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La sensazionale She-Hulk di John Byrne

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Che She-Hulk fosse un personaggio decisamente atipico lo si doveva capire al volo. Poco importa che la sua genesi fosse uno degli esempi più basilari di come funzioni l’industria dell’intrattenimento quando è lanciata a piene regime. All’epoca della sua creazione, correva l’anno 1980, il successo della serie tv L’incredibile Hulk presso il pubblico generalista era indiscutibile. Alla stessa maniera La donna bionica – spin-off al femminile de L’uomo da sei milioni di dollari – era riuscita a imporsi nei palinsesti di mezzo mondo. Alla luce di risultati così proficui non tentare la stessa strategia con il gigante di giada sarebbe stato davvero da sprovveduti.

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Sembrava una scommessa sicura, la classica operazione a tavolino perfetta per arrotondare il budget di fine anno senza rischiare troppo. Prendiamo un personaggio al vertice della sua popolarità e ne raddoppiamo la visibilità semplicemente aggiungendo una variante, in questo caso il sempreverde genderswap. Purtroppo i piani alti della Marvel non avevano tenuto conto di una cosa, forse la più importante di tutte: come l’avrebbe presa la stessa She-Hulk?

Forse sarebbe stato il caso di porsi questa domanda fin dall’inizio, visto la piega che le cose cominciarono a prendere fin dal momento del debutto. Le ambiguità iniziarono infatti con Savage She-Hulk #1. Sulla copertina dell’albo la Nostra eroina veniva rappresentata come un’enorme donna verde dalla chioma vaporosa e fluente. Il fisico era sodo e statuario, non grottesco come quello della sua controparte maschile, e a incorniciarlo trovavamo una sorta di vestitino dalle proporzioni perfette e le cui lacerazioni formavano una generosa scollatura a V e coprivano le cosce quel che bastava per rimanere esposti in negozio.

Nella parte bassa dell’illustrazione, leggermente spostata in avanti, veniva ritratta la stessa Jennifer Walters in versione avvocatessa e non gigantessa schiumante rabbia. In quel caso il disegno era sicuramente più morigerato, con la ragazza vestita come la moda dell’epoca imponeva. Eppure la carica sensuale non era del tutto assente: le forme erano morbide e i fianchi disegnavano una curva inviante, mentre l’aria quasi ritrosa della ragazza faceva il resto.

A voler essere maliziosi, oltre che vagamente misogini, verrebbe da pensare che Mike Vosburg riuscì a mettere su carta quel miraggio tipicamente maschile per cui quella nostra compagna del liceo timida e riservata celasse sotto quegli abiti poco appariscenti una belva indomabile. Si tratterebbe di una lettura del tutto legittima, considerando oltretutto la natura puramente speculativa del progetto. L’acquirente medio era un ragazzino da conquistare al primo sguardo, svettando su tutti gli altri albi della rastrelliera, non chissà quale intellettuale da salotto buono.

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Senza doversi sforzare troppo si poteva però trovare benissimo una seconda chiave di lettura. Quella della riscossa di un’introversa avvocatessa di provincia cresciuta all’ombra del padre, che finalmente trovava il modo per mostrare al mondo la sua reale personalità. Non più remissiva e silenziosa, ma una forza della natura inarrestabile e carica di rabbia.

Con il tempo la giovane ha imparato a gestire la sua nuova natura, acquisita dopo una trasfusione di sangue da parte del cugino Bruce Banner, e ha deciso di rimanere volontariamente bloccata in questa versione di sé così appariscente. Tanto aliena a quello che la circonda quanto sicura di se stessa e finalmente libera di essere ciò che più si sente. La vicinanza di Stan Lee a certi ideali progressisti è ben nota e non ci sarebbe da meravigliarsi di nulla se la sua visione del mondo avesse finito per influenzare anche l’ultima delle sue creazioni, di cui scrisse un solo numero.

E qui veniamo al punto: entrambe quelle riportate sono due interpretazioni che funzionano e trovano abbondanti riscontri, dimostrando come all’epoca Jennifer Walters fosse ancora un veicolo per una nostra idea più che un personaggio completamente finito e indipendente. Ancora oggi c’è ancora chi ci vede del sessismo a ogni costo e chi esattamente l’opposto. La serie durò infatti solo un anno, dopodiché l’eroina finì per vagare nell’orbita di altre superstar del comicdom statunitense, prima con i Fantastici Quattro e poi con i Vendicatori.

Questo dovrebbe farci quantomeno riflettere: abbiamo un’affermata avvocatessa, intelligente, brillante e dotata di una forza semidivina e ancora parliamo di ruoli da gregario. Era evidente che qualcosa fosse destinato a cambiare. Il grande passo verso la maturazione definitiva del personaggio lo si ebbe quando John Byrne, all’epoca una specie di messia dei fumetti in grado di far arrivare al vertice delle vendite qualunque cosa toccasse, decise di metterla finalmente in primo piano, ascoltando quello che lei stessa aveva da dire. E non parliamo di una figura retorica, intendo dire che lo fece alla lettera.

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Ancora oggi la She-Hulk di Byrne viene ricordata prima di tutto per la costante volontà di sfondare la quarta parete e per i suoi battibecchi con chi realizza le sue storie. Passando da “Selvaggia” a “Sensazionale” la prima novità introdotta fu il divenire conscia della sua natura di personaggio di finzione, non mancando di farcelo notare in continuazione. Se le scelte autoriali sono troppo pigre – come una doppia pagina dove una galassia è tutto tranne che galattica, limitandosi a qualche puntino luminoso su fondo nero – canzona il demiurgo Byrne senza pietà, magari mentre sfrutta la grammatica del fumetto a suo piacimento.

Così una brusca transizione da vignetta a vignetta può aiutare quando si è in ritardo e l’inserzione di una trama secondaria può distogliere l’attenzione del lettore quanto basta. Parrebbe un meccanismo comico ben oliato, reso perfettamente funzionante dalla maestria dello sceneggiatore nel manipolare il linguaggio, e nulla più. Un balocco scanzonato e così ben realizzato da meritarsi una ristampa in Omnibus. Oppure tutta questa leggerezza potrebbe parlarci in maniera più seria di quanto sospettiamo.

Prendere un personaggio come quello di Jennifer Walters, metterlo al centro della pagina e provare a scriverne una serie normale significa sbagliare praticamente tutto. Prendiamo questo assunto come un fatto. Così come puntare unicamente su di un umorismo metalinguistico idiota alla Deadpool, dove i riferimenti autoreferenziali sono praticamente fini a loro stessi.

A distanza di quasi trent’anni dalla sua creazione la battuta più famosa del mercenario chiacchierone rimane «Deadpool, Deadpool, Deadpool, da quanto tempo non ci vediamo?» «Dal numero 16. Grecia… Come va, Bullseye?» e nessuno ha davvero ancora capito come siano riusciti a cavare due film quantomeno godibili dalle sue avventure. Nella serie di Byrne le cose funzionano in maniera molto diversa. Il punto centrale di ogni gag è, sempre e comunque, quanto sia fantastica la protagonista.

L’autore si trastulla nel bistrattarla un poco, ma in realtà ogni singola vignetta di La sensazionale She-Hulk è una lettera d’amore. E più passano le tavole più ci rendiamo conto che non potrebbe che essere così. A differenza di tutti i suoi colleghi in tutine di spandex, una così non la puoi certo trattare come un burattino da manipolare a piacimento. Reed Richard potrà sicuramente essere l’uomo più intelligente di Terra-616, ma non è comunque abbastanza sveglio da accorgersi di essere parte di un fumetto. E se doveste scegliere un avvocato per difendervi in un processo, chi scegliereste? Un pesantone dal perenne senso di colpa che non farà che ricordarvi quanto tutto il peso del mondo è sulle sue spalle, per poi finire a letto con tutte le donne con cui entra in contatto incasinandogli parecchio la vita, o una tizia inarrestabile, divertente e decisamente sicura di sé? Mi pare la scelta sia scontata, ne siete consapevoli voi quanto lei stessa.

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Il risultato di un approccio così limpido restituiva un fumetto nel quale non c’era spazio per i fraintendimenti. Anche se a ogni occasione utile She-Hulk appariva seminuda sulle copertina dei suoi albi, non c’era mai il minimo velo di sessismo in quelle illustrazioni. L’impressione era quella di un personaggio che, se avesse potuto scegliere, probabilmente sarebbe stata propensa lei stessa a essere ritratta in quella maniera. Perché conscia di essere statuaria, sicura di sé e, perché no, anche un poco egocentrica. Dopotutto stiamo parlando di una donna che ha scelto di rimanere verde e alta due metri e dieci nonostante potesse tornare alla normalità quando lo desiderasse (nella serie classica).

La sessualità appartiene a She-Hulk. Non si tratta di una cortigiana catatonica, ma di una rubacuori spavalda. Il suo primo interesse amoroso è un suo vicino di casa studente di medicina, un ragazzo più giovane. «Nelle storie scritte da Dan Slott, Shulkie porta a casa un super-modello per poi capire come fare in modo che il suo Adone non si affezioni troppo» scriveva Alyssa Rosenberg. Ma, a dispetto di quanto asserisce la giornalista del Washington Post, She-Hulk non è una mera fantasia maschile quanto non è neppure un’eroina femminista. Molto più prosaicamente è una tizia decisa a fare le cose a modo suo, fregandosene di convenzioni e regole date per assodate. Una che riesce a passare dal salvare il mondo al farsi sbattere fuori dai Vendicatori per i suoi eccessi da party-animal.

Ammettiamolo, al netto di un Tony Stark già sbronzo prima che inizi la festa, possiamo solo immaginare quanto possa essere noiosa la vita in 890 Fifth Avenue. Quindi, come darle torto? In questo senso la copertina del rilancio a opera di Byrne fu un manifesto programmatico di una limpidezza abbacinante. Sguardo intenso, una mise ancora più provocante rispetto al suo esordio, ma anche pugni serrati e muscoli tesi. In mano teneva proprio The Savage She-Hulk #1, mentre un balloon metteva subito in chiaro le cose «Se non comprate il mio fumetto questa volta vengo a casa vostra e vi strappo tutti i vostri X-Men».

Non si tratta di una scelta casuale, il bersaglio di tale minaccia è una categoria umana ben precisa: quei nerd che da lì a poco, dalle pagine della posta, avrebbero sostenuto che vederla saltare la corda nuda per 22 pagine sarebbe stato sufficiente per vendere lo stesso numero di copie. Byrne, da sadico qual’era, rispose all’appello nel numero 40. A dispetto degli annunci in copertina non mostrò praticamente nulla, chiarendo piuttosto come «chiunque sia stato così sciocco da credere che potessi davvero metterti (rivolgendosi alla protagonista) a saltare la corda nuda merita di avere sprecato i propri soldi».

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Va detto che la serie, soprattutto se riletta tutta d’un colpo e non in albetti diluiti nel tempo, perde qualche punto. L’esigenza di dover riallineare i lettori a ogni numero rendeva necessario un riassunto a ogni capitolo, aspetto esacerbato ulteriormente dalla tendenza dell’autore a scherzarci sopra diluendolo di volta in volta in un numero di pagine sempre maggiore. Diverse gag venivano riproposte quasi identiche di episodio in episodio, in modo che anche l’appassionato più casual riuscisse a trovare un punto di riferimento per godere i vari sviluppi delle stesse. Si tratta di mali necessari, che da soli non bastano a far perdere di smalto decine di trovate geniali.

Piazzare in apertura all’albo quattro pagine di Rob Liefeld letteralmente ricalcate da un mostro sacro come Byrne non ha prezzo, così come vedere She-Hulk furiosa per via della caratura non proprio nobilissima dei suoi avversari. In un simile contesto si può arrivare perfino a infierire sulla produzione Marvel più antiquata, dimostrando come il passare del tempo non si sia certo dimostrato gentiluomo con certe trame piuttosto naïf. Nel mezzo si possono trovare scorribande sconclusionate, battibecchi, avventure al fianco di Babbo Natale, piani di fuga attraverso le pagine dedicate agli ordini degli arretrati e un sacco di altre idee che hanno reso La sensazionale She-Hulk una delle testate più inclassificabili di tutta la storia della Marvel.

Considerando quanto lo sceneggiatore amasse perdere tempo e spazio inserendo trovate come pagine completamente bianche – portando all’estremo quanto già fatto da lui stesso su Alpha Flight – o pin-up gratuite, il ritmo della narrazione viaggia sempre a velocità folli, che forse solo il miglior Erik Larsen è riuscito a pareggiare sulle pagine di Savage Dragon. In poco più di venti pagine al mese la nostra eroina verde attraversa galassie lontanissime, incontra esseri mitologici, viaggia tra le dimensioni e fa esplodere la testa a qualche zombi. Il tutto senza mai starsene zitta un istante, commentando le scelte più gratuite dello scrittore, rincorrendo manzi muscolosi e risolvendo le cose a modo suo. Il che spesso significa menare come un fabbro e sfasciare tutto quello che le si pone davanti.

Byrne cesella pagina dopo pagina un personaggio grandioso, innamorandosene e portandolo al successo come nessuno si sarebbe aspettato. Scherza di continuo con il suo ego e gioca a fare il padre-padrone della sua eroina – quando fu richiamato a scrivere la serie dopo esserne stato allontanato pretese che la numerazione di copertina tornasse a quella della sua prima gestione, come se in mezzo non fosse successo nulla – ma conclude il suo ultimo numero nell’unica maniera possibile: preso da un raptus di egomania sconcertante presenta a She-Hulk le idee per le sue prossime storie. Tanto geniali per lui, quanto improponibili per la protagonista. Che infatti sceglie di scagliare lo sceneggiatore fuori dalla finestra e ucciderlo in modo definitiva, aprendo un nuovo capitolo della propria carriera editoriale.

Dopo tanti morti sulle pagine – altra tendenza tipica dei comics derisa con la giusta veemenza nel corso della serie – finalmente uno anche fuori da quello spazio bianco dove troppi eroi sono caduti per meri motivi commerciali. A conti fatti forse una maniera un po’ brusca per dare il benvenuto al nuovo team creativo, ma dubito ci fossero altri modi per allontanare Byrne dalla sua gigantessa verde.

La sensazionale She-Hulk – Marvel Omnibus
di John Byrne
traduzione di Wabbit Translations
Panini Comics, ottobre 2018
Cartonato, 672 pp., colore
69,00 €

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