Da tempo la cover di Crawl Space mi fissa dal comodino. La guardo e lei a sua volta mi guarda. Guardo quel volto caleidoscopico, quell’intreccio di microforme, che mi interroga con quei tre occhi gelidi. Un insieme di geometrie frattali, un labirinto di colori così finemente concepito da sembrare costruito da una macchina, il sogno psichedelico di un’intelligenza artificiale. Uno spazio guardante nel quale è inevitabile perdersi. Io, mi ci sono perso.
Leggi le prime pagine di Crawl Space
Crawl Space è l’ultimo libro di Jesse Jacobs ed è probabilmente il suo capolavoro, l’apice di una riflessione sull’immagine che abbiamo seguito anche in Italia grazie a Eris Edizioni, prima con Safari Honeymoon (2015) poi con E così conoscerai l’universo e gli dei (del 2017).
Jacobs è un fumettista che lavora essenzialmente sull’immagine bidimensionale sfruttando la profondità della pagina e creando spazi piatti nei quali muovere il lettore. Non gli interessa il realismo, non lavora sull’illusione del reale, non considera l’immagine come rappresentazione iconica o fittizia del mondo. Semmai indaga sull’immagine come simulacro, come creatrice di spazi estranei, sconosciuti e imprevedibili, nei quali il lettore riflette e si riflette.
Il grande passo avanti compiuto da Jacobs in questa sua ultima fatica è avere tradotto questa concezione visiva in dinamica narrativa. La storia, nella sua semplicità e linearità, rispecchia lo spazio. Lo spazio “strisciante” ed “esplorativo” immaginato da Jacobs struttura l’accumularsi degli eventi e l’evoluzione dei personaggi. Come in un platform game su carta, il movimento degli attori determina la loro crescita personale e modifica l’ambiente circostante.
Un crawl space in inglese è un intercapedine o una cantina, un angolo della casa così basso e stretto che non può essere destinato ad alcun uso. In uno di questi crawl spaces, nella cantina di casa di una tipica famiglia medio-borghese nordamericana, appena trasferitasi qui da chissà dove, sono state piazzate una lavatrice e un’asciugatrice che rappresentano portali per un altro mondo. Questa realtà alternativa è il capolavoro visivo di Jacobs, ben rappresentato nella variopinta copertina del volume. Un mondo di strutture policrome e oggetti guardanti, di figure cangianti che sfidano lo spettatore in uno spazio bidimensionale disordinato e mutante.
Leggi anche: Un’esperienza mistica a fumetti. Intervista a Jesse Jacobs
Nella prima sequenza di due pagine, due forme casuali – strisce e cerchi e quadrati di vari colori su sfondo nero – si muovono lungo le vignette fino ad acquisire un ordine. A poco a poco si riconosce un senso che diventa testa e volto. Lungo il percorso tra le vignette, arriviamo a distinguere un oggetto che potrebbe essere un corpo umano, finché quel corpo dice “ho dimenticato di essere me”.
Le due figure si parlano tra loro, dando la sensazione di camminare lungo uno spazio. Una sembra più a suo agio, forse perché è qui da molto più tempo dell’altra. Si sforza di raccontarle cosa sta facendo e di rassicurarla. Quell’altra invece si concentra sul proprio corpo; all’inizio è preoccupata, poi piano piano si tranquillizza, si focalizza sulle proprie sensazioni del tutto inedite. “È come se tutto esistesse sia internamente sia esternamente” dice all’amica. Sta descrivendo un mondo bidimensionale fatto di forme mutevoli su uno spazio statico. Questa è l’invenzione visiva di Jacobs che diventa sostanza narrativa: le due figure sono in realtà ragazze “vere” che stanno scoprendo insieme a noi quel mondo nuovo. Mentre percorrono insieme quelle linee bidimensionali, descrivono la sensazione di trovarsi in quello spazio, di essere quello spazio. Nessuna illusione di realtà, nessuna prospettiva (grande illusione del mondo moderno), solo corpi colorati che prendono coscienza di se stessi come immagini statiche in un mondo piatto.
L’elemento profondamente eversivo di questo spazio è la sua bidimensionalità, la sua struttura liscia e antiprospettica. Come sostiene lo studioso delle immagini Nicholas Mirzoeff (Introduzione alla cultura visuale – Meltemi 2002) il tratto distintivo della prospettiva occidentale non è la sua capacità di rappresentare lo spazio, ma la scelta di un singolo punto di vista. La prospettiva è una illusione di rappresentazione del reale che presuppone un unico sguardo. Lo sguardo impone la realtà; rinunciare alla visione prospettica determina quindi un radicale ripensamento della realtà, una eversione rispetto al punto di osservazione, al potere dello sguardo.
Il secondo elemento eversivo del libro è l’uso del colore, qui percepito essenzialmente in ottica anti-naturalistica. Il colore, oltre a evocare ovvi scenari psichedelici, rappresenta un metodo di visualizzazione dello spazio in contrapposizione alla prospettiva. Si tratta di rinunciare completamente a una logica di immediatezza naturalistica per sposare invece in toto una logica di ipermediazione (Bolter e Grusin – Remediation, 2002). Lo spazio bidimensionale non prevede un’immersione, non inserisce fisicamente lo spettatore in un contesto. Semmai consente allo spettatore il controllo dello spazio, tramite la visione simultanea di più oggetti manipolabili, come nell’interfaccia di un pc o di uno smartphone.
Ma in Crawl Space lo spazio bidimensionale acquisisce un significato più ampio: il viaggio psichedelico delle ragazze comporta delle mutazioni che hanno conseguenze sul mondo reale (non a caso visualizzato in bianco e nero) e viceversa, la purezza del mondo colorato viene intaccata dalla presenza dei corpi estranei. Solo la protagonista Daisy coglie il senso profondo della sua mutazione, e può dunque mantenere un contatto con il nuovo mondo, anche quando la sua casa è stata disinfestata dagli invasori alieni. Daisy è l’unico personaggio che rispetta il mondo colorato e ha cura dei suoi abitanti, ed è anche colei che più di tutti gli altri penetra a fondo in quel mondo, fino a diventarne parte.
Viene in mente la materia visiva di Mark Rothko, il colore sulla tela che acquisisce una dimensione metafisica. Una distesa di colore che, nella sua assenza di forma, nella bidimensionalità acquisita sulla superficie del quadro, evoca semmai una assenza di luogo, la percezione di un altrove. Le forme di Jacobs, con quegli occhi che osservano l’osservatore – come nella copertina del volume – richiamano invece la complessità frattale di un mandala. Le protagoniste si sforzano di abbandonare i propri limiti fisici per penetrare o dissolversi nello spazio strisciante del colore. Si intuisce un’ambizione metafisica che viene comunicata tramite il disegno e sfugge alla interpretazione narrativa.
Ecco il motivo di quello sguardo gelido che mi fissa dal comodino. Il nuovo spazio che Jacobs crea è una dimensione del tutto immaginifica, fuori dallo spazio e dal tempo, nella quale luoghi, oggetti ed esseri viventi si compenetrano fino a fondersi. Quella forma che ci guarda dalla copertina del volume è insieme maschera e volto, immagine e sguardo. Ogni libro, ogni quadro, ogni opera d’arte in generale, rappresentano una immagine del mondo: l’opera guarda il mondo e lo racconta al lettore o fruitore.
Il libro di Jacobs è qualcosa di diverso, perché lo spazio che raffigura è uno spazio nel quale perdersi reciprocamente. Non siamo noi a dissolverci nel libro guardandone le immagini, ma sono le sue immagini che dialogano con il nostro sguardo chiedendoci di farne parte. Questa è l’eversione visiva che ci chiede Crawl Space: dimenticare di essere noi, di essere lettori, per essere parte del mondo che guardiamo. Nello spazio bidimensionale le immagini prendono il controllo dello sguardo e tutto esiste sia internamente sia esternamente. Noi lettori siamo il mondo che questo libro guarda.
Crawl Space
di Jesse Jacobs
Traduzione di Valerio Stivè
Eris Edizioni, febbraio 2018
Brossurato, 104 pp a colori
€ 15,00