Il giovane fumettista americano Nick Drnaso è stato uno degli ospiti stranieri della edizione 2018 di Lucca Comics & Games. Lo si è visto a capo chino firmare copie presso lo stand di Coconino Press, quando era appena uscito Sabrina, il suo secondo libro, che ha seguito la raccolta di racconti Beverly del 2016.
Pochi mesi prima, Sabrina aveva fatto notizia in tutto il mondo, per la sua candidatura al Man Booker Prize, il primo fumetto ad arrivare in quella selezione. Da lì è seguito l’interesse di un pubblico ampio, più ampio di quanto si potesse pensare per un fumettista così giovane.
Sono seguite anche molte interviste in giro per il mondo, molte delle quali frutto di quell’achievement, ma che poco volevano scoprire del fumettista e della sua opera.
Sabrina e Bervely sono due libri che raccontano storie di ordinario quotidiano interrotto da più o meno piccoli eventi che turbano la quiete e l’apatia dei personaggi, riuscendo a mettere in discussione ogni certezza.
Abbiamo incontrato Drnaso a Lucca Comics, nonostante le difficoltà di distoglierlo dalle continue richieste di firmacopie e dai lettori che pacatamente gli chiedevano informazioni sul suo libro. Siamo andati in un ufficio nel retro dell’area stampa – che è sempre affollata e sempre più stretta – e lui mi ha detto che sembrava di fare un colloquio di lavoro, ma quell’impressione è svanita presto, nella conversazione con un autore che pacatamente sa aprirsi e raccontare con spontaneità il suo lavoro.
Come hai iniziato a fare fumetti? Ho letto che hai dichiarato di esserti interessato al fumetto in età piuttosto tarda.
Sì, ho iniziato a interessarmi al fumetto a 18 anni, dopo il liceo. Mi sono iscritto al College nella periferia di Chicago, pensavo che quell’interesse fosse passeggero, ma poi si è man mano rafforzato. Allora dopo sono passato a frequentare una scuola d’arte e a cercarmi sempre lavoretti che mi permettessero di dedicarmi il più possibile al fumetto. Negli ultimi anni poi, la maggior parte del mio tempo l’ho dedicato appunto a fare fumetto.
Prima eri comunque un lettore di fumetti?
No, è quando ho cominciato a farlo che mi sono appassionato. E man mano ho cercato di recuperare, assorbendo il più possibile sia dal fumetto che dalla letteratura.
Dal punto di vista artistico, qual è il processo che ti ha permesso di raggiungere il tuo stile?
Ho fatto un forte lavoro di sottrazione, anno dopo anno. Ho iniziato cercando di ottenere uno stile complesso ed espressivo, ricco di tratteggio. Poi ho deciso di togliere il più possibile, quando ho avviato la lavorazione del mio primo libro, Beverly. Negli anni successivi ho iniziato invece ad aggiungere dettagli, ma il meno possibile, con il colore che aggiunge quanto possibile, tanto che le pagine prima di essere colorate sembrano un po’ degli schemi.
Non hai seguito dunque lo stesso processo di autori come John Porcellino o Jeffrey Brown, che hanno studiato arte e poi hanno scelto deliberatamente di dedicarsi a uno stile il più essenziale possibile.
Già, la mia esperienza non è stata come quella di Porcellino. Lui ha avuto un rigetto verso la sua educazione artistica, con l’intenzione di seguire una via propria e trovare la sua voce. Mi considero fortunato di non aver avuto una educazione artistica tradizionale. L’ho visto con mia moglie cosa significa: lei ha avuto molte pressioni studiando. La mia esperienza alla scuola d’arte è stata totalmente diversa.
Hai iniziato a fare fumetti con l’autoproduzione?
Ho fatto poco e non seriamente. Quando ho iniziato la scuola d’arte, ho preso la risoluzione di non pubblicare troppo. Mi sono invece dedicato a una antologia ideata da Ivan Brunetti, ne ero l’editor e a volte contribuivo, mi prendeva molto tempo. Si chiamava Line Work. A 22 anni, una volta finita la scuola, ho iniziato a dedicarmi a Beverly.
Ora, come autore, ti consideri più un osservatore che un critico della realtà?
Effettivamente, forse sono proprio un osservatore, e dipende dal fatto che in gioventù non ho vissuto una vita molto attiva e ora ho la fortuna di viaggiare e vivere in modo più attivo.
Le tue storie sono molto concentrate sulla scrittura, qual è la tua ispirazione dal punto di vista letterario o cinematografico?
Negli ultimi ho letto molta narrativa, di finzione e non, anche documentari. Ho letto molto Anton Čechov, Zadie Smith, George Saunders, Raymond Carver. Ovviamente leggo anche molti fumetti.
Come ti ha fatto sentire essere selezionato al Man Booker Prize?
Mi è capitato di fare interviste subito dopo ed ero molto scosso. Ora riesco a vedere la cosa in modo più chiaro. Di sicuro ha aiutato molto, soprattutto a diffondere il libro e a vederlo pubblicato in più lingue. Quindi non posso che esserne contento, ma non è che ne abbia tratto in sé un senso di soddisfazione.
Ti ha dato in qualche modo la sensazione di poter uscire dal “business” del fumetto? Tipo avere l’idea di fare un film o qualcosa del genere…
Sono ancora convinto che fare fumetti è quel che mi piace. Ma sono aperto ad altre esperienze. Di recente dipingo di più, ma non lo considero un lavoro, non vendo le mie opere, lo faccio solo per rompere la routine.
Cosa c’è di reale e di visto in prima persona nelle tue storie?
Ho parlato con amici che fanno lavori più autobiografici e conveniamo sul fatto che quello che faccio sia comunque una estensione di ciò che affronto quotidianamente nella mia vita. Sabrina è un contenitore delle sensazioni che ho provato nei tre anni in cui ci ho lavorato. Poi ci sono anche elementi e personaggi basati sul reale, come il personaggio che lavora nell’esercito, vagamente ispirato a un mio amico.
Lui è un elemento che dà un gran senso di realtà.
La mia speranza e intenzione era che ci fossero elementi di cui potevo parlare e rappresentare con una certa accuratezza, ma senza alcun eccesso.
Anche il modo in cui ritrai le donne è molto empatico, nonostante in un libro come Sabrina si vedano poco.
In realtà, una volta finito il libro, avevo il timore di non esserci riuscito. Penso sempre che sia alquanto difficile infilarsi nei panni di una donna, del resto mi posso basare in modo efficace su quel che vivo io o quel che mi raccontano gli amici.
Mi è stato criticato che il libro sia troppo incentrato su figure maschili e in realtà posso anche essere d’accordo. Se potessi rifarlo, lo farei diversamente. In un film forse una personalità femminile esce fuori meglio anche grazie all’interpretazione di una attrice.
In un libro a fumetti, io devo in un certo senso “oggettizzare” una donna, ridurla a una rappresentazione, come faccio con un qualunque altro elemento o persona. Questo mi dà anche un certo senso di colpa, dato che devo per forza semplificare i personaggi e il mondo attraverso i miei occhi.
Sabrina, più di Beverly, appare come il prodotto dei suoi tempi. Se è così anche per te, pensi che raccontare il presente sia in qualche modo una responsabilità di un autore?
Di sicuro per me è stata un’ottima cosa riuscire a rappresentare il presente con accuratezza, perché l’ambientazione temporale e spaziale per me sono state una scelta esplicita. Una volta scelta l’ambientazione, poi ci sono stati aspetti che sono venute da sé, come la forte presenza dei social network, internet e tutto questo modo di comunicare che ha oggi la gente.
Sono elementi che dovevano apparire in modo naturale, non ci sono perché sto rivolgendo una critica a essi o alla società. Leggendo recensioni mi sono accorto che in molti hanno considerato questi elementi come centrali nella storia.
Non ho considerato il libro come una rappresentazione dell’America di Trump. Se escludiamo la presenza dei social network, certe dinamiche della storia sarebbero state le stesse anche in momenti o luoghi diversi.
La mia speranza era questa. Del resto non volevo rappresentare questo periodo in senso ampio. Inoltre, gran parte del libro è stata realizzata prima dell’elezione di Trump. I tempi stanno cambiando rapidamente, ma ho sempre avuto interesse e attrazione per storie cupe e per il peggio che l’umanità ha da offrire.
Questa attitudine ti accomuna ad autori come Ware, Clowes…
O a John Porcellino, tutti autori che vengono dagli stessi luoghi che fanno da sfondo a Sabrina, il Midwest, l’unico posto dove io abbia mai vissuto. Del resto non posso dire che, quando mi metto al lavoro su una storia, penso «questo libro parlerà di internet, parlerà del Midwest, o di famiglie che non legano». Semplicemente parlo di quel che conosco.
Nelle tue storie si notano device narrativi quasi cinematografici, e non mi riferisco solo a una storia di Beverly, in cui quasi tutto si svolge dentro alla tv, con un montaggio complesso, non immediato.
L’intenzione è un po’ quella di creare movimento in un contesto coerente, e immagino poggi sul fatto che mi sono documentato molto fotografando ambienti specifici, nello specifico di Sabrina della casa di un mio amico del Colorado. Altrimenti sarebbe stato complicato far recitare personaggi che sono solo figure che parlano tra di loro. Al di là di questo il resto del montaggio mi viene piuttosto spontaneo.
Quali sono gli autori di fumetti che consideri di ispirazione?
Oltre a John Porcellino, che abbiamo già citato, attualmente a Chicago ce ne sono molti di interessanti, come Anya Davidson o Margot Ferrick. E anche Keiler Roberts.
Perché scegli come titolo il nome del personaggio che si vede meno, che è quasi un’idea, sia in Sabrina che in Beverly?
Mi piacciono entrambi i titoli perché sono neutri, ma all’inizio magari avevo altre idee e tutto è successo anche piuttosto casualmente. All’inizio Sabrina non doveva proprio apparire nel libro, doveva essere una sorta di figura fantasma.
Leggi anche: Dovreste proprio conoscere Nick Drnaso