Nei manga le certezze sono molte. Akira è un capolavoro, Tezuka un genio, Dragon Ball una figata e Nejishiki una perla. Si potrebbe proseguire, ma per iniziare va (sempre) bene così. Con un solo problema: uno di questi nomi lo conoscevano in quattro gatti. Almeno fino ad oggi, visto che finalmente anche in Italia è possibile leggere quello che, a giudicare dai testi di Storia del manga (e dalla memoria di tanti autori importanti) è una delle opere più influenti di tutta la lunga storia del fumetto giapponese. Nejishiki, appunto.
Nel 1968 il manga non era quello che conosciamo ora, diversificato tanto per contenuti quanto per pubblici (la distinzione tra shonen e seinen si stava ancora affermando) e persino per ambizioni (i maggiori Premi del settore inaugureranno negli anni ’70). Il fumetto giapponese era per lo più un intrattenimento generalista, rivolto a una massa relativamente indistinta di lettori che si era trovata ad affrontare il duro clima post-bellico di un paese sconfitto.
Mentre una intensa fase di ricostruzione, che avrebbe portato il Giappone ad assumere il ruolo di grande paese industrializzato, proseguiva il proprio impetuoso “miracolo economico” (il Pil crebbe in media del +10% negli anni ’50 e ’60), una nuova generazione di giovani lettori assisteva non solo al continuo sviluppo, ma anche alle nuove contraddizioni della modernizzazione filo-occidentale del Paese. E arrivò il Sessantotto, non fu molto diverso in Giappone rispetto ad altre parti del mondo: movimenti studenteschi, rivolte innovazioni e aperture sociale. Inclusi profondi cambiamenti nella cultura e nelle arti.
Nejishiki di Yoshiharu Tsuge uscì proprio in quell’anno, dalle pagine della rivista di fumetto e controcultura Garo. Gli autori che la animavano si facevano fautori di un movimento che puntava a portare il fumetto a valicare numerosi confini di genere e di linguaggio, puntando a un pubblico non più infantile e aprendosi agli scambi con altre forme d’arte.
Un altro manga
Nejishiki, nella sua ventina di pagine, fa qualcosa che al manga non era permesso fare. Se il fumetto giapponese moderno si sviluppa su impulso di Osamu Tezuka come emulazione cheap dell’animazione, Tsuge pensa ad altro, evidentemente. Non vuole intrattenere, anzi vuole disturbare il lettore.
Nel 1966 Tsuge aveva vissuto un periodo di depressione che lo aveva condotto a smettere di disegnare, interrompendo la produzione di storie personali per dedicarsi al lavoro di assistente di Shigeru Mizuki. Dall’influenza del creatore di Kitaro ne uscirà rafforzato e per certi versi cambiato, traendone nuova forza per uno stile più naturalistico, attento alle ambientazioni oltre che alle figure e ai caratteri dei personaggi.
Una volta ripresa la propria vena creativa, con Nejishiki Tsuge offre un racconto onirico, un flusso di coscienza. Per quanto avanti coi tempi per il fumetto nipponico, è invece un lavoro che sembra prendere le mosse dalle avanguardie letterarie e artistiche europee di primo Novecento. Il breve e disperato viaggio in cerca di aiuto del protagonista ferito, cos’è se non un flusso di pensieri incrociati e immediati, disposti con ragionata spontaneità (vedi Joyce), sullo sfondo di una serie di scenari dalla composizione astratta (vedi De Chirico)? Se al posto di edifici classicheggianti ci sono baracche, gli sfondi sono veri e realistici, ma composti con apparentemente casualità e confusione, nello spirito dell’arte metafisica.
Ingiusto interpretare tutto questo in termini così Occidentali? No, come non è ingiusto vedere l’influenza disneyana in Tezuka o riconoscere lo shock culturale che è stata l’apertura del Giappone all’Occidente, ancor di più dopo la fine della Seconda guerra mondiale che dopo la Rivoluzione Meiji.
Nejishiki si apre con un individuo perso su una spiaggia, un giovane, brutto e già un po’ ingobbito. È ferito e cerca un dottore, ma nel paese limitrofo alla spiaggia non se ne trovano. Se nel corpo pare trovarsi in ambienti rurali, le sue visioni suggeriscono tutt’altro, con un treno che si materializza facendosi spazio tra le case, come in una città fanno tram e metropolitana. La spinta a fuggire dal luogo dove ci si trova proprio malgrado sembra essere solo equivalente all’atto di girare attorno a se stessi perdendo l’equilibrio. E intanto il sangue sgorga dalla vena ferita, che solo un posticcio rimedio artificioso e meccanico potrà guarire.
Lo sguardo fisso e contrito del protagonista soddisfatto somiglia oggi a quello del disilluso attore Takeshi Kitano che, con la sua paresi facciale, non riesce mai né a sorridere né a irritarsi, sempre sprezzante di fronte a ogni situazione. Il volto del protagonista è una maschera. Raramente cambia espressione e ancor più raramente cambia posizione e angolazione, mostrato sempre frontalmente o appena poco inclinato, non meno statica e perentoria di quella del conducente del treno, che indossa chiaramente la maschera tradizionale di una volpe.
Il cinema è dichiaratamente una influenza per il gekiga, forse tanto quanto l’animazione lo è stata per Tezuka nei suoi manga. Tsuge e i suoi colleghi, come Tatsumi, rifiutano la sfacciata espressività del manga rifugiandosi nella fredda e mite empatia delle maschere della tradizione del teatro giapponese Nō, e poi nell’approccio interpretativo del cinema di avanguardia francese o russo.
Ma qui si torna forse più indietro, rispetto alle avanguardie a loro contemporanee, fino al cinema surrealista. Tsuge squarcia l’occhio dello spettatore, magari confermandosi sempre prima dell’atto definitivo – non lo “taglia” come Buñuel ma lo stuzzica in continuazione –, esercitando una violenza psicologica e quasi mai del tutto fisica. La figura dell’occhio perseguita il protagonista che trova solo oculisti, mentre sta cercando un normale medico generico.
Vaga come osservato in uno scenario improbabile, quello in cui sei occhi sembrano seguirlo. Eppure la vignetta forse più paradossale e più nota della storia, per quanto surreale o surrealista (l’ossessione di Buñuel e Dalì per l’occhio), è invece probabilmente la più realistica. Quella scene riprende infatti una fotografia del fotografo taiwanese Wang Shuangqua, che nel 1962 ritrasse un negozio l’entrata dell’ambulatorio di un optamologo a Tainan.
La struttura del racconto è talmente libera ed estemporanea da essere radicata nella letteratura Occidentale del Novecento – mentre nella produzione più matura di Tsuge con L’uomo senza talento non posso far a meno di intravedere l’influenza del disagio borghese di Osamu Dazai e del suo Lo squalificato applicata, ormai con più motivazione, a una estetica classe bassa e ultima.
Nejishiki è inevitabilmente anche un manifesto di classe, ma di una classe che non ha posto nel mondo, forse all’epoca nemmeno nome, rappresentando un disagio moderno che in quel momento storico era in divenire e in nascere. Il protagonista sta in mezzo, e vaga senza un posto al mondo. Lo mostra pagina quattordici, mettendo in chiaro contrasto il mondo rurale e quello urbano moderno, l’uno decadente, rappresentato da una anziana china e l’altro imponente, mostrato da una fabbrica fumosa; in mezzo, a osservare inerme, il protagonista della storia, che una posizione in tutto questo non ce l’ha.
Quattro pagine dopo, lo scenario è ancora (dopo oltre vent’anni dalla fine della guerra) un ammasso di macerie e in lontananza si scorge una nave che spara colpi. Alla fine la via di fuga si trova via mare, per scappare evidentemente verso l’ignoto, da un paese che dal mare è circondato e da esso è stato sin da sempre difeso.
Nejishiki è un incubo, ma i tratti talmente realistici degli ambienti non portano così lontano dal reale, quasi a dire che l’incubo è assai vero, anzi è la vita quotidiana a essere un incubo o perlomeno un continuo susseguirsi di eventi nei quali il soggetto non ha potere di sé.
Leggere Nejishiki, oggi
Nejishiki uscì per la prima volta nel numero 47 di Garo, nel giugno del 1968. In Occidente è apparso nel 2003 sulle pagine del numero 250 del Comics Journal, rimanendo inedito in Europa fino al maggio 2018, uscito su Linus e poi raccolto nel volume omonimo per Oblomov in uscita a giugno dello stesso anno. Dopo anni in cui l’autore è stato pressoché sconosciuto in Italia, con l’uscita di L’uomo senza talento si è verificato una concentrazione della sua presenza nell’editoria italiana (tra queste uscite recenti di Nejishiki, oltre al volume Il giovane Yoshio e altri a venire), come del resto sta succedendo con tutto il fenomeno gekiga.
In Giappone ha segnato la memoria di artisti (Genpei Akasegawa), filosofi (Tsurumi Shunsuke), letterati (Taijirō Amazawa, Masashi Shimizu), studiosi di cinema (Tadao Sato), fumettisti e intellettuali (secondo l’esperto di manga Frederik Schodt, Tsuge «ha probabilmente avuto più testi critici sul proprio lavoro che non opere pubblicate»), ha ispirato un film e – non sorprendetevi troppo – un videogioco.
E quando si dice “influente” per la storia dei manga, non basta fermarsi alla lunga lista di nomi che abbiamo fatto e che si potrebbe facilmente ampliare (basti pensare a mangaka quali Kazuichi Hanawa, Fumi Yoshinaga, Shuho Sato…). Chi non conosce Dr. Slump & Arale? Ebbene Akira Toriyama, il creatore di Dragonball, modellò il personaggio del bambino dal nome “Neshijiki” (comparso in una manciata di episodi della serie) proprio a partire dal macchinista del treno di Tsuge, vestendolo con la maschera kitsune (volpe) tipica del teatro Nō. Anche il re del manga mainstream, insomma, non ha voluto esentarsi dal riconoscere un tributo all’opera di Tsuge, con il filtro del suo tono da commedia.
Leggere oggi questa ‘perla’ richiede dunque di inquadrarla in un’epoca e in contesto. Ma certe immagini comunicano ancora quella sensazione di disagio che ha fatto di Tsuge, e di Nejishiki, il segnale di una trasformazione che, in fondo, ha reso il manga di oggi un panorama articolato, complesso, ricco di sguardi stranianti e di grandi racconti esistenzialisti.
*Si ringrazia per la collaborazione Matteo Stefanelli
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