Con La fine della ragione anche Roberto Recchioni debutta nella scuderia di Feltrinelli Comics, il nuovo marchio dell’editore milanese dedicato al fumetto e curato da Tito Faraci. L’autore romano, con una carriera di ormai oltre vent’anni, creatore di Orfani e Monolith per Bonelli e di decine di altri lavori per editori come Cosmo, Star Comics e Panini, non è certo tipo da sfuggire alle sfide e alle opportunità.
Così, oltre ad occuparsi della cura editoriale di Dylan Dog, preparare l’imminente serie 4Hoods per il marchio Bonelli Young di SBE, scrivere romanzi di genere (Ya per Mondadori), recensire film, videogiochi, fumetti e aggiornare il suo seguitissimo profilo da social influencer, Recchioni – socialmediaticamente e fumettisticamente noto come RRobe – non si è sottratto alla possibilità di partecipare anche a questo neonato progetto fumettistico. E l’ha fatto a modo suo.
La fine della ragione è infatti un libro sfrontato, come Recchioni ormai ci ha abituato nelle sue storie e nelle sue ancor più numerose boutade sui social. Nelle sue corde non sembra esserci mai il timore di provocare reazioni o di rendersi antipatico a chicchessia. La genuina impulsività è infatti il tratto più interessante del personaggio – perché soprattutto è il personaggio RRobe che attira l’attenzione del pubblico e accende discussioni in un mondo, il fumetto, visto spesso come placido e un po’ imbolsito, lento nel recepire i cambiamenti del tempi che corrono.
Ecco allora che la forza di comunicazione di Recchioni (più personaggio che autore o, forse, autore-del-personaggio-RRobe) sta nella sua capacità di autorappresentarsi sempre come colui che rovescia, o vorrebbe rovesciare, le carte. Un autore che impone un cambio di passo in un settore eternamente bloccato in una rassicurante immobilità.
Il passaggio in Bonelli in questo senso è stato un momento esemplare della sua carriera, quello nel quale più che mai si è potuta affermare la sua personalità dirompente. La creazione con Emiliano Mammucari di Orfani – la prima serie bonelliana interamente a colori, divisa in stagioni, con personaggi diversi nel tempo e realizzata in un linguaggio volutamente anti-bonelliano – e la guida editoriale di Dylan Dog – con l’introduzione della continuity, lo svecchiamento grafico, l’attualizzazione dei temi – al di là dei risultati in termini di qualità o di vendite, hanno rappresentato per l’editore di Tex dei segnali di forte discontinuità. Energie di cui lo stesso Recchioni si è fatto portavoce e, al contempo, ne ha tratto beneficio.
Del libro dirò tra poco, ma a chi fosse capitato qui senza avere esperienza dei suoi albi “da edicola” è utile offrire (almeno) una coordinata: negli ultimi anni Recchioni ha creato intorno a sé un marchio identificativo capace di imporsi al di là dell’identità delle storie stesse, con un’efficacia comunicativa rara, perlomeno nell’Italia del fumetto. Una militanza che si è affermata non soltanto attraverso i suoi lavori, ma anche e soprattutto attraverso un’accorta capacità di promozione e di autorappresentazione che non rifugge neanche la polemica. Anzi, spesso la cavalca. La fine della ragione si inserisce perfettamente in questo percorso, e trae i motivi di maggiore interesse non tanto nella storia in sé – banale nel soggetto e inconsistente nello sviluppo, come vedremo – quanto come opera di riflessione del personaggio Recchioni, in un momento delicato della sua carriera, del mondo editoriale cui appartiene e dello stesso paese.
È una singolare coincidenza che il libro esca a poche settimane da una tornata elettorale che segnerà un passaggio importante per definire la direzione del paese nei prossimi anni. Il libro di Recchioni è infatti un libro fortemente politico. Più precisamente si tratta di un’invettiva frettolosa e provocatoria che, nella sua goffaggine formale, rivendica un’urgenza quasi disperata. Il testo iniziale lo dice chiaramente, senza mezzi termini: «Per venire incontro ai tempi in cui viviamo, fatti di comunicazione semplificata e titoli di giornali che sono gli articoli stessi, questo libro utilizzerà un linguaggio facilitato fatto di molte immagini e di un numero estremamente limitato di parole».
Difficile trovare un’introduzione più sardonica di questa, in un fumetto dei nostri tempi. La consapevolezza della fatica e degli errori dei (social) media odierni, la coscienza della percezione del fumetto come mezzo di comunicazione, il sarcasmo: tutto si tiene, in questa dichiarazione di intenti. Sembra inoltre che in questa visione emerga qualcosa di simile alla definizione operativa recchioniana di fumetto: una versione semplificata del medium che non nasconde una sottile polemica nei confronti del suo pubblico (basti pensare allo ‘storico’ editoriale di Dylan Dog n. 344 da lui firmato, con quel “nun ce rompete” che sollevò non poche reazioni indispettite tra i fan).
Nella realtà il libro è carico di testi “pesanti” nella sostanza e nella forma (un lettering enfatico, ricco di sottolineature), che riempiono molte pagine-poster di ridondanti riflessioni e anticipano/spiegano il significato di ogni passaggio. Come se la storia in sé non fosse già abbastanza autoesplicativa. L’effetto è quello di rendere un racconto semplice, ai limiti dell’elementare – la ricerca di una cura in un mondo post apocalittico ostile e ignorante –, ancora più prevedibile nei suoi sviluppi.
Questi caratteri spessi e sovrabbondanti, che rimandano in forma di segno alle invettive in caps lock degli odiatori da social network, suonano come la voce diretta di un autore che non vuole far tacere il suo personaggio, sopraffatto dall’urgenza di dire la sua sui tempi che corrono, e in particolare su un analfabetismo di ritorno che ha tante facce (pseudoscienza, pseudo democrazia, pseudo libertà d’espressione) e che non sembra avere mai fine.
Nella voce urlata, che ribadisce l’ovvio e riempie gli spazi di una storia che non c’è perché non vuole esserci, pare riassumersi il senso di un’operazione tanto diretta quanto formalmente inefficace. La vicenda di una Madre – programmaticamente mai nominata, allegoria di ogni Madre, così come RRobe rappresenta ogni Autore del mondo che racconta – che cerca la salvezza della figlia malata nella medicina contro le superstizioni che dominano il mondo, è una fiaba elementare priva di mordente, apertamente volta a una schietta polemica contro un target di palese attualità: gli “antivaccinisti”.
In questo mondo nel quale la Superstizione ha prevalso contro la Ragione, gli unici Dottori ancora esistenti si sono nascosti, come Demoni dell’inferno, dentro un Grande Sasso per conservare la conoscenza utile alla salvezza dell’umanità. La Madre protagonista giunge così lungo un percorso lineare – senza particolare tensione, tra primi piani e didascalie da pamhplet – al cospetto di questi Medici-Farmacisti convincendoli a farsi dare le opportune medicine. Senza la ricetta, ovvio, ma recitando impeccabilmente il Giuramento di Ippocrate (–”Come fai a conoscerlo?” –”È un sortilegio che rende schiavi i demoni”). La bambina guarisce dai malanni, ma la Comunità accoglie questa notizia come un Miracolo (“una risposta semplice a problemi complessi”, per citare l’Autore che sembra citare a sua volta il Gipi di Unastoria), e alla Madre non resta che fuggire con la sua famiglia in cerca di qualcuno che li salverà.
Il finale [SPOILER] rivela di chi si tratta: l’Autore stesso. Che coi suoi fumetti riesce a trovare un senso alla vita, e può – nel codino finale – “mandare affanculo il mondo”. Tutto torna, dunque: la voce dell’Autore, che fa da cornice e contrappunto descrittivo ad ogni passaggio del racconto, prevarica l’intento narrativo, riducendo tutto a tesi, raccolta di cliché ad uso “allegorico”, commento estemporaneo da social network.
I passaggi della vicenda ambientati nel “nuovo medioevo” servono a ribadire le idee di fondo senza particolare impegno e a dare loro corpo e respiro narrativo: più che una storia La fine della ragione sembra un concept. Un pamphlet che promette di declinare delle tesi in un racconto metaforico, ma poi rinuncia al racconto e si ferma ad affastellare bozzetti. La forma, semplice e poco ispirata – se non per l’insolito ruolo estetico delle pagine-poster (o pagine-post?) –, viene sacrificata all’urgenza della comunicazione.
Il segno, per quanto espressivo e d’impatto, non acquisisce mai una propria identità ma si rifà sempre a qualcos’altro, da Gipi (lo scenario post-apocalittico del dopo-social, la litania sulle “risposte complesse”) ad Andrea Pazienza, dai manga all’autoanalisi di Zerocalcare. Sembra quasi che l’impellenza del messaggio abbia messo in secondo piano ogni aspetto formale e narrativo dell’impresa, vanificando la resa complessiva. Ma in ogni arte, purtroppo o per fortuna, la forma è sostanza. E le buone intenzioni non fanno arte, semmai “fanno cadaveri” (cit.).
La fine della ragione è dunque un esperimento poco convincente e formalmente debole. L’esperienza di Recchioni, e quella di Faraci che ne ha curato la pubblicazione, non sono bastate a rendere significativa un’intenzione polemica e – saggiamente, direi – politica che avrebbe avuto bisogno di più ispirazione e di più riflessione per dare nerbo al messaggio che voleva veicolare.
L’urgenza comunicativa e quella produttiva hanno sopraffatto il risultato, sgraziato nello svolgimento ed esile nel dare sostanza narrativa alle idee. Forse sarebbe bastato assegnare più tempo alla sua realizzazione, senza la necessità di uscire a una manciata di mesi di distanza dagli annunci; forse sarebbe bastata una cura professionale più attenta all’intreccio; forse un fumetto sugli antivaccinisti avrebbe meritato un inquadramento fiabesco diverso. Ma naturalmente sono solo ipotesi e forse, più semplicemente, La fine della ragione è la fine di un certo modo di intendere il fumetto, e l’inizio di qualcos’altro: il post-fumetto ai tempi dei social. Chissà.
La fine della ragione
di Roberto Recchioni
Feltrinelli Comics, febbraio 2018
122 pp., colore
16,00 €