Che vita da schifo, quella di Jeong-ae. La disperazione giovanile è un filone molto presente nel fumetto contemporaneo, ma la storia della fumettista coreana Ancco è ben più interessante di tante favole nere di sofferenza&redenzione.
Ragazze cattive potrebbe essere uno dei fumetti da ricordare di questo 2018, per quel che racconta e per come lo disegna. La storia di due amiche, della loro spesso tremenda vita familiare e scolastica, e dei tentativi di ribellarsi alle condizioni opprimenti di una società che, lungo gli anni Novanta, era permeata da un clima autoritario che Ancco tratteggia con crudele attenzione.
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La protagonista Chinju è una “cattiva ragazza” nel senso che fuma, dorme fuori casa, deride i professori e preoccupa i genitori. Tutte cose inopportune. Anzi inaccettabili secondo la visione diffusa in un paese da poco uscito da una lunga dittatura militare, la Corea del Sud, dove in quegli anni – segnati anche dalla severa crisi finanziaria del 1997/98 – la violenza e gli abusi sono una dura realtà.
Il padre non sa esprimere i propri timori per il futuro della figlia se non con un’educazione a suon di pugni. Gli stessi insegnanti picchiano duro, in sintonia con gli adulti e con la connivenza della polizia anche negli episodi (rari) più gravi, in cui qualcuno azzarda una denuncia. Sono anni in cui, nell’indifferenza generale, si può morire per le percosse di un genitore o di un fidanzato.
Chinju trova un po’ di comprensione e complicità in Jeong-ae, la figlia di un teppista, ancora più miserabile di lei. Insieme tenteranno una fuga da casa, cercando nel quartiere a luci rosse una qualche squallida speranza; ma falliranno, umiliate, e al rientro pagheranno con nuove botte. Fino a quando i loro destini si separeranno.
Il titolo suona poco originale, ma rende bene l’idea di una cattiveria pervasiva e avvolgente. Molte azioni delle protagoniste sono cattive, tuttavia la cattiveria delle ragazze è anche uno stigma che viene loro attribuito – ingiustamente – da chi le circonda. La cattiveria è insomma una scelta di contestazione, una paradossale pulsione liberatoria, ma è anche ciò di cui sono vittime, un effetto di comportamenti socialmente diffusi nella Seul periferica dei loro tempi. Dal dolore di quelle vite adolescenti non c’è via d’uscita:
«La mia vita era così, e poco a poco ho imparato a capire il mondo. Che tipo di posto è. Come si sopravvive. Ho imparato dai miei errori. Ho imparato tutto questo prima degli altri. E credevo di doverne essere contenta».
La forza del libro di Ancco non sta però solo nell’empatia dei personaggi, ma anche nel punto di vista del racconto. Innanzitutto perché il contesto coreano non è spiattellato in primo piano e, anzi, è sostanzialmente impercettibile. Niente storiografia né sociologia spicciola, e dunque niente riflesso condizionato di tanta editoria di graphic novel, che offre fiction strumentale a “informare”: l’atmosfera di quegli anni bui emerge solo dai comportamenti, dalla precarietà delle condizioni di vita dei personaggi, e si salda con la cupezza delle «notti buie e strani odori» della giovinezza.
Il narratore della storia, inoltre, è la stessa Chinju ormai trentenne, che ha trovato la propria strada – nel fumetto – e ripensa alla propria adolescenza con autentica maturità: niente nostalgia, ma nemmeno risentimento. La narratrice non dà giudizi su quella vita precedente:
«Non mi vergogno dell’esperienze che ho vissuto. Piuttosto mi piace parlarne… è come se non mi appartenessero più. Ormai non sono altro che storie. Alcune le ho cancellate dalla memoria. Mi sono divertita, e per ciò che ho vissuto, sono contenta di essere quella che sono oggi».
Così sembra fare la stessa Ancco che nel libro riversa elementi ed esperienze della sua adolescenza, più simile a quella di Chinju che non a quella di Jeong-ae, l’amica finita – forse, chissà – a prostituirsi nel quartiere dove insieme avevano provato i brividi della fuga per la libertà. E Ancco si dimostra proprio qui, nella sua fiction più drammatica e naturalista, ispirata dal suo stesso percorso di vita, un’autrice di spessore che non a caso, in Corea, è ormai un faro.
Invece di cadere nello “spiegazionismo” di tanta autofiction a fumetti, riesce a tenersi in equilibrio tra i fatti, la pulsione a condividerli, il monito contro la disumanità dei comportamenti, la distanza della memoria, la malinconia. Ha l’equilibrio degli autori di grande talento, come in fondo gli ha riconosciuto la giuria del Festival di Angoulême che, nel 2017, ha assegnato a Ragazze cattive il Premio Rivelazione (una storica prima volta, per un fumettista coreano).
Ma il lavoro di Ancco aveva già indicato temi, stile e capacità grazie alle traduzioni francesi di altri libri e alla circolazione festivaliera delle sue opere pubblicate per Sai Comics, l’editore che ha presentato in Sud Corea per la prima volta autori come Robert Crumb, David B., Marjane Satrapi, Peter Kuper, Yoshihiro Tastumi. In fondo Ancco, emblema (con Park Kun-Woong) di una nuova generazione del fumetto sudcoreano emersa dopo la fase di “invasione” dei manga nei primi anni Novanta, ha sempre raccontato con lo stesso sguardo.
Fin dal suo debutto online, nel 2003, con una sorta di diario (parzialmente tradotto in Francia col titolo Jindol et moi) che le ha rapidamente dato notorietà e riconoscimento, ha messo in scena un microcosmo di uomini e donne alla deriva nell’ordinarietà di una Corea poco luccicante o metropolitana, alla ricerca del proprio destino. Ragazze cattive non è dunque che l’opera più matura di un’autrice fra le più interessanti di tutto il panorama del Far East.
Non sembri una diminutio parlarne in fondo, ma il disegno in bianco e nero dona una particolare connotazione allo sguardo dell’autrice: una sorta di understatement o, più propriamente, un abbassamento di tono rispetto alla crudezza delle sue osservazioni. L’atmosfera di Ragazze cattive è rimarcata dallo stile grafico grazie a un’estetica aspra ma asciutta, fatta spesso di vignette su sfondi disadorni, neri o bianchi netti, abitate da corpi filiformi e dinoccolati. I volti in Ancco sono particolarmente importanti, con le loro bocche e occhi spesso ridotti a linee e puntini nonostante le espressioni di dramma o persino di acuta sofferenza.
L’effetto di realtà viene dunque più dalle superfici, degli abiti e di alcuni oggetti (porte, saracinesche, poltrone, mobili…), che la disegnatrice cura nel dettaglio delle texture; o dalle movenze di quei corpi che sì, paiono lievemente caricaturali nella loro snellezza, ma le cui pose dimesse – sottolineate da spalle chine o vestiti stropicciati – trasmettono la sensazione di un’incursione nella più prosaica banalità.
E poi quegli sguardi. Quasi sempre rivolti verso il basso. Mai e poi mai rivolti verso il lettore. Come nella scena finale in cui Chinju trentenne, bloccata alla fermata di un autobus sul quale ha forse intravisto la vecchia amica Jeong-ae, dà le spalle, occhi bassi, a un passato che non può non avere lasciato un segno amaro sul suo futuro. «Jeong-ae non sarebbe tornata. Ed esserne consapevole era ciò che mi rendeva più triste».
Ragazze cattive
di Ancco
traduzione di R. Barbato
Canicola Edizioni, aprile 2018
brossura, 172 pp., b/n
18,00 €