La bella morte è l’opera prima giovanile di Mathieu Bablet, realizzata nel 2011 e ora tradotta in Italia da Mondadori Oscar Ink dopo il monumentale e più recente volume Shangri-La, del quale abbiamo già parlato in maniera abbastanza positiva.
L’autore francese, nato a Grenoble nel 1987 e diplomato all’Accademia di Chambéry, è di sicuro uno dei talenti del mondo del fumetto francofono e, nonostante la giovane età, ha già prodotto diversi lavori. Dopo La belle mort del 2011 ha realizzato la serie Doggybags a cavallo tra il 2012 e il 2015, e poi Adrastée tra il 2013 e il 2016. A cui è seguito il già citato Shangri-La, che lo ha imposto all’attenzione del pubblico internazionale.
Rieditare e pubblicare il lavoro degli esordi, più di 150 tavole, non è solo una operazione economica per avere qualcosa da dare ai lettori in attesa dei suoi nuovi progetti. C’è un’operazione sulla memoria che va in profondità e che può svelare nodi o contraddizioni. In questo caso evidenzia una passione giovanile verso il fumetto e un lavoro per arrivare alla maturità che è contemporaneamente riuscito – nell’articolazione della storia e in parte delle ambientazioni – e ancora immaturo – nella caratterizzazione grafica dei personaggi e nella loro dinamicità.
Si nota in queste pagine la passione di Bablet per il fumetto giapponese e un tratto ricco e gustoso che richiama molte suggestioni, tra le quali alcune idee grafiche di Moebius, che si rivelano sia nella campitura delle tavole sia nel respiro del racconto. Tra le pagine di La bella morte si scova anche una ricchezza di immaginazioni e invenzioni, in particolare nei paesaggi desolati della città distrutta e svuotata dall’invasione extraterrestre degli insettoidi, che colpisce per la maturità con la quale è sviluppata a cavallo di un quantitativo di tavole enorme.
Dove Bablet è debole, e migliorerà negli anni successivi senza però ancora arrivare a un risultato ottimale, è nelle figure umane. Abbozzate, quasi caricaturali, rigide, faticose. Mancano quasi totalmente di dinamicità e quando corrono o si muovono o devono compiere delle azioni più difficili dello stare ferme in un angolo, creano problemi di prospettiva, di movimento e di articolazione. Fossero figurine di un altro fumetto ritagliate e appiccicate sulle sue tavole, Bablet sarebbe più giustificato, ma così non è e a tratti l’autore dà l’idea che manchi la collaborazione con qualcun altro al character design.
La storia di La bella morte è comunque godibile non solo per essere un’opera prima e non sta certo a chi scrive dare spoiler o avanzare critiche su passaggi che possono più o meno convincere. In realtà convince e va più che bene: il registro è adatto allo stile e alle possibilità espressive di un giovane artista e l’intelligenza dell’autore che vuole aprire davanti a sé una lunga carriera sta anche nel cimentarsi con lavori difficili da maneggiare.
Il mondo desolato dei sopravvissuti, e quindi con pochi personaggi da gestire, è adatto al tratto di Bablet, ancora incerto sull’essere umano e invece potente nel tratteggiare ambientazioni aride, desolate e post-apocalittiche. Nelle sue tavole l’autore non lascia un millimetro quadrato vuoto, riuscendo comunque a giocare in modo interessante sulla prospettiva e sulle composizioni a più piani.
Il limite della gioventù è più leggero di quel che non si potrebbe immaginare e Bablet, che in seguito ha affermato che avrebbe rivisto tantissimi particolari di questo lavoro, riesce comunque a convincere rivisitando un genere – il post-apocalittico – che è abitato da opere e autori monumentali.
La bella morte
di Micheal Bablet
traduzione di Isabella Donato
Mondadori Oscar Ink, novembre 2018
cartonato, 160 pp., colore
22,00 €