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Perché vale la pena (ri)leggere Hellboy

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Hellboy non è per tutti. E non perché il fumetto creato nel 1993 da Mike Mignola sia particolarmente complesso (ma lo è, sotto la scorza pulp) o astruso – a volte è anche questo. Hellboy non è per tutti perché è peculiare, si muove secondo un suo metronomo interno che non risponde alle logiche delle narrazioni convenzionali.

Brian K. Vaughan, quello sì che è uno scrittore ruffiano, bravissimo, che sa quando far volare la colomba dal cappello, quando schioccare le dita e far partire un applauso scrosciante; le sue serie, come tutte le produzioni fatte per piacere al grande pubblico, obbediscono a regole precise. Si introducono i personaggi, i conflitti, gli elementi di crescita, si mostra il momento di crisi, il colpo di scena, si allarga il cast, si piazza la chiusa di stagione che allo stesso tempo ne rilancia un’altra. La melodia è sempre la stessa, poi ognuno la suona secondo il suo stile.

Mike Mignola no. Lui si perde nei dettagli, rimira un corvo, si sofferma su un gladiolo. Il suo pezzo di magia consiste nel farti scegliere una carta e poi guardare quanto è triste la regina di quadri. Il suo prestigio non ha nulla a che vedere con la promessa fatta all’inizio del trucco.

Il Mignolaverse

Credo che nessuno avrebbe mai potuto prevedere il percorso di Hellboy. Nato come fumetto indipendente, diventato piccolo cult, poi grande cult (molto merchandising, due adattamenti cinematografici diretti da Guillermo del Toro), poi di nuovo piccolo cult (il ritorno ai fumetti, il flop del reboot), non hai mai avuto una strada prestabilita, è sempre stato in balia dei desideri bizzosi del suo autore. Si è ingrandito, dilatato, poi compresso, ha inventato un universo narrativo coerente eppure frammentato, che da un accenno contenuto in una storia ne costruiva un’altra, del tutto indipendente ma allo stesso tempo legata a quel mondo.

Il Mignolaverse ha trasceso il suo personaggio (e infatti prende il nome dal suo autore), si è espanso con altri progetti, coadiuvato da un gruppo ristretto di disegnatori, e non segue alcun piano editoriale se non quello che risponde ai bisogni del suo creatore.

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Anche se avrebbe trovato la quadratura del cerchio alla fine degli anni Novanta, Hellboy era già tutto lì, nelle pagine d’apertura de Il seme della distruzione, la prima storia del personaggio: inizia con l’immagine di un vecchio castello e prosegue con vignette che stabiliscono le sfaccettature dell’universo immaginario che Mignola continuerà ad evolvere: un crocifisso tra le rovine, una figura di supereroe (la Torcia della Liberà), tre investigatori paranormali e un vecchio soldato brizzolato.

Mignola – qui con l’aiuto di John Byrne – usa la capacità del fumetto di riassumere rapidamente con parole e immagini per darci informazioni sovrapposte: apprendiamo che l’era è la Seconda guerra mondiale e che i Nazisti sono ancora una minaccia; capiamo che esistono figure supereroiche che sono date per scontate (la Torcia della Libertà è «uno dei ragazzi»: beve da una tazza sporca, spruzzata di fango come gli uomini intorno a lui); vediamo menzioni di ortodossia giudeo-cristiana (un crocifisso), mitologia nordica (il “Progetto Ragna Rok”) e spiritismo (uno degli investigatori è «il medium principale dell’Inghilterra»).

Rileggendo tutto Hellboy, ho capito che i problemi delle avventure ad ampio respiro – mancanza di ritmo, sguardo che si smarrisce in evocativi squarci del panorama – erano connaturati allo stile di Mignola, eccelso invece nei racconti brevi, forma letteraria in cui i pesi vanno calibrati diversamente. Anche nei dialoghi non era granché bravo, perché la sua forza stava negli epigrammi, nelle chiuse icastiche come «Abraham Sapien sogna di pesci» che sigilla La bara incatenata. Tanto nella scrittura quanto nel disegno Mignola ha lavorato attorno ai propri limiti usandoli come leve per scardinare immagini bellissime.

Il dono della sintesi

La narrazione si muove a un ritmo ellittico. Affina, toglie, si spoglia. Le forme, anche le più complesse, sono rappresentate con un’economicità da manuale. La tavola è in bilico tra la frattura in vignette sconnesse e una narrazione sequenziale vecchio stile. Questa tensione grafica è scaricata sugli assi verticali, o sui chiasmi che preservano la leggibilità della scena. L’autore brilla anche per la precisione chirurgica con cui sceglie le immagini e per il segno ipercontrollato con cui le ritrae. La resa finale è per certi versi di semplicità disarmante: non c’è un cazzotto male assestato, un’onomatopea di troppo o una creatura dall’aspetto infelice.

Non è un caso dunque che alcune delle prove più brillanti di Mignola stiano nel formato breve, come Pancake, una storia di due pagine che Mignola realizzò senza troppo ragionarci sopra («non pensavo sarebbe nemmeno stata mai più ristampata» avrebbe detto) ma che è diventata una delle sue opere migliori. Come sempre Mignola sa essere economico eppure denso di informazioni e, ispirato dalla propria esperienza genitoriale (la figlia era molto schizzinosa verso qualunque cibo le si offrisse che non fossero noodle al burro), riuscì a condensare in due tavole tutta la sua cifra stilistica e la sua poetica: malinconia, umorismo, andamento ellittico, conclusione fulminea.

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Hellboy come un bambino che vuole solo godersi le piccole semplicità dell’esistenza, buon cibo e la compagnia degli animali. Grandi figure mitologiche che si scontrano con le banalità della vita quotidiana e da esse si fanno condizionare. In Pancake si trova il tema centrale di Hellboy, la lotta contro il proprio destino e la propria natura.

Sin da Il risveglio del demone sappiamo che Hellboy è la bestia dell’Apocalisse, designata portatrice dei tempi finali, Anung Un Rama (sugli appellativi Mignola costruisce un raffinato gioco simbolico, dando molta importanza a come vengono utilizzati, perché, come insegnava Ursula K. Le Guin, pronunciare il nome significa controllare le cose). Combatte contro questo destino, lo rifiuta una dozzina di volte e tuttavia continua a emergere. La vittoria di Hellboy arriva quando lo riconosce e lo accetta come parte di sé stesso.

L’orrore

In Hellboy c’è anche un’idea peculiare di orrore. In genere, il filone horror si definisce in base alla relazione e all’idea che i personaggi hanno del nemico, di ciò che provoca il sentimento di paura e terrore. Come spiega il saggio Unknown Unknowns: Three Types of Horror (Plus One) in Hellboy, contenuto nel libro The Mignolaverse: Hellboy and the Comics Art of Mike Mignola, c’è l’orrore causato da minacce umane, riconducibili al nostro mondo e alle nostre esperienze (gli assassini, i criminali): in Scream una singola telefonata trasforma la casa, il luogo sicuro per eccellenza, in un covo di paura; c’è quello in cui agenti umani si rivelano appartenenti a una realtà altra – il soprannaturale – ma che alla fine possiamo ricondurre in qualche modo a dinamiche note (i vampiri si sconfiggono con l’aglio, i lupi mannari con i proiettili d’argento).

Il terzo tipo di orrore lo esemplifica H.P. Lovecraft in Il richiamo di Cthulhu: «Penso che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti». Le creature di Lovecraft sono sempre esistite, l’orrore è causato dalla scoperta della loro esistenza. La rottura è causata non più dalla trasformazione di qualcosa di noto o dall’arrivo di qualcuno ma solo da una consapevolezza. Hellboy racconta tutti e tre i tipi di horror contemporaneamente. La miscela è già visibile in Il seme della distruzione, che unisce vecchie case padronali che si rivelano ben altro, visioni apocalittiche ed esseri soprannaturali.

Questo perché Mignola ha un’idea omnicomprensiva di ciò che si può raccontare. Per esempio nel modo in cui tratta i vampiri. Il primo di essi che compare nelle avventure di Hellboy, Vladimir Giurescu (Il risveglio del demone), non risponde alle regole che il lettore si aspetta dal genere: nessuno parla di bere sangue, corone d’aglio, avversione alla luce solare. Cosa significa essere un vampiro nell’universo immaginario di Mignola? Non lo sappiamo e alla fine della storia non lo abbiamo ancora imparato. Quando veniamo a conoscenza delle particolari circostanze di Giurescu, scopriamo che è abbastanza diverso da qualsiasi altro vampiro nella narrativa moderna.

In ogni racconto in cui compare un vampiro non è mai lo stesso. L’omonimo mostro che compare nella breve Il vampiro di Praga non è stesso del Camazotz (vampiresco dio della morte Maya) e non è uguale a Giurescu. Ognuno pesca da una tradizione diversa (europea, messicana, letteraria, cinematografica). Mignola sembra rivolgersi al lettore per dirgli di abbandonare la concezione che ci sia una legge assoluta che governa la narrativa sui vampiri.

Dal folklore al mito

Mignola gioca con la mitologia, prendendo cose che sono familiari ad alcuni e reintroducendole in modi nuovi e contorti. Fa di tutto per stabilire che nel suo universo quasi tutto ciò che l’umanità ha sognato ha, almeno, il potenziale per essere reale. Lo stesso succede per la rappresentazione dell’inferno, in Hellboy all’inferno: Mignola lo rende una landa zeppa di luoghi letterari, di bassezza pulp. Quello che di solito immaginiamo come un posto connotato religiosamente diventa un catalogo di mostri e demoni. Ci sono tutti i suoi vezzi, i riferimenti folkloristici e letterari e le sue ossessioni. Le rovine, le architetture, i luoghi vuoti e abbandonati, il senso di solitudine.

Pur non costruendo racconti manualistici, Mignola incarna bene le righe che aprono L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell: «Quando ascoltiamo con divertito interesse le formule magiche bisbigliate da un variopinto stregone congolese, o leggiamo con raffinato compiacimento un’inadeguata traduzione degli aforismi del mistero Loa-tse, o ci sforziamo di penetrare nei tortuosi meandri di un concetto filosofico di Tommaso d’Aquino, o cogliamo all’improvviso il chiarissimo significato di una bizzarra favola eschimese, non facciamo che riudire o rileggere lo stesso, proteiforme, eppure straordinariamente identico racconto» (traduzione di Franca Piazza, dall’edizione Lindau). L’idea è talmente centrale nella serie che Hellboy si definisce in opposizione all’influenza di altre culture, che vogliono modellarlo.

A un certo punto, lo sferragliare delle catene, la simbologia nazista, il ferro ossidato e tutto quel corollario di temi e scenografie hanno lasciato lo spazio alle tradizioni fiabesche del globo (Africa, Giappone, Oceania) e Mignola ha trovato il suo porto sicuro tra le tinte maggese di storie come Il richiamo delle tenebre e La caccia selvaggia, intrise di epica britannica. Questo era anche giustificato dal fatto che Hellboy era partito come folklore ma si era sviluppato in mito, giustificando lo spostamento della materia del racconto.

La grande bravura del Mignola scrittore è la sua capacità di attingere al folklore di diverse culture e riscoprire lezioni e racconti vividi e in qualche modo primordiali. È il lavoro più importante che Mike Mignola ha svolto finora: creare l’illusione di un mondo ancestrale, antichissimo e sterminato. Mignola concepisce un fantasy che entra ed esce dalle nostre vite, un fantastico riluttante, precario, eterno tramonto che sta per spegnere la propria luce, simboleggiato da crepe, aree diroccate, macerie, pietra che frana e chiodi di ottone.

Mignola non cerca mai di sapere tutto sull’universo immaginario che crea, e il risultato è un mondo che è per sempre incerto. Il lettore non si sente mai in controllo della storia, non può mai essere sicur del risultato finale. Si palesa così il debito verso Lovecraft e quella «sensibilità antiquaria, le vecchie case di Rhode Island, il fatto che questi tizi facciano ricerche su traduzioni latine di vecchi libri. Scrive di persone intelligenti che passano molto tempo nelle biblioteche – e io lo adoro».

I veri protagonisti

Le storie di Hellboy sono spesso una raccolta di avventure autoconclusive che aiutano a modulare il tono (Teste, Pancake, Una scatola piena di malvagità), ma Mignola si dimostra capace di espandere idee in saghe di più albi (Il terzo desiderio, una delle sue storie più riuscite), che magari ogni tanto contengono un elemento della mitologia che poi tornerà in avventure successive. O magari no. Perché c’è molto di irrisolto nelle opere di Mignola: riferimenti, oggetti e situazioni fuori dal tempo spesso sono inseriti solo per ricreare quell’atmosfera scoperta nei libri di Lovecraft.

L’atmosfera e gli ambienti sono i veri protagonisti delle storie di Mignola, che ha decriptato il senso profondo di Hellboy quando ha capito che il personaggio era un «mood guy», un tipo che comunica una certa atmosfera. Hellboy è un pugile contemplativo che, finito l’incontro, si mette a leggere una copia sgualcita de Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock.

Mignola è allo stesso tempo incurante delle trame propriamente dette e prodigo con chi è stato attento e fedele nel seguire il suo percorso. Il fatto che venticinque anni di storie si siano risolte con una citazione a una storia di due pagine intitolata Il mago e il serpente che con Hellboy non ha nulla a che fare e che, anzi, parla di cosa vuol dire essere autori, indica il tipo di approccio del fumettista. Personalissimo oltre ogni concezione.

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