Oggi William Gibson compie settant’anni. È nato infatti 17 marzo 1948. Ci penso mentre ho in mano il suo ultimo libro, tradotto Mondadori e pubblicato da poche settimane: Inverso (520 pagine, 20 euro). Il tema è atipico per Gibson: viaggio nel tempo, ma il trattamento del soggetto è decisamente gibsoniano, con le sue visioni debolmente ammalate e decisamente distopiche del futuro, il pessimismo di fondo sulla natura delle società umane, la ricerca di eroi nella marginalità, il desiderio di portare avanti la propria vita al di fuori dai condizionamenti della nostra epoca.
La fantascienza (ma William Gibson scrive ancora fantascienza?) è narrativa speculativa il cui obiettivo è guardare con la lente del futuro al nostro presente. Gibson lo ha fatto in vari modi, con risultato differenti nel tempo.
Tempo fa su queste colonne ho recensito uno dei lavori a fumetti del nostro autore statunitense fuggito in Canada per evitare il servizio militare durante la guerra in Vietnam. Il fumetto si intitola Arcangelo (Magic Press, 2017) e non è male, a parte il difetto di essere una miniserie completa che sembra un prologo a cui però segue la parola fine.
Ma non è quello lo specifico di Gibson. Il suo territorio naturale, per come lo conosce la mia generazione, è quello di autore-padre fondatore assieme a Bruce Sterling del Cyberpunk. Il movimento letterario di fantascienza che negli anni Ottanta ha innovato la narrazione speculativa aggiungendo un tassello importante, direi quasi fondamentale visto che ha colto in realtà una torsione della modernità molto importante: la discontinuità introdotta dal computer.
Gibson più di Sterling ne ha definito l’estetica e l’epica, assieme a tutto quello che stava succedendo in quel periodo: dall’immaginario visivo di Blade Runner, che si è posto in alternativa alla triade Guerre Stellari – Alien – Star Trek, al movimento derivato successivamente dello Steampunk e il post-Cyberpunk, citando ad esempio Neal Stephenson.
Siamo tutti consapevoli, nella nostra piccola nicchia di amanti della fantascienza, che dopo Gibson ci sono state molte altre cose e, come ricorda Giuseppe Lippi nell’intervista che ci ha concesso alcune settimane fa, oltre all’ondata di autori britannici e al solito “mare” di autori americani, ci sono le fantascienze di autori in altre lingue, compresa la nostra nutrita pattuglia di italiani. Tra le novità da osservare, sicuramente la fantascienza cinese, che sta sbarcando in forze sulle spiagge culturali dell’Occidente, con l’apripista Cixin Liu, il premiato autore di Il problema dei tre corpi, di cui vi ho parlato qui. Ci sono ovviamente tantissimi modi di guardare alla diversità della fantascienza insomma (qui ho provato a stilare una lista di 14 autrici vecchie e nuove, e altre 14 spero seguiranno nei prossimi mesi), ma pensare che Gibson si sia fermato al Cyperpunk sarebbe un errore.
L’autore naturalizzato canadese infatti ragiona per trilogie. Quella cosiddetta dello Sprawl è stata la prima: Neuromante, del 1984, vero e proprio “libro di testo” del movimento, e i successivi Giù nel cyberspazio, del 1986, e Monna Lisa cyberpunk, del 1988. Se c’è una cosa che caratterizzava queste opere, al di là di tutto, è non solo la lingua immaginifica e potente di Gibson (che andrebbe letto in inglese almeno una volta, perché le traduzioni rendono poco: l’autore si muove per cerchi concentrici, pennellate, allusioni, movimenti laterali, giocando con il ritmo delle frasi e con i costrutti, con i sostantivi che diventano verbi più plasticamente ancora di quanto la già ben flessibile lingua inglese non sia abituata) ma anche una certa sobrietà nel passo.
I primi tre romanzi complessivamente hanno dimensione poco maggiore di uno solo dei successivi. E ce ne sono stati di successivi, perché Gibson, come racconta in uno degli articoli nella sua raccolta di non-fiction Distrust That Particular Flavor (inedita in Italia), vive e si mantiene scrivendo. Senza abbracciare le tecnologie, senza diventare un patito del computer (come si potrebbe invece facilmente immaginare) bensì cercando di riflettere sulle conseguenze degli incroci e degli attraversamenti tra il vettore delle tecnologie e quello della mutazione delle nostre società. Gibson è interessato insomma all’effetto che la tecnologia ha sulla società, più che essere un appassionato della tecnologia in quanto tale.
L’autore, dopo la trilogia dello Sprawl (massa disordinata, posizione scomposta, dice il dizionario inglese-italiano, in realtà è riferito all’asse urbano senza soluzione di continuità che va da Boston a Atlanta, o come l’area metropolitana di Tokyo, con le periferie infinite e degradate, come Chiba, dove inizia Neuromante), ha infatti partorito altre due trilogie: la prima è quella del Ponte (il ponte di San Francisco) e raccoglie i tre romanzi Luce virtuale (1994), Aidoru (1996) e American Acropolis (2000). La conosciamo forse di più perché Gibson all’epoca ancora vendeva bene in Italia e la spinta del cinema di genere aiutava Mondadori a tenere banco nel settore. Poi il mercato della fantascienza si è in parte contratto, i lettori sono più o meno sempre quelli, e il post-2000 ha ridotto forse le aspettative sul futuro almeno per un decennio buono.
Per questo il Ciclo di Bigend è forse il meno noto da noi: L’accademia dei sogni (2004), Guerreros (2008) e Zero History (2012, pubblicato da Fanucci e non da Mondadori). Un ciclo di romanzi piuttosto contemporaneo, difficile, quasi controtendenza rispetto al William Gibson delle visioni oramai superate da videogiochi, fumetti, telefilm su Netflix e su Prime. Dev’essere stato un po’ come quando gli autori della fantascienza dell’epoca d’oro, gli E.E. “Doc” Smith di Allodola nello spazio, per intendersi, hanno visto arrivare la televisione degli anni Sessanta con Ai confini della realtà e le tre stagioni della serie originale di Star Trek. Il visivo della cultura pop aveva superato l’immaginabile ma impossibile perché dinamicamente non rappresentabile.
Con Inverso (in originale The Peripheral, del 2014) Gibson torna a essere pubblicato da Mondadori e chissà chi tradurrà Agency, che l’autore sta terminando e che uscirà più avanti quest’anno. Inverso segna una apertura di senso che ancora non è chiaro se si tradurrà in un nuovo ciclo oppure se rimarrà un’opera a se stante.
Gibson ha cercato di partecipare alle avanguardie letterarie, ha cercato di sperimentare, di resistere alla tentazione di diventare un autore da cassetta, alla Douglas Coupland, che sfornano best-seller di maniera, come i vecchi gruppi rock che, quarant’anni dopo sono sempre sulla ribalta ma sembrano le cover band di sé stessi.
Nel monte ore che la vita assegna a ciascuno di noi, chi più e chi meno, quel che possiamo leggere per quanto uno sia veloce (e io non lo sono) e per quanto sacrifichi tutto il resto al restare con il naso ficcato in un libro dopo l’altro, in un fumetto dopo l’altro (questo è già più facile: basta non curarsi dei social e all’improvviso si recuperano migliaia di ore preziosissime ogni anno) è limitato.
William Gibson una volta è stato uno dei premi più importanti che potessimo guadagnarci. Leggere un suo romanzo era tempo ben investito, era un viaggio colto, sufficientemente sperimentale e particolarmente acuto in aspetti della nostra società che tenevano in alta considerazione la tecnologia ma non erano (e non sono) “hard”, pesantemente zavorrati da un bla-bla-bla para-scientifico a cui altri autori più di maniera ci hanno abituato.
Non era peraltro possibile una scelta differente per l’autore: lo spiraglio attraverso il quale William Gibson si è inserito per raccontare la realtà è talmente sottile e delicato, appeso com’è a considerazioni, immaginazioni e fantasie attorno al computer e alle reti e all’ibrido tra il cibernetico e l’umano, che scendere un millimetro di più nel tecnicismo l’avrebbe irrimediabilmente messo fuori gioco e fatto diventare “prodotto stagionato” in men che non si dica.
Invece la fantasia intuitiva e soprattutto la prosa allusiva ed evocativa di Gibson hanno mantenuta dritta la barra di un genere, quello fantascientifico, che però tra le mani dell’autore si è lentamente consumato e quasi esaurito in maniera naturale, quasi disperatamente umana. A differenza di altri, William Gibson si è sempre sentito scrittore prestato alla fantascienza, autore alla ricerca di una voce e di un genere attraverso il quale esprimersi ed esprimere le proprie ambizioni letterarie, la propria valutazione ed idea dell’umanità contemporanea. Il risultato? Romanzi che lentamente degradano in tempi e ambienti sempre più probabili, sempre più vicini.
Inverso da questo punto di vista segna una nuova svolta e un ulteriore cambio di passo. Recupera in maniera ancora più ermetica e criptica il Gibson delle origini, ma con una tessitura lunga, articolata, composta da infiniti frammenti che tessono un mosaico scritto a tavolino, pensato freddamente. C’è una fortissima concessione alla tecnica moderna di scrittura, quella che vede l’intreccio del romanzo farsi e disfarsi con dei fili che corrono paralleli e si cedono il campo nella pagina con un susseguirsi di capitoletti brevi, costruiti sul punto di vista dei differenti personaggi, un’alternanza di frammenti che creano impressioni, sensazioni, bozzetti, che pian piano riveleranno una forma più complessa, un affresco più ricco.
È un modo di scrivere che Gibson ha acquisito negli anni, che fa maniera dei meccanismi narrativi utilizzati dall’industria culturale nel settore dell’intrattenimento più spinto, che richiede opere più articolate per un pubblico sempre più sofisticato e multitasking. Il montaggio veloce, l’alternanza di punti di vista, la polifonia delle voci narranti, rende la narrazione più serrata e rischia meno di far perdere il tono dell’attenzione al lettore. Certo, se poi non si capisce, se il mosaico assume forme distorte e difficili da decodificare, allora il gioco non vale la candela. Altrimenti si crea una tensione naturale che fa avanzare la storia con rapidità ubriacante. Gibson in questo è bravo anche se non eccelle.
Tuttavia a settant’anni appena compiuti trovare un autore tutt’altro che secondario e anzi conosciuto semplicemente come scrittore al di fuori del suo genere, e trovarlo che ha ancora voglia di sperimentare, di cercare di intrecciare le parole per formare non solo storie nuove ma anche modi diversi di raccontarli non è uno spettacolo comune. E questo mi fa ricordare che ho ancora molte pagine di Inverso da leggere prima di sera. Poi toccherà a un Coupland d’annata che mi è rimasto lì da tempi immemori.