A quasi quarant’anni dall’edizione di Comic Art curata e tradotta da Luciano Guidobaldi – ma riprendendo la grafica dell’edizione di pochi anni fa dell’editore francese 2024 – Eris Edizioni riporta nelle librerie italiane una delle più importanti opere di Gustave Doré e uno dei capitoli chiave della transizione fra i molti ibridi editoriali contenenti testo e immagine interconnessi pubblicati fra XVII e XIX secolo.
Rispetto a tanti esempi coevi e precedenti, Storia della Santa Russia rappresenta però un caso unico, soprattutto per la notevole foliazione: 500 incisioni distribuite su 103 pagine. Un numero enorme per gli standard dell’epoca e che rimarrà insuperato anche per molti anni a venire. Primato a cui attenterà, senza successo, la serie di ingegnosi libri (sì, si tratta di un suggerimento per un prossimo recupero) ambientati in un antico Egitto fantastico realizzati da Carl Maria Seyppel fra il 1879 e il 1889 (QUI un esempio).
Il tema del volume è esplicitato dal titolo e non è il caso di soffermarcisi troppo: in estrema sintesi si tratta di una storia in chiave satirico-patriottica della Russia, dalla preistoria all’anno della pubblicazione dell’opera, sullo sfondo della Guerra di Crimea che vedeva coinvolta anche la Francia. Doré, ad ogni modo, non era nuovo a lavori fumettistici o proto-fumettistici che dir si voglia, realizzati sull’esempio degli albi di Töpffer, di Cham e del suo amato Grandville.
Gli stratagemmi visivo-testuali, le invenzioni grafiche e narrative e i giochi di parole che il fumettista mette in bella mostra in questo suo volume, come se fosse un compendio della sua carriera, erano già stati sperimentati – in alcuni casi in forma ancor più originale – in lavori come Les travaux d’Hercule (1847), Trois artistes incompris et mécontents (1851) e, soprattutto, in quello che può essere considerato il suo capolavoro di umorismo grafico – anche perché non macchiato dalla vena xenofoba che percorre tutta la sua Storia –, Des-agréments d’un voyage d’agrément, riuscitissima parodia dell’allora nascente moda del turismo.
L’ancora acerbo Les travaux d’Hercule (ultimo albo pubblicato della Collection des Jabots, serie pirata delle opere del ginevrino Töpffer, proseguita poi con la pubblicazione altri volumi inediti), il lavoro più esplicitamente töppferiano di Doré, scritto e disegnato quando aveva solo 14 anni, si fece notare per le notevoli invenzioni grafiche atte a rappresentare il movimento. Ma fu nelle opere successive che la fantasia del giovane artista si fece decisamente più sfrenata.
Il modello pittorico, a sua volta di impianto teatrale, hogarthiano, si dissolve. La scena – o la tavola – non è più un palcoscenico su cui i personaggi si muovono come su un palco, ma diventa parte diegetica del racconto. Cham si era già mosso in questa direzione ma fu Doré che, intuendo le capacità di un medium che forse non era ancora considerato come “nuovo”, ne moltiplicò le capacità. Lo sguardo non era più oggettivo ma spesso soggettivo – grazie anche alla mediazione di artifici tecnologici come il telescopio e il binocolo.
La pagina si verticalizza e si ingrandisce, permettendo così nuovi tipi di combinazioni fra i disegni e le vignette. Inoltre si moltiplica il numero dei punti di vista, che diventava mobili. Volti e oggetti conquistano la ribalta del primo e del primissimo piano e la narrazione si frammenta per seguire contemporaneamente le vicende di più personaggi.
Scompaiono la gabbia töppferiana e le figure dai contorni sfumati, e i forti contrasti dati dalle pesanti ombreggiature, i volumi dei corpi e la scansione degli sfondi, che si dividono all’occhio tra bianchi e neri
– come nella prima tavola di Des-agréments –, restituiscono l’impressione di un «tutto» più coeso, frantumato nella lettura ma coerentemente organizzato per quanto riguarda la composizione della tavola.
Un effetto voluto che, complicando il senso della lettura rispetto a una scansione lineare e orizzontale, quasi del tutto mimetica con quella alfabetica, piegava il disegno e il layout a fini retorici, anche solo per come contraddice un’abitudine consolidata.
La storia di Des-agréments narra del viaggio attraverso le Alpi di due commercianti ritiratisi recentemente dalla loro professione: César e Vespasie Plumet. Il primo dei due, disegnatore dilettante, porta con sé un album ricordo, sul quale realizza dei disegni di viaggio che diventeranno, racconto nel racconto, la propria versione della vicenda narrata.
Questo servì a Doré per rendere percepibile la distanza fra quello che le parole, nelle didascalie, raccontavano – un racconto «romanzato» nel senso deteriore del termine – e quello che le immagini, per via della loro natura presupposta testimoniale, invece svelavano.
Doré, come già detto, conferiva alle immagini «riportate» nella storia dall’album di Plumet un diverso senso di realtà, contrapposto a quello ingannevole delle parole, introducendo un punto di vista intradiegetico nella narrazione. Un senso di realtà che veniva inoltre accresciuto dall’inserimento di elementi di un livello di realtà ancora superiore: i fiori secchi attaccati come ricordo sull’album (con tanto di romantiche lacrime a bagnarli), il muso di una vacca che lecca il disegno e l’impronta di un piede che ne ha calpestato un altro.
Un’altra notevole sequenza di quest’opera è quella del telescopio. Sequenza che si ricollega a quanto detto in precedenza sull’influenza dei nuovi strumenti ottici sull’immaginario fumettistico e cinematografico e che stupisce, inoltre, per la precisione tecnica della resa grafica.
Attraverso una serie di vignette circolari, che mimano l’esperienza del guardare attraverso un telescopio, Doré mise in scena una progressione straordinaria. Con la scusa dell’espediente tecnico ci viene mostrato un campionario delle possibilità espressive che il fumetto avrebbe sfruttato pienamente solo anni dopo e che realmente anticipa, e con notevole preveggenza migliora, equivalenti, future, sequenze cinematografiche.
Vespasia, la moglie di Plumet, segue attraverso il telescopio la scalata del marito. Si noti che, come succederà anche nel cinema, per introdurre sequenze rappresentate attraverso un punto di vista anomalo o non abituale queste debbano essere sempre precedute dalla messa in scena dell’osservatore, che contestualizza e normalizza l’anomalia. Si parte con un’inquadratura sfocata.
Abbiamo poi una serie di salti temporali (dal giorno alla notte, rappresentata con una vignetta nera) e di piano (dal primissimo piano di una mosca al campo lunghissimo del Monte Bianco), fino al dettaglio ravvicinato delle impronte di piedi e altri dettagli degli scalatori.
Doré si concesse la libertà di inventare un repertorio grafico così vario e discontinuo, che cambiava pagina dopo pagina a seconda della necessità della narrazione (poche pagine dopo Doré offrì anche una visualizzazione di un motivo musicale tramite un pentagramma sospeso nel cielo). Senza nessun vincolo di composizione, di gabbia e nessuna restrizione rispetto al numero, alla forma o alla disposizione delle vignette, alla ricerca di un linguaggio grafico libero dalle modalità di lettura a cui era legata la parola.
Questo atteggiamento restò a lungo un unicum, presto schiacciato dalla necessità e dalle ristrettezze imposte dalla pubblicazione in forma di striscia o comunque su rivista o quotidiano. Bisognò aspettare molti decenni prima che questa eredità, a lungo dimenticata, potesse trovare degli eredi che avrebbero sviluppato autonomamente dispositivi simili.
La Storia della Santa Russia non è, come già detto, solo una summa delle precedenti invenzioni dell’autore, ma sviluppa un particolarissimo rapporto fra la componente verbale e quella grafica.
S’è già detto come il disegno venisse utilizzato da Doré come portatore di verità rispetto alla più ingannevole parola. Il rapporto talvolta dissonante, talaltra contrappuntistico fra parola e immagine, elemento cruciale della sintassi del fumetto – sempre meno usato nei termini della sua contraddizione e che la formulazione graphic novel sta contribuendo a far declinare – raggiunse il suo apice del periodo, appunto, della Storia di Doré, dove «la “retta” storiografia ufficiale (didascalia) è fatta per collidere con e contraddire la realtà (disegno) crudele e cinica».
La prima cosa che salta all’occhio guardando questo volume è che, come nel caso di Trois artistes incompris et mécontents – ma ancor di più vista la sua voluminosità – esteriormente assomiglia in tutto e per tutto a un libro (e non si tratta di una particolarità della presente edizione), rispetto agli albi di formato orizzontale principalmente utilizzati all’epoca per ospitare storie disegnate.
La Storia della Santa Russia si apre con un omaggio a Tristram Shandy, con la mediazione di Cham. La prima vignetta è infatti totalmente annerita, mentre la didascalia sottostante recita: «Com’è nata la Russia? La sua origine si perde (c’è bisogno di dirlo? nella notte dei tempi».
La seconda vignetta, che mostra un disegno appena abbozzato di un personaggio, è invece così commentata: «Soltanto verso il quarto secolo la sua storia comincia a delinearsi». Più avanti, a tavola 3, assistiamo a una serie di vignette completamente bianche – una paralessi disegnata – perché il secolo che l’autore racconta era stato troppo noioso, a testimoniare – secondo la didascalia – come uno storico astuto possa rendere ogni cosa appetibile senza escludere nulla.
A pagina 49, invece, troviamo una pagina macchiata di rosso, a simboleggiare la crudeltà del periodo narrato. Così recita la didascalia: «1542-1580. Continua il regno di Ivan il terribile. Davanti a tanti crimini, socchiudiamo gli occhi in modo da vederne solo l’aspetto generale».
Sono, tutti questi, dei dispositivi che abbiamo visto già utilizzare in precedenza, sia da Sterne sia da Cham, sia da Doré stesso, ma è la loro ipertrofia nel corso della fruizione di un volume così lungo e articolato a farne un caso particolare, se non probabilmente unico.
Come nelle opere prese in esame in precedenza, infatti, vediamo messi su carta diversi tipi di combinazioni fra le vignette, un layout che cambia pagina dopo pagina, richiami a opere precedenti, diversissimi tipi di segno (dalla caricatura sul modello di Grandville alla mimesi della linea con quella delle stampe popolari russe, passando per diversi gradi intermedi) e di realismo grafico, giochi di parole, metafore verbali ecc. Sarebbe impossibile stilarne qui un elenco completo. La tavola che però per noi acquista un particolare valore, non solo simbolico, è quella riprodotta a pagina 8.
Come già visto nell’iniziale narrazione delle noiose origini della storia russa, esposte in questa tavola in forma verbale (attraverso una pomposa prosa accademica), le parole vengono prima macchiate e poi cancellate dall’inchiostro colato fuori da un calamaio caduto sulla pagina.
L’affermazione di Mainardi «Nessuno aveva integrato così strettamente il testo con l’immagine prima» potrebbe sembrare troppo enfatica, ma serve a indicare perfettamente lo spirito con il quale il fumetto si ribellava contro le proprie presupposte origini letterarie, rivendicando la propria autonomia.
Come già visto, infatti, i disegni svolgono per quasi tutto il corso del volume un ruolo di contrappunto e di disvelamento rispetto all’ambiguità – se non alla vera e propria menzogna – portata avanti dalle parole. Un esempio particolarmente calzante è rappresentato dalla sequenza che racconta la storia di Pietro il Grande e della costruzione della città di San Pietroburgo da parte dell’imperatore di Russia.
Come afferma Kunzle, «le doti positive di Pietro sono trivializzate, e la gigantesca e costosa realizzazione di San Pietroburgo su una palude è l’occasione per una dimostrazione abbagliante dell’autore sulla propria padronanza sulla “disgiunzione testo-immagine” peculiare dell’arte della vignetta e della striscia comica: il testo rappresenta la rivendicazione della propaganda di Pietro; l’immagine, la realtà dei suoi crimini».
A volte accade anche il contrario. Si guardi come la vignetta di pag. 94, che rappresenta la dichiarazione di guerra alla Francia da parte dell’imperatore russo Nicola I, venga commentata, con spirito patriottico e intento profetico, in didascalia: «Atto di morte dell’imperatore Nicola I».
Va anche sottolineato, però, che non sempre le immagini, almeno nel caso presente, sembrano adeguate a raccontare la Storia. Quando l’autore si trova a dover riportare le complicate negoziazioni che precedono la Guerra di Crimea, consente alle parole di predominare sulle immagini, mentre nelle ultime pagine de la Storia troviamo solo grandi illustrazioni a tutta tavola, costruite come classiche vignette satiriche.
Fu quasi una chiusura profetica. Dopo La Storia Doré abbandonò infatti definitivamente il fumetto per dedicarsi del tutto all’illustrazione, arte che gli avrebbe portato quella fama che gli si sarebbe comunque dovuta riconoscere, capitolando nei confronti della sacralità conclamata della parola. «L’epoca è buona. Espongo la bandiera. Largo alla grande vignetta fuori contesto ed abilmente eseguita. Chi l’amerà mi seguirà», affermò Doré. Ma, al di là dell’enfasi, le motivazioni dell’abbandono furono probabilmente altre, come per molti fumettisti odierni.
Il fumetto già allora rendeva poco in termini sia di prestigio che, soprattutto, economici. Le grandi incisioni usate per illustrare libri di pregio venivano, in proporzione allo sforzo, pagate meglio di un intero libro a fumetti, che oltre a essere disegnato doveva anche essere sceneggiato.
Doré, dopo l’impresa notevolissima de La Storia della Santa Russia, si dedicò quindi soprattutto all’illustrazione di grandi classici della letteratura occidentale, non disprezzando lavori dal taglio diverso, come London: A Pilgrimage, un ritratto impietoso della Londra dell’epoca, che può essere identificato come un precursore degli attuali reportage grafici, spesso etichettati anche come graphic journalism. La sua eredità come fumettista è però importantissima, e la riedizione di questo volume fondamentale ce lo testimonia.
Storia della Santa Russia
di Gustave Doré
Traduzione di Galb e Boris Battaglia
Eris Edizioni, ottobre 2018
Cartonato, 120 pp., b&n e colore
25,00 €