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La sci-fi dal calore umano di Jeff Lemire: Trillium

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Il fumettista americano Jeff Lemire è un’anomalia. Dopo l’esplosione di popolarità portatagli dalla trilogia di Essex County, opera intima e autoriale finita per essere candidata all’Eisner Award, la sua scalata tra gli autori top di casa DC Comics è stata fulminea. In meno di quattro anni il Nostro è passato dall’essere il cantore della provincia canadese allo scrittore da tenere d’occhio a ogni costo. E infatti eccolo sospeso tra le platee generaliste (ma non troppo) del nuovo Green Arrow/Justice League Dark e una serie inedita – completamente frutto dei suoi sforzi – tra le maggiori sorprese della rinnovata linea Vertigo. Tanto per avere i piedi in entrambe le scarpe. Ed è una fortuna, perché – con nostro enorme piacere – Lemire è in grado di calzarle entrambe. E con naturalezza, per giunta.

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Prendiamo Trillium, miniserie partita pochi mesi fa negli States. La solita storia d’amore tra due persone troppo lontane anche solo per capirsi. Fino a qui nulla di particolare, se non fosse che Lei è una ricercatrice proveniente da un futuro remoto – un 3797 in cui la razza umana è in perenne fuga da un terribile virus mortale – e lui un reduce dalla Prima guerra mondiale impegnato in una spedizione alla ricerca di templi Incas. I loro mondi non impiegheranno molto a incontrarsi, e ogni difficoltà di comunicazione verrà annullata dal potente effetto empatico del fiore Trillium, sorgente di vita e di morte.

A questa trama aggiungiamo le bizzarre tavole di Lemire, mai così naif. Un tripudio di segni tremolanti, invenzioni grafiche mai puramente decorative, e trovate narrative ben congegnate in relazione alla storia (diciamo che vi ritroverete spesso e volentieri a rigirarvi i vari volumi tra le mani, come se le linee narrative fossero su piani diversi), accompagnati da scelte cromatiche mai banali. Per quanto l’etichetta DC ci abbia abituato negli anni a diversi tipi di sperimentazione, in questo caso – almeno dopo i primi tre numeri – pare di essere alle prese più con una produzione PictureBox che Vertigo. Lemire sembra più vicino a Brian Chippendale che a Jamie Delano. Stranezze della produzione indie odierna.

Ma questi aspetti non sono il vero cuore pulsante della serie. Fin dai suoi esordi, Jeff Lemire vuole – innanzitutto – un gran bene ai suoi personaggi. Tanto da fare del racconto del calore umano uno dei suoi tratti distintivi. Non importa da quale universo arrivino i due protagonisti, quali minacce debbano sventare o da quale incubo fuggire. Ciò che più conta sono i loro drammi, sepolti tra i ricordi. E il sollievo provato dopo averli empaticamente divisi con quella che forse, chissà, sembrerebbe l’anima gemella. Il concetto è scontato, eppure la potenza di una condivisione di sentimenti così empatica rimane sempre qualcosa di magnifico da narrare.

Interessante come Lemire pieghi uno dei generi più fuori moda – la fantascienza classico-filosofica, sospesa tra Arthur Clarke e The Twilight Zone – a quello che a lui interessa di più. E alle sue condizioni. Abbiamo così personaggi tridimensionali posti in uno scenario ben poco credibile. Eppure tutto funziona benissimo – e proprio per questo motivo. Il contesto non è il fulcro, ma solo un mezzo per muovere le pedine lungo una direzione più grande. Il fantastico è propulsore dinamico e non uno statico fine. E così, dopo avere letto Trillium giostrando il proprio tempo in un autunno popolato dalla (iper)produzione odierna, si finisce per trovare a ripensarci più di quanto non ci attendeva. Soprattutto a una sequenza come quella in cui i due protagonisti, nonostante tutte le difficoltà, cercano teneramente di comunicare.

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