HomeFocusOpinioniQuestioni di famiglia. Tra Jupiter’s Legacy e Quantum & Woody

Questioni di famiglia. Tra Jupiter’s Legacy e Quantum & Woody

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In un recente articolo dedicato alla serie Jupiter’s Legacy di Mark Millar e Frank Quitely, il redattore del The Comics Journal Matt Seneca spende un lungo paragrafo su quella che ritiene essere la nuova frontiera del fumetto supereroistico. La sua argomentazione è piuttosto complessa, eppure riesce a cogliere il punto in un assunto tanto scontato quanto fulminante: “Superhero comics are no longer designed to feature relatable situations, but relatable feelings” (“I fumetti di super eroi non sono più pensati per contenere situazioni riconoscibili – Peter Parker che non sa come pagare l’affitto – ma sentimenti riconoscibili”).

Jupiters Legacy

Il concetto mi ha subito riportato alla mente le reazioni di un caro amico dopo aver assistito alla trasposizione cinematografica del celebre picture book Where the Wild Things Are di Maurice Sendak, ovvero Il Paese delle Creature Selvagge diretto da Spike Jonze. “Sembra di vedere un gruppo di adolescenti per la prima volta in vacanza senza famiglia”. Ed effettivamente era vero. Dietro a quei buffi mostri pelosi si nascondeva tutta quella serie di tipi-umani-ragazzini con cui tutti abbiamo condiviso anni spensierati. Il petulante che non viene mai ascoltato da nessuno, il volubile maschio alfa o l’incontrollabile esagerato; con le classiche e inevitabili tensioni portate da ormoni della crescita al lavoro a pieno regime. Ci siamo passati tutti, e tutti li sappiamo riconoscere immediatamente. Anche senza avere frequentato le creature selvagge tratteggiate da Sendak.

Jupiter’s Legacy è la stessa cosa. Con una differenza: al centro c’è il cliché della famiglia affermata, di quelle in cui i genitori hanno raggiungo il vertice della piramide sociale con il duro lavoro e l’impegno di anni mentre i figli si mostrano del tutto disinteressati e menefreghisti. E a rincarare la dose si aggiungono i superpoteri, naturalmente.

Nei primi numeri è assente ogni spettacolarizzazione, al punto da sembrare sia stata appositamente (e quasi bruscamente) evitata ogni scena un minimo concitata o cinematografica. Quello che importa è, piuttosto, ciò che avviene tra uno scontro e l’altro. Una tecnica che ricordiamo sfruttata in maniera stupefacente da Sergej Bodrov nel suo Mongol, e che per certi versi è stata portata al successo solo dalla recente produzione HBO dedicata alla saga del Trono di Spade di George R.R. Martin. Nonostante si parli di uno scontro pressoché planetario, nell’arco delle prime stagioni abbiamo assistito ad una singola, unica battaglia degna di essere definita come tale. In compenso abbiamo partecipato a lunghissime chiacchierate in sale da banchetto, a cavallo, in campi nomadi e in roccaforti. Sappiamo praticamente tutto dei legami familiari di ogni personaggio e dei suoi sentimenti vero il resto del parentado. Per essere un genere in cui, fino a poco tempo fa, non si faceva altro che puntare sulla spettacolarità insistita e “pornografica” – le interminabili sequenze d’assedio di Peter Jackson – lo strappo è immenso. E impossibile da ignorare.

Tornando al fumetto, la nuova serie di Millar pare più una versione in latex della sfortunata (e piuttosto dozzinale) serie TV di Bryan Singer Dirty Sexy Money, che non una nuova Ultimates. Il paragone potrebbe sembrare poco lusinghiero ma, diciamolo, non mi pare ancora il momento di tirare in ballo le tragedie da dinastia borghese di Philip Roth. Una visione dall’interno di un mondo lontanissimo da quello dei comuni mortali; supereroi da una parte, ricchissimi imprenditori dall’altra. Eppure, ciò che conta nel plot sono i legami familiari e umani. O, meglio ancora, il deterioramento di questi mano a mano che ci si avvicina al successo. Il piacere della lettura è tutto qua: vedere come persone che appartengono a un “altro pianeta” rispetto a noi – sul piano genetico, ma anche sociale o economico – reagiscano nella nostra identica maniera, quando sono alle prese con gli stessi problemi. Ancora peggio, il loro essere “arrivati” ne compromette le stesse capacità di risoluzione.

Volete un’altra dimostrazione di come questo sia un andazzo generale? Cambiamo completamente genere. Nella recente commedia Facciamola finita un gruppo di affermati attori di Hollywood (nei panni di loro stessi) devono fronteggiare il giorno del giudizio. Nonostante la colorita premessa e la roboante messa in scena, il vero fulcro di tutta l’opera è il diradarsi dell’amicizia tra i due compari di vecchia data Seth Rogen e Jay Baruchel dopo il trasferimento del primo a Los Angeles. Una situazione da cui siamo passati tutti, ma che pare irrisolvibile in virtù dell’egocentrismo tipico (o questo è ciò che vogliono farci credere) della categoria dell’intrattenitore pagato a peso d’oro. Ancora una volta, al centro ci sono i legami personali più profondi, colti mentre vengono corrotti dall’ascesa sociale.

Se prendiamo in analisi le produzioni recenti, l’unico caso in cui il potere riunisce una famiglia invece che dividerla è una serie sfacciatamente comica e parodistica: Quantum & Woody, reboot dell’omonima serie Valiant degli anni ’90, scritta dall’autore teatrale James Asmus. Nei primi quattro numeri di questo rilancio vediamo due fratelli adottivi ritrovarsi per indagare sulla morte del padre. Proprio durante un’incursione nei laboratori dove il genitore svolgeva le sue ricerche, i due finiscono per acquisire dei super poteri che li porteranno a vivere, volenti o nolenti, situazioni piuttosto al limite. Potendo contare solo uno sull’altro.

quantum woody

Il nocciolo della questione, in Quantum & Woody, è lo stesso di Jupiter’s Legacy, ma il percorso è agli antipodi, almeno nel tono (e nelle conclusioni). Così come nel lavoro di Millar e Quitely, anche le strambe gesta di quei due fratellastri hanno il loro maggior punto di forza nella maturità (ben) nascosta da una tutina sgargiante e da un mantello gonfiato dal vento. Nonostante le gag slapstick, i superpoteri e i cattivi improbabili. Forse perché non si gioca coi luoghi comuni, né si indugia in riferimenti metalinguistici o umorismo da poppante (o da poppante che vuole credersi già grande). Sullo sfondo della trama, piuttosto, si innesta uno scheletro concettuale profondo e credibile. Il ritmo forsennato è da sit-com, ma la psicologia dei personaggi è reale. Come se sapessimo ancora troppo poco di loro. Se il duro Eric (vera identità di Quantum) di tanto in tanto lascia cadere la sua maschera da uomo perfetto, Woody dà sempre l’impressione di vestire il ruolo di un personaggio ben definito ma lontano dalla sua reale natura. In effetti di lui sappiamo pochissimo, neppure che fine possano aver fatto i suoi veri genitori. Quali traumi nasconderà, dietro al suo comportamento ridanciano e sopra le righe?

Da questo punto di partenza prende il via una serie continua di sketch che non hanno paura di sporcarsi le mani con argomenti scomodi – Woody cerca di fare arrestare il fratello spacciandolo per terrorista medio-orientale – o cambiando di tono. Guardando, per esempio, al passato dei due fratelli con uno sguardo più dolce rispetto al resto del fumetto. Così della trama ci si dimentica in fretta, interessati più al prossimo battibecco tra i due protagonisti (fantastico quello sul razzismo latente, nel terzo episodio) che agli snodi di un plot che, per ora, non ha riservato nessuna grossa sorpresa.

Ecco: in Quantum & Woody non interessa a nessuno se il mondo si salverà. Si vuole sapere, invece, se i due torneranno a essere i due migliori amici. Come da bambini. Guarda caso, poi, i protagonisti non sono eroi senza macchia, geniali inventori o folli visionari, ma due idioti che possiamo guardare dritti negli occhi senza dover alzare il capo. In questo caso il lettore medio (incluso il sottoscritto) non può che augurargli il meglio e, in fondo, tifare per loro. Solo chi ha avuto la forza di raggiungere la vetta può farcela benissimo da solo. Senza che nessuno si disturbi a provare la benché minima empatia nei suoi confronti. 

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