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Kimba, il leone bianco di Osamu Tezuka

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Realizzato tra il 1950 e il 1954 e poi trasposto a cartoni negli anni Sessanta (e oltre), Kimba il leone bianco è una delle opere più famose di Osama Tezuka, anche se non del tutto per meriti artistici. Il manga e il relativo adattamento sono stati protagonisti di una storia di plagio che vedeva Il re leone copiare spudoratamente alcune dinamiche del fumetto. Ad analizzare Kimba con un minimo più di profondità, che vada oltre qualche fotogramma comparativo, si nota che la materia del racconto è radicalmente diversa, se non altro per un grande tema che attraversa tutti gli episodi: il confine tra umano e animale.

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Disegnatore, sceneggiatore, animatore, regista e produttore, Osamushi, come viene chiamato dai suoi estimatori (ecco spiegato il nome della collana di J-Pop a lui dedicata), nel corso della sua prolifica carriera ha spaziato attraverso i generi e gli stili più disparati, dal romanzo storico alla fiaba, dai racconti per adulti a quelli bambineschi, dal cinema al fumetto. Tezuka è colui che ha cambiato la grammatica del disegno, facendo diventare uno standard i personaggi con gli occhioni, peculiarità che il mangaka aveva riadattato da Disney e Betty Boop.

Autore dalla produzione prismatica e dall’estensione stilistica molto ampia, Tezuka è stato capace di toccare temi adulti (Budda, La Fenice, I tre Adolf, Barbara) e avventure più leggere (come La principessa Zaffiro e Astro Boy). Kimba rientra di diritto in quest’ultimo filone e, come gli altri, porta avanti la vicenda con ritmo svelto, inanellando una gag dopo l’altra ma riservando spazio anche a momenti riflessivi. Come ricordava Andrea Tosti, oltre al riso, Tezuka stimola il pensiero su temi come l’ambientalismo, l’accettazione della diversità, la lotta contro il conformismo e la violenza dell’autorità.

Orfano prima di padre e poi della madre, Kimba è un leoncino che finisce suo malgrado a vivere nel mondo degli esseri umani, ad assaggiarne usi e costumi, assorbendo prima certi schermi mentali e poi rifiutandoli in nome di una ritrovata identità primaria. A riprova della sua ecletticità stilistica, Tezuka mischia il serio e faceto, l’azione brutale con balletti e canzoni da musical.

Ci sono la farsa, il dramma, la commedia, la fiaba, si parla di morte e abbandono, persino un’incursione nel tema del nazismo (uno dei cacciatori è un soldato che operò nei lager). C’è il pathos più coinvolgente ma anche la straniante rottura del quarto muro. Non tutto si mischia a dovere, un po’ per limiti intrinsechi, un po’ per l’età del fumetto. Dialoghi come «Che carino! È tutto bianco!», «Sfido io, questa storia è in bianco e nero» o la gag dello zio che, saltando, rompe una vignetta sono improvvisazioni estemporanee che lasciano il tempo che trovano.

Allo stesso tempo, La rappresentazione degli africani risente di stereotipi che in quegli anni erano la norma e che l’editore italiano ha correttamente introdotto in apertura del volume, spiegando come certe rappresentazioni fossero figlie del loro tempo e appaiano diverse ai nostri occhi rispetto a quanto facevano cinquant’anni fa.

La tensione del racconto sta anche nel modo in cui Tezuka scrive: l’autore imbastisce tanti episodi, più o meno comici e talvolta effimeri, che in sottotraccia costruiscono il carattere di Kimba e narrano, quasi senza che il lettore se ne renda conto, l’epopea di una vita partita con le vicende del padre e conclusa con quelle dei nipoti, due generazioni dopo.

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Lo stile di disegno tradisce la passione per l’animazione, passando da scene d’azione asciutte come l’arrivo di Panja al villaggio degli uomini o la caccia che apre la storia all’introduzione dei due esseri umani, in cui sono impiegati squash e stretch, perché Tezuka allunga la macchina e la contorce come fosse di gomma nel momento della frenata (o ancora, più avanti nel secondo volume, troviamo palazzi di gomma sconquassati dalla musica).

Tezuka è palesemente innamorato dell’intrattenimento così come lo concepiscono gli americani – il musical, l’animazione, il cinema, i minstrel show – e, sulle pagine di Kimba, tutti questi elementi compaiono rimescolati con il gusto orientale dell’autore, che trova perfino spazio per infilare una citazione a Gertie il dinosauro di Winsor McCay.

Come e forse più che in Disney, la natura è umanizzata (Kimba veste una salopette, c’è un ghepardo che chiede scusa al cerbiatto perché lo sta mangiando, un pappagallo si maschera per consolare Kenichi, il ragazzo amico di Kimba), piegata a dinamiche che vorrebbero mondarla da tutto ciò che viene percepito come primordiale, selvaggio, incontaminato.

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Ma la natura si ribella a ogni tentativo e Kimba, in bilico tra uomo e animale, ha una crisi d’identità quando vede come funziona la catena alimentare nella savana. Vede le carcasse delle zebre ed esclama: «Ho sentito qualcosa spingermi a saltare giù per andare a morderle». Combatte contro la sua natura di cacciatore, dopo una vita passata nella società umana. E anche quando comprende e accetta il proprio ruolo, Kimba implementa gli insegnamenti appresi dagli uomini (fa costruire strade, arare i campi, aprire ristoranti). Tuttavia, con il passare degli anni, Kimba recupera il proprio spirito identitario, e la fine della storia vede la natura sovrastare ogni tentativo umano di imbrigliarla.

Kimba – Il leone bianco è un tassello che si inserisce nella prima fase della poetica di Tezuka, il quale sembra dirci che non è questo il luogo deputato a ragionare di argomenti complessi con uno stile altrettanto rigoroso; piuttosto, l’opera cerca di non banalizzare le vicende di un leone albino parlante, pur rimanendo in un ambito giocoso e lieve, come Tezuka aveva imparato dalla tradizione Disney.

Kimba – Il leone bianco voll. 1-2
di Osamu Tezuka
traduzione di Hazard Edizioni
J-Pop, luglio-agosto 2019
Brossurati, 230-270 pp., b/n
12,00 € cad.

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