Black Hole di Charles Burns si apre con uno squarcio da cui trapela una lama di luce, come il buco della serratura su cui il lettore appoggia l’occhio. Attraverso quel taglio entriamo nella vita del quindicenne Keith, goffo e infatuato di Chris, la quale, dietro la facciata di studentessa modello, condivide con il ragazzo le stesse ansie esistenziali. L’opera si conclude con Chris che, a mollo nelle acque dell’Oceano Pacifico, punta lo sguardo sull’infinito della volta celesta, una coperta su cui sono trapuntate tutte le luci dell’universo. In entrambe le scene si parla di futuro.
L’inizio e la fine di Black Hole, così speculari eppure asimmetrici, già suggeriscono l’interpretazione del titolo, quel buco nero che è l’adolescenza, dotata di un campo gravitazionale talmente forte da fagocitare tutta la luce, quella emanata fino ad allora e quella che illumina il futuro. Entriamo da un pertugio, stretto e confinato, in questo buco nero che è l’adolescenza e ne usciamo (ne usciamo?) nuotando nel mare aperto che è la vita adulta.
Nella Seattle degli anni Settanta, le vite degli adolescenti sono sconvolte dall’arrivo di un virus trasmesso sessualmente che deforma in vario modo i corpi. C’è si ritrova una seconda bocca sul collo, chi una coda da lucertola, chi fa la muta come un serpente. Coloro che non sono in grado di nascondere i segni della malattia sono condannati a vivere nei boschi.
La vulgata è che Black Hole sia il racconto dell’adolescenza come di un periodo nero, ma temporaneo, da cui però non tutti escono con le ossa intera, quando ci escono. I giovani protagonisti sono ritratti con sincerità, sono vividi sulla pagina, tormentati come ci si aspetterebbe (Keith vive la prima cotta non ricambiata, altrettanto fanno Chris e Dave, nei confronti di Rob e Keith, si scopre l’alcol, le droghe, il sesso) ma senza cadere nello stucchevole. Qui si parte da una premessa da film fantascientifico anni Cinquanta con intenti propagandistici, si finisce nel racconto di amori adolescenziali, ma poi le pieghe che prende la storia, in un continuo suggerire e negarsi alle aspettative del lettore, sono tutto meno che convenzionali.
Burns però non si limita a rimuovere quella patina idilliaca solitamente associata all’infanzia e all’adolescenza, ma mette in comunione la giovinezza con i luoghi che quell’adolescenza abita, il paesaggio urbano e la natura incontaminata, spogliando anch’essi di vari stereotipi. Pubblicato tra la fine degli anni Novanta e gli anni Zero, Black Hole si inserisce in quel filone di produzioni che smantellavano la retorica del nord degli Stati Uniti, quella lunga linea tra America e Canada, come il prodotto di una simbiosi tra il paesaggio e i suoi abitanti.
Il fumetto è ambientato a Seattle, patria del grunge e dirimpettaia della cittadina fittizia di Twin Peaks. In queste produzioni ed espressioni artistiche, i giovani sono al centro del racconto, impegnati a sovvertire l’immagine di operosa tranquillità della regione. Quel pianeta Xeno che all’inizio del volume viene descritto come un idillio finisce giustapposto, fondendosi con lo scenario naturale di Seattle, fatto di mutanti e rifiuti rigurgitati.
I luoghi dove vivono Keith e gli altri sono un nugolo di presenze minacciose, che stanno ai margini della civiltà, in boschi che celano la vera natura degli adolescenti. Anche il paesaggio urbano diventa luogo di segreti, repressioni e violenze, nei luoghi private di casa e camera da letto. In superficie tutto sembra immobile, laccato come le località romanticizzate da romanzi e film in cui boscaioli e taglialegna abbarbicati alle tradizioni combattono il progresso. Lo sporco, il ciarpame e i detriti che popolano le scene sono uno schiaffo in faccia alle visioni ambientaliste fin troppo utopistiche della regione – Seattle è stato uno dei focolai del movimento ecologista.
Di stampo freudiano, Black Hole sparpaglia sulle pagine simboli e motivi grafici. In ogni apertura di capitolo, Burns giustappone due forme simili che dialogano tra di loro. Aprendo il primo capitolo, da una parte troviamo una fenditura con echi vaginali, dall’altra un taglio realizzato con un bisturi sullo stomaco di una rana che espone le interiora dell’animale.
Sesso, violenza, orrore fisico si rimbalzano la palla l’una con l’altro. E così la ferita di un piede e le venature di un albero ricordano l’organo femminile, mentre pistole e serpenti rimandano alla virilità. Scelte tradizionali che però in questo contesto appaiono come nuove, perturbanti, metafore. Burns inserisce immagini sessuali in tutta la storia, infondendo un taglio paranoico al racconto. Il risultato porta il lettore a interrogarsi continuamente sulle immagini, se siano simboli o meno, se (e come) debba mettere in comunicazione un elemento con l’altro, un po’ come un adolescente durante un risveglio sessuale.
Ispirato all’iconografia degli anni Cinquanta, ai fumetti dell’orrore di Al Feldstein e Johnny Craig, ma anche alla limpidezza delle linee chiare di Hergé, Burns porta avanti la storia con uno stile personale, netto, controllato ed omogeneo, fondato sul contrasto di bianco e nero. L’autore affila le campiture, traccia ogni cratere lunare, ogni foglia sugli alberi, filo d’erba o primo pelo dei volti adolescenziali e li fa recitare con una goffaggine disarmante, oppure una consapevolezza spietata, a seconda dei personaggi.
Se Black Hole è un libro nero nel segno, nei testi è ammantato di continui rimandi alla luce – lunare, del sole, irradiata da oggetti o persone, usata come similitudine o elemento descrittivo, la conta semantica è sterminata. Assieme alle trasformazioni dei corpi, è questa tensione tra civiltà e natura selvatica, bianco e nero, conosciuto e sconosciuto, che innerva di inquietudine il fumetto e lo tiene ancora vivo, a più di vent’anni dalla sua prima pubblicazione.
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