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Attese, speranze e ambizioni di Charles Forsman

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Gesticola lanciando in aria le mani sporche di rosso, Charles Forsman, quel rosso vivo e innaturale con cui firma le dediche e che lo fanno sembrare uno dei truculenti personaggi di Slasher, il suo nuovo fumetto che 001 Edizioni ha portato, insieme all’autore, alla scorsa edizione di Lucca Comics & Games.

In Italia, Forsman ci è venuto per presentare proprio questo suo ultimo lavoro, un thriller sanguinolento che prende la forma del B-movie ma la eleva a racconto esistenziale. Reduce del successo di The End of the Fucking World, adattato l’anno scorso in una serie tv, il fumettista ci ha raccontato i suoi inizi, il suo futuro e un po’ dei suoi vezzi.

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Un foto scattata a Lucca Comics & Games da Charles Forsman allo stand 001 Edizioni, postata sul suo profilo Instagram.

Nei tuoi fumetti i personaggi adolescenti o pre-adolescenti sono una costante. Tu che infanzia hai avuto?

Quando avevo undici anni mio padre morì di cancro e all’epoca non lo sapevo ma poi a sedici anni mi resi conto di aver sofferto di depressione per tutti quegli anni. Maturai molte ansie. Avevo un gruppo di amici stretti ma ero stanco di tutto e volevo crescere in fretta e smettere di andare a scuola.

Alla fine, a sedici o diciassette anni smisi di andare a scuola. Ero frustrato, molte delle cose le ho raccontate nei miei fumetti. Hai una passione per la vita ma credi anche di aver già capito tutto, di aver scoperto tutte le bugie che gli adulti ti stavano raccontando. Pensavo di aver capito che il mondo era un posto più oscuro di quanto mi stessero dicendo già da piccolo, quindi per me è stato difficile recitare la parte del bambino felice, andare a scuola e fare i compiti. Volevo solo andare avanti con la vita.

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Leggevi fumetti?

Da bambino leggevo le strisce che pubblicavano i giornali, poi mio fratello maggiore mi introdusse ai supereroi. Avevo circa dieci anni. X-Men, l’Uomo Ragno, per un po’ lessi quelli, a sedici anni scoprii il mondo del fumetto alternativo: Dan Clowes, Peter Bagge.

Poi però per qualche anno smisi di leggere fumetti. Mi interessai alla musica e ad altre cose. Deve essere stato intorno ai ventidue, ventitré anni, che tornai a frequentare le fumetterie. E subito dopo mi iscrissi al Center of Cartoon Studies. Come ti dicevo prima, odiavo la scuola. Nel frattempo il mio cervello deve essere maturato e fui pronto a imparare. Per fortuna mi ammisero.

Che tipo di scuola era?

Il primo anno ti danno un sacco di compiti. È una specie di campo di addestramento dei fumetti, non fai altro che sfornare pagine, centinaia di pagine. Vogliono che tu faccia tutto e che diventi un autore unico piuttosto che l’ingranaggio in una macchina più grande. Ti fanno realizzare un fumetto dall’inizio alla fine, dalla prima idea fino alla distribuzione. La loro filosofia è farti considerare il fumetto come un oggetto unico e totale, invece che badare soltanto alle pagine che scrivi o disegni. Ti fanno ragionare a come presenterai quelle pagine al pubblico, come le stamperai, che design utilizzerai.

Ti piaceva?

Era bellissimo, mi innamorai di tutto il processo e mi portò direttamente ad autoprodurmi appena terminati gli studi. Durante quei due anni ebbi il coraggio di farmi chiamare “fumettista” per la prima volta. E produssi una quantità di pagina che, da solo, non avrei disegnato nemmeno in dieci anni.

Qual è il tuo metodo di lavoro? Come affronti il disegno, sei uno istintivo?

Ho seguito un corso di Lynda Barry che ti insegnava a usare i ricordi per disegnare. Tipo la tua prima macchina in cui sei stato. Non è un ricordo facile a cui risalire, ma attraverso le domande che faceva Barry, chi era davanti, cosa c’era ai lati, fuori dal finestrino ti permette di recuperare ricordi a cui pensavi di non avere accesso e poi disegnarli. Uso molto la memoria.

Per quanto mi riguarda, dipende molto dal racconto che devo realizzare. Mi piace progettare la tavola. Il mio momento preferito è scrivere la storia facendo tanti piccoli disegni, versioni in miniatura della tavola che capisco solo io e a lato i dialoghi. Parto da una didascalia ma non scrivo mai una sceneggiatura completa, perché quando sto disegnando sto anche scrivendo. Faccio questi monologhi coi personaggi che poi non uso nel fumetto ma è il mio modo di entrare nella mente dei personaggi.

Mi piace anche inchiostrare perché non devi stare a pensare, è quasi un lavoro automatico. Però in generale quando sono nel momento di disegnare la tavola vera e propria provo a non passarci troppo tempo sopra. Nessuna tavola può essere perfetta, si migliora solo andando avanti, pagina dopo pagina.

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Hai paura di non saper più raccontare l’adolescenza?

Temo diventerò uno di quelli che fa sempre le stesse cose uguali, che si ripete in continuazione cannibalizzando le idee giovanili. O di diventare il vecchio che crede ancora di parlare ai giovani, che crede di sapere come si comportano. Ho paura di non ricordare più come ci si sente a essere adolescenti. Sì, di quello ho paura. Diciamo che per adesso credo di poter ancora raccontare quelle storie.

Pensi mai al pubblico a cui vuoi raccontare una certa storia?

Cerco di non pensare al pubblico perché in passato mi è stato d’intralcio. Ti siedi cercando di pensare a che tipo di reazioni avrà la gente, ma non lo sai mai davvero. Mi piace pensare di essere egoista e di inventare storie solo per me stesso. Quando facevo così, la reazione del pubblico era migliore di quella che immaginassi. Se mi diverte quello che sto facendo, allora la gente reagirà di conseguenza. Spero sia vero anche per il futuro.

The End of the Fucking World è stato descritto come «Dennis la minaccia diretto da Gus Van Sant».

[ride] È una citazione che non mi sento di contestare. Il riferimento più ovvio è ai Peanuts ma era iniziato come un esperimento, portare quell’estetica in un contesto contemporaneo. Comunque mi piacciono molto i film di Gus van Sant. Più che dai fumetti, molte delle mie ispirazioni provengono dal cinema.

Slasher è un fumetto che presenta uno stile radicalmente diverso rispetto ai tuoi precedenti lavori, TEOTFW ma anche Revenger.

Revenger era il mio modo di lasciar giocare il bambino che è in me con i fumetti che leggevo da piccolo. Slasher invece volevo fosse realistico ma che si percepisse che era un disegno. Mi sono ispirato a José Muñoz e al suo lavoro su Alack Sinner, che già aveva mostrato la via a tanti artisti, volevo che mostrasse anche a me una strada da percorrere. E mi piace il risultato finale, ho intenzione di continuare a produrre opere con quel tratto, o almeno la prossima.

Come decidi che quella sarà la tua prossima idea per un fumetto?

Ho tante cose in varie fasi di sviluppo come tante varie gestazioni ora sto lavorando a un racconto di fantascienza e sono a un terzo dei lavori ma sto già scrivendo altro. Mi è capitato di buttare via un libro intero ma penso sia comune tra i fumettisti. Provi, tenti, sbagli e se non funziona ricominci. E nel frattempo stai pensando ad altre storie, è tutto un gran caos indistinto da cui ogni tanto emerge qualcosa di definito.

Come hai vissuto l’adattamento del tuo fumetto?

Quando mi contattò Jonathan Entwistle mi piacque molto il suo stile e le sue motivazioni, quando ancora il progetto doveva essere un film. Ma io sono un maniaco del controllo, di solito non collaboro con altra gente. L’ho fatto in alcuni casi, poi dipende dalle situazioni ovviamente, ma sarebbe strano. Come se qualcuno ti guardasse mentre fai qualcosa, avverti una presenza estranea.

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E con la serie come hai fatto, se sei un maniaco del controllo?

Ho scelto di distaccarmi completamente. Mi sono messo in testa il fatto che il mio fumetto è il mio fumetto. È stato l’unico modo per far pace con la cosa e per rimanere sano di mente. Il fumetto non sarebbe cambiato a prescindere era un altro prodotto. Per altro, non mi piacciono i film che sono troppi vicini alla fonte, diventano esercizi sterili, per cui ogni tradimento – se coerente – andava bene.

Mi piacciono i film e le serie televisive, quindi è bello vedere le tue opere prendere vite, sentire gli attori recitare le battute che hai scritto tu, vedere una squadra di professionisti lavorare sulle tue idee. Capisco si possa restare affascinati dal settore. Nel mio caso, è bello che un prodotto che non fosse solo di supereroi abbia intercettato un pubblico giovane. Mi hanno scritto un sacco di ragazzini.

Cosa ti dicevano?

Tutte cose belle. Il pensiero generale che mi faceva molto piacere era che fossi stato in grado di raggiungere ragazzi in tutto il mondo.

Hai paura di venire risucchiato dal lato imprenditoriale del tuo mestiere?

Sì, ho paura che la fama mi sottragga troppo tempo e ho paura delle invasioni di privacy. Ma per ora le mie sono lamentele belle da fare. Mi vedo come un cicerone, ora. La fama aiuta e pagare le bollette, a pagarmi una casa. Ho intenzione di ridistribuire questa fortuna e aiutare altri fumettisti.

Vorresti farlo in modo strutturato, fondando una tua micro-casa editrice?

No. L’ho fatto in passato ma poi è stato troppo difficile, prende tempo e non so se voglio fare il salto. Forse se qualcuno si occupasse di tutte le scartoffie e lasciasse a me il ruolo creativo lo rifarei.

Senti di aver fatto diventare i fumetti la tua unica professione, ora?

Lynda Barry diceva che i fumetti non sono una scelta, li devi fare per non fare del male a te stesso e agli altri. E io ho paura di fermarmi. Il gioco è mantenere un equilibrio, non eccedere né da una parte né dall’altra. Un momento di particolare euforia fu quando finii la scuola, vinsi qualche premio con la mia tesi. Passai l’estate a lavorare su un progetto macinando pagine e poi d’improvviso di bloccai, perché stavo lavorando sull’onda di un momento d’entusiasmo che poi era scemato.

Negli ultimi cinque anni proprio per evitare picchi di depressione ciò che mi tiene in riga è avere un’agenda che devo rispettare, scrivere o disegnare un certo numero di pagine al mese. La continuità nel lavoro mi tiene stabile, non necessariamente felice, ma stabile. Finché lavoro sto bene.

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