Kokoro si apre con una pagina vuota all’interno della quale campeggia la scritta: «questo volume appartiene a», seguita da una riga tratteggiata. È un invito che Igort fa al suo lettore, e un richiamo alla natura stessa del libro, “il suono nascosto delle cose”.
Kokoro, in giapponese, spiega l’autore, significa cuore, inteso come senso spirituale delle cose. E il nuovo libro di Igort, è questo: non solo un picture book, immaginato inizialmente per proporre acquerelli in orizzontale, ma una raccolta ragionata e rivisitata di quei blocchi di carta economici e senza marchio che l’autore aveva scoperto un giorno in un 7eleven e che sono diventati il suo oggetto inseparabile, il blocco degli appunti visivi sempre nella sua borsa. I taccuini erano di Muji Rushi, azienda il cui nome in giapponese vuol dire “senza marchio” e che ancora doveva diventare una icona del minimalismo fighetto occidentale, che conosciamo con l’abbreviazione Muji.
Era il 1994 e Igort stava scoprendo il Giappone e ridefinendo la sua traiettoria artistica ed esistenziale. Igort è diverso e, nonostante la generazione a cui appartiene, gioca una sua partita fuori dagli schemi, per quanto riguarda il Giappone. Quali schemi? A spiegarli per bene nel suo libro Iro Iro (“molteplicità variopinta”, cioè un memoir in e sul Giappone in forma di zuihitsu, che significa “seguendo il pennello”, per così dire) è Giorgio Amitrano, yamatologo accademico all’Orientale di Napoli e felice traduttore di alcuni dei narratori giapponesi più recenti e pop (Banana Yoshimoto, Haruki Murakami, per dire): «Come accadeva spesso in passato, e meno spesso oggi, gli intellettuali e gli artisti che si accostano al Giappone sono affascinati dalla superficie e trascurano l’essenza».
Amitrano registra con acutezza il passaggio generazionale dagli appassionati (non accademici) di Giappone del passato, che spesso coglievano con originalità qualcosa ma poi ne fraintendono profondamente il senso e finivano a parlare di altro (più spesso di se stessi) ai cultori della materia giapponese di oggi. Igort – che apparterrebbe per età a quella fetta di passato – fa invece partita a sé.
L’autore sardo – le cui vicende multiformi gli appassionati di fumetti e non solo conoscono – è nato nel 1958 a Cagliari e nella vita ha traversato ambienti e culture le più diverse, dall’America Latina alla Russia e all’Ucraina, per dire. Pochi anni fa ha pubblicato i suoi Quaderni giapponesi, un viaggio nella memoria attraverso il Giappone su cui è stato costruito anche un interessante documentario omonimo.
Con una grande differenza rispetto alla maggior parte di chi parla di Giappone perché magari l’ha visitato: Igort con l’arcipelago di Yamato si è cimentato, si è sporcato le mani. Ha lavorato per l’editore Kodansha, ovvero in Giappone ha vissuto, ha dato una dimensione lavorativa ed esistenziale – anziché turistica e romantica – al Giappone. Come scrive, con grande serenità e onestà, riportando uno scambio con l’amica Yuca alla quale dice «Mi piace la vita giapponese», e si sente rispondere «Ti piace la tua vita giapponese». Che vuol dire: vivere in un pianeta – il pianeta manga – con tutti i privilegi di un autore (occidentale) soprattutto per gli orari e i carichi di lavoro. In modo profondamente diverso dagli altri impiegati giapponesi.
Il libro è seducente, non solo per il formato e per la carta. O per i disegni: che sono multiformi, ricchi, sempre più frammentati, inframmezzati da rettangolini di testo scritto a mano, in una sorta di faux collage di quadernini e taccuini. Ci sono le curiosità, gli aneddoti, i momenti di cultura giapponese (la cerimonia degli aghi rotti, la spiegazione del ruolo dei kami), la cultura visiva “giusta” (i disegni dell’enciclopedia dei mostri giapponesi di Shigeru Mizuki), l’analisi dei grandi fenomeni che hanno attraversato la cultura e la società giapponese del Dopoguerra, quella quotidianamente violentata dall’occupazione americana e dalle sofferenze di una guerra profondamente sbagliata, che ha portato per dire al seppuku di Yukio Mishima o alla ricerca dell’umorismo e della leggerezza nelle piccole cose per reagire al militarismo di inizio Novecento. Ci sono, certo.
Lo sguardo di Igort in Kokoro, tra i frammenti, è anche quello. E dove guarda, poi disegna, appunta, abbozza. Ci sono anche le altre mille citazioni grafiche e visive, le piccole strizzate d’occhio che può fare solo chi il Giappone un po’ l’ha vissuto – qua e là qualche stampu, i timbri che ogni stazione del treno o della metro e delle JR ha a disposizione (sempre diverso) per turisti e soprattutto scolaresche -, ci sono gli incontri con autori e autrici del mondo editoriale, che è poi l’elemento liquido in cui nuota Igort attraverso incroci multiculturali e planetari, siano essi graphic novel d’inchiesta in Russia o pagine di futurismo spinto da legare a un disco di Ryuichi Sakamoto.
Ci sono ragionamenti veloci, affilati, colti e precisi, di quella leggerezza precisa e puntuale che piaceva a Calvino: c’è ad esempio un breve percorso dell’estetica del kawaii che non è banale e anzi coglie aspetti su piani diversi che spesso si ignorano.
Kokoro di Igort è un viaggio nel Giappone interiore per immagini frammentate e concetti raccolti dall’autore quando ci ha vissuto o quando ci ha pensato. È onirico e poco solido, nella sua frammentarietà. Ma c’è dietro un mestiere che va oltre l’arte dell’accostamento casuale e segue invece la sapienza di chi sa fare fruttare il proprio gusto per la composizione, per l’inquadratura, per il tratto. La cosa in cui Igort eccelle.
Più ancora, si apprezza il viaggio di uno spirito smanioso che cerca intorno a sé nuovi modi per saziare la sua fame di vivere e trovare un senso. Un viaggio, insomma, di uno spirito irrequieto alla ricerca di quel Giappone interiore che ancora oggi ossessiona in modo sfuggente molti di noi. Sono cambiate le stagioni ma lo Yamato-gokoro è sempre là, sereno e imperscrutabile. O forse solo in attesa.
Kokoro
di Igort
Oblomov Edizioni, maggio 2019
cartonato, 128 pp., colore
22,00 €
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