverso da quello che ci immaginavamo. Peccato che un attimo dopo stia sfrecciando in verticale su di un auto volante, incurante della forza di gravità.
La città di The Long Tomorrow è visionaria e proveniente da un futuro impossibile, ma lo sferragliare dei suoi mezzi pubblici, l’odore della folla, la sporcizia agli angoli delle strade sono quelli di New York, Parigi o Milano. Siamo in un universo lontanissimo, ma piccoli particolari non fanno che riportarci a casa.
Moebius fece confluire moltissimo di quanto fatto su queste pagine ne L’Incal, ma non è difficile vederne l’influenza su una fetta larghissima della produzione fantascientifica dei decenni successivi. Blade Runner ne avrebbe ripreso alcune trovate in maniera pedissequa – in primis la fusione estetica con il noir classico – così come la Mega-City One del Giudice Dredd non avrebbe avuto lo stesso aspetto senza quel pugno di pagine. Il regista Luc Besson ne sarebbe rimasto influenzato per sempre, e anche George Lucas non avrebbe mancato di omaggiare la visione della tecnologia di Moebius e O’Bannon citandola alla lettera. William Gibson, il padre del cyberpunk, ha ammesso che Neuromante non sarebbe stato lo stesso senza The Long Tomorrow.
Il tratto di Jean Giraud è inconfondibile, ma è evidente come su queste pagine spesso indugi nell’accumulare particolari nella maniera più disordinata possibile. I campi lunghi dove scorgiamo effettivamente l’orizzonte sono pochissimi, molto più spesso finiamo schiacciati in ambienti claustrofobici dove i piani di profondità si affastellano uno sull’altro. Non esiste una superficie liscia, ogni campitura viene mossa da tratteggi, da una stesura non uniforme del colore o aggiungendo particolari al disegno.
I pavimenti sono disseminati di cartacce, i mobili appoggiati alle pareti traboccano suppellettili, le autovetture non hanno mai una verniciatura uniforme ma sono sono decorate con grosse strisce o motivi geometrici. Gli stessi vestiti dei protagonisti spesso sono stratificati e pieni di arzigogoli.
Moebius viene ricordato anche per il suo gusto quasi metafisico, per la sua capacità unica di bilanciare pieni e vuoti in un equilibrio che ha del miracoloso. Anche le sue tavole più dettagliate hanno sempre una leggerezza inimitabile. Nessuno sarebbe stato in grado di rendere una storia cruda come Gli occhi del gatto – ambientato in una enorme metropoli in rovina fatta di palazzi imponenti e massicci e caratterizzata da un importante tratteggio quasi da litografia – qualcosa di quasi ascetico nella sua perfezione formale. In The Long Tomorrow invece tutto è diverso, si avverte una pesantezza e una concretezza che lo rendono qualcosa di più tangibile e realistico rispetto alle sue consuete visioni. Tutto è organico e vivo, brulicante come una colonia di insetti.
In maniera non diversa da quanto avrebbe fatto Ralph McQuarrie da lì a un paio di anni sulla prima trilogia di Star Wars, il lavoro di Moebius e O’Bannon sporcò per sempre la fantascienza di un realismo straniante applicato a visioni di futuri lontani. Il concept designer dietro il Millenium Falcon o il Sand Crawler ci avrebbe abituati a vascelli spaziali di ogni forma e dimensione, ma sempre rovinati dal passare del tempo e dagli imprevisti lungo tratte intergalattiche. In modo analogo i popoli di domani di The Long Tomorrow vivranno anche in capolavori di ingegneria architettonica, ma ai cui margini (o meglio, sul fondo) continueranno a sorgere slum e baraccopoli. Le macchine voleranno, ma la gente si ubriacherà, andrà a prostitute (va bene, questo in Guerre Stellari non succede, ma ci siamo capiti) e finirà comunque in giri loschi.
«Moebius è stato un grande precursore di una fantascienza ruvida e realistica. Prima di Moebius, la fantascienza era costituita solo da astronavi scintillanti» raccontava Kim Thompson di Fantagraphics. In un pugno di pagine un’improbabile coppia di visionari, incontratisi in circostanze che ancora oggi odorano di leggenda e su cui si continuano a scrivere fiumi di parole, si ritrovò a riscrivere le regole di un genere che ha sempre detto molto su di noi.
Tutto a un tratto la fantascienza assumeva una nuova forma, senza più nessun limite ma al contempo concreta e tangibile. Abbiamo visto come da quel gioco nelle decadi scorse sono nati capolavori ancora oggi insuperati, ma la nostra visione del futuro ne è influenzata ancora oggi. Dal Private Eye di Brian K. Vaughan e Marcos Martin all’eterno ritorno del cyberpunk fino a produzioni televisive come Altered Carbon, si tratta via via di visioni sempre più scialbe e diluite rispetto al prototipo primigenio, ma in cui lo spirito di The Long Tomorrow è ancora parte fondante.
La sua volontà di unire punti lontanissimi tra loro – etnici, temporali, culturali – come se non esistessero più distanze rimane ancora uno dei fondamenti della fantascienza contemporanea e al contempo una visione lucida sul domani che verrà.
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