Sappiamo che in questa colonna metafisica e digitale, Science Friction, si parla di fantascienza, argomento che dovrebbe essere off-limits per i protagonisti del Vecchio West a fumetti. Invece, a sorpresa per alcuni, il vecchio Tex entra in questo spazio dalla porta principale, anche se vedremo tra poco in che modo.
Perché la creatura di Gianluigi Bonelli e Aurelio Galeppini con il visto e il portamento di Gary Cooper e la pistola alquanto facile non ha combattuto solo con ladri, rapinatori, traditori, indiani rinnegati, assassini, streghe, stregoni, lupi mannari e altre creature spaventose più o meno fantastiche, con le quali peraltro ha regolato i conti in maniera molto democratica: a suon di pugni, pistolettate, fucilate o candelotti di dinamite, a seconda della bisogna. No, nelle avventure del ranger texano c’è anche un tocco di fantascienza, un assaggio di “alieno” che nel tempo ha costruito una specie di tessitura coerente e piacevolmente demodé.
Soprattutto con tre episodi canonici del rapporto tra Tex Willer e gli alieni (ce ne sono anche altri, più un mix di storie un po’ fantastiche e un po’ fantascientifiche, come ad esempio i ricci assassini piovuti dallo spazio con Il fiore della morte, del 1974).
La valle della Luna (Tex n. 55-56)
Il cuore delle esperienze extraterrestri di Tex Willer è una vecchia storia scritta nel 1965 da Gianluigi Bonelli e disegnato dal fido Aurelio Galeppini con l’aiuto, dicono alcune fonti, di Virgilio Muzzi: La valle della Luna, pubblicata in due parti sui numeri 55 e 56 di Tex.
Protagonista è una creatura silenziosa, che gli Apaches chiamano “figlio di Manito” e che in realtà è un perfetto alieno da B movie, con tanto di piccolissime squame sulla pelle e corpo verdastro. L’alieno, di cui non sapremo mai il nome, è giunto sulla Terra a bordo di una “piccola Luna”, si è nascosto nella miniera di Last Hope dove ha portato avanti i suoi lavori di scavo, è armato di pistola a raggi e di radar portatile per localizzare amici (quali?) e soprattutto nemici. Terrorizza e uccide senza ritegno i cercatori di fortuna che hanno acquistato la miniera, nonostante la forma umanoide dovrebbe fargli immaginare che si tratti di creature senzienti più o meno come lui.
La storia, che appoggia su 74 tavole nel montaggio ad albo classico, è costruita attorno a un mistero, cioè all’assenza della creatura, che ne è protagonista ma viene rivelata poco a poco. Al principio, che poi è già la metà della storia, la creatura non è mostrata se non di spalle. Anche nel primo incontro-scontro con Tex, che ovviamente lo affronta a pistolettate, l’alieno è è travestito da terrestre, anche se gli abiti gli stanno larghi, e porta avanti questa mascherata il più a lungo possibile, anche sotto i colpi dei nostri eroi. Tex gli spara e la pallottola ovviamente centra la creatura alle gambe (Tex dichiara di aver mirato basso per cercare di fermarlo, non di ucciderlo), lo fa barcollare ma non sortisce altri effetti. Poi il tunnel di entrata nella miniera dove l’alieno si è rifugiato crolla e Tex con i suoi si salvano per un pelo, apparentemente segnando la fine per quello che sino a quel momento sembra un “normale” cattivo.
C’è poi ovviamente l’introduzione di una possibile spiegazione della presenza dell’alieno, cioè la “morte verde”, una roccia nera con striature verdi che brucia la mano dell’indiano morente che l’ha presa. Gli indiani hanno trovato anche uno strano oggetto: una tavoletta che messa nell’acqua la trasforma in alcool molto forte “al leggero sapore di menta”: una qualche specie di razione kappa distribuita dall’alieno per assoggettare gli indiani al modo dei bianchi, cioè con la vietata e mortifera “acqua di fuoco”.
Nel conflitto finale l’alieno viene messo alle strette, aggredito su più lati dai terrestri, privato persino della mimetizzazione del cappello Stetson da cowboy. E noi sentiamo anche i suoi pensieri, che risuonano straordinariamente umani: «Tentano di circondarmi! Stolti… Pagheranno tutti con la vita la loro presunzione». È insomma il classico cattivo arrogante di Tex Willer, e questo, dopo una lunga esplorazione del mistero “in assenza”, ci riporta d’un botto sul consueto binario degli scontri con i cattivi tradizionali. Da una parte il maldido che pecca di ubris declamando le sue ragioni di supremazia, dall’altra Tex che lo manda all’inferno con pochi colpi ben assestati.
Questa volta però il canovaccio non finisce così, anche perché una eventuale morte aliena su territorio terrestre avrebbe aperto troppi interrogativi e potenziali rischi di successive invasioni o scoperte inopportune. Comunque, tempestato di colpi, l’alieno si difende da dietro le rocce con la sua arma a raggi, che spara come un bazooka colpi larghi e potenti (a differenza della classica linea dritta e rapida dei colpi di pistola e fucile: “bang” “bang” “zip” “zip” “zing”) e abbatte soprattutto i cavalli. «Corna di Belzebù! Quel brutto tipo ha nelle mani un’arma sbalorditiva», è il pragmatico commento di Tex, mentre si prepara a somministrare la consueta dose da indigestione di piombo.
Ferito più volte l’alieno (e distrutto da Tex il suo “rivelatore universale”), lo scontro è momentaneamente sospeso per la seconda volta: c’è tempo di riprendere fiato e preparare il gran finale. Sino ad ora il cattivone si è visto solo di spalle ma, in due sequenza rivelatrici l’arcano diventa comprensibile. Prima arrivano le quattro vignette che spiegano (sempre con l’alieno di spalle, casomai ci fosse tra il pubblico chi pensa che la testa pelata e squamata possa appartenere a un terrestre un po’ strano) il senso della sua presenza: sta conducendo una missione esplorativa che però non è ancora terminata, mentre gli indiani, “quella gente dalla pelle rossa”, ha scavato abbastanza minerale verde mortale da consentire di riattivare la sua navicella e ripartire a sua volontà.
La sequenza di raccordo prima dello scontro finale, intanto che Tex mette assieme un piccolo esercito di minatori, indiani, volontari e tutori della legge, è di nuovo in soggettiva sull’alieno, che si tutela distruggendo tutti i passaggi per Last Hope e preparandosi a sommergere la miniera e le tracce del suo passaggio. Sino ad arrivare allo scontro finale, sempre in ‘assenza visiva’ del cattivo.
Dell’alieno infatti vediamo solo, in un passaggio drammatico che è la seconda sequenza rivelatrice, la faccia con gli occhi malefici. Lo vediamo chiaramente quando “quella gente dalla pelle chiara” ha trovato il secondo passaggio nella miniera e riesce a seguirlo con la chiara determinazione a catturarlo o a terminarlo, sino ad arrivare pochi attimi dopo la partenza della sua navetta, che non viene peraltro mai mostrata. Rimangono solo tracce fumanti al suolo e un Tex pragmatico e filosofico. Infatti, all’idea che forse l’individuo misterioso si sia suicidato facendosi esplodere (da cui i frammenti fumanti rimasti nella radura altrimenti deserta circondata dalle alte rocce di montagna), Tex commenta: «Forse le cose sono andate così, ma in ogni caso preghiamo che quell’essere non si faccia mai più vivo».
È un Tex straordinariamente poco toccato dalla eccezionalità degli eventi quello de La valle della Luna, mentre la storia prosegue sui consueti binari delle narrazioni bonelliane: il “romanziere prestato al fumetto” infatti è stato un maestro dei crescendo e questa, come molte altre sue storie, è un lungo viaggio serpeggiante e abbondantemente condito di dialoghi (nel Vecchio West si parlava molto) in cui l’azione alterna flashback e spiegazioni che rimettono assieme i pezzi del puzzle. Fino a una sintesi finale spesso sorprendente o comunque non scontata. Soprattutto, completamente basata sull’azione.
L’alieno è una creatura di maniera, in linea con un immaginario paragonabile e compatibile con quello di Tex Willer. Si muove come un perfetto cattivo del teatro willeriano: pecca di tracotanza e, nonostante una soverchiante superiorità di mezzi e di costituzione, non riesce a sconfiggere questo piccolo uomo dalla mira pressoché infallibile. La pallottola tirata da Tex colpisce infatti la carne dell’alieno trapassandola da parte a parte senza apparente danno se non un lieve rallentamento della corsa, che poco dopo però scompare: dopotutto è un alieno, immune alla cura del piombo di Tex.
La creatura è l’incarnazione dei peggiori sogni degli anni Cinquanta, emerge da un immaginario pulp molto facile, condiviso da cinema e fumetto americani del decennio precedente. E deve essere così, perché le continue allusioni, senza svelarne però il vero volto, per la maggior parte della storia bisogna che poggino su un immaginario condiviso dal popolo dei lettori di Tex.
L’alieno poi ha una sua tridimensionalità, appena accennata ma sufficientemente resistente allo sguardo dell’epoca: in missione esplorativa, malvagio perché probabilmente conquistatore, abituato a servirsi delle popolazioni indigene (gli indiani, questi eterni sfruttati), bisognoso del magico materiale radioattivo nero e verde che gli consentirà di avviare nuovamente la sua navicella a secco di carburante. La sua fuga, così come la distruzione di qualsiasi traccia del suo passaggio, chiude la vicenda “resettando” la storia personale di Tex, che va avanti senza problemi nonostante la quasi consapevolezza che non solo gli alieni esistono e ci conoscono, ma ci odiano anche e sono più che disponibili a schiavizzarci.
Un mondo perduto (Tex n. 282-283)
Cambio di passo significativo. Nella storia scritta da Gianluigi Bonelli e disegnata da Erio Nicolò (scomparso mentre la stava realizzando, sostituito nelle ultime tavole da Vincenzo Monti e forse Giovanni Ticci), Un mondo perduto, pubblicata nei numeri 282-283 dell’aprile-maggio 1984 è una storia alla Zagor più che alla Tex.
L’antefatto non è lontano da quello de La valle della Luna: nel grande Nord, alle pendici del monte Rainer, le donne degli indiani Klamath sono rapite da ignoti incappucciati che fuggono in quota. L’amico taglialegna e un po’ casinista Gros-Jean (uno che è più grosso che intelligente), che commercia in pellicce a Yakima, vuole andare a sgominare la banda con una spedizione punitiva. Alla sua posse si uniscono, oltre a Tex con l’amico capitano Olden, anche un certo Hans Steiner, che cerca il padre scomparso anni prima, in circostanze misteriose, proprio da quelle parti.
Ci sono anche i cattivi di primo livello, cioè un gruppo di malintenzionati che seguono i nostri eroi con il prosaico (e criminale) intento di accaparrarsi una fantomatica miniera d’oro. Sono i cattivi che devono aggiungere un po’ di pathos e qualche complicazione per rendere la storia più movimentata. Ci riescono bene ma a prezzo della loro pellaccia, ovviamente. Il problema infatti sono i tizi incappucciati che vivono sulla montagna e che li sterminano senza pietà.
Lassù, in cima al monte, c’è a quanto pare il “buen retiro” di una intera civiltà extraterrestre, fuggita dalle sue galattiche problematiche e impegnata a risolvere problemi più banali come trovare buon vino e qualche donna indiana con la quale intrattenersi. Oppure indiani mutati, nel corso dei secoli, dalle radiazioni emesse da un razzo interplanetario di alieni rettiliformi, schiantatosi sulla montagna secoli prima.
La storia è una di quelle deboli nella enorme produzione di Bonelli senior a causa forse della svolta centrale nella trama, ovvero l’incontro con gli indiani-extraterrestri, peraltro sconfitti e sterminati quasi per caso da Gros-Jean. Ma qui c’è tanto per l’amante della fantascienza: l’astronave, i computer della sala di controllo, la razza aliena “trasfigurata” negli indiani mutati che Tex immagina però possa anche essere semplicemente di persone “vissute da generazioni in isolamento in cima alla montagna”. Gli elementi sono consegnati con così poche spiegazioni che sono convincenti (abbastanza) per forza.
Dopotutto, sono gli anni di cambiamento di passo di Tex, che diventa un personaggio ancora più esistenziale e profondo, duro, quasi inaridito dalla vita di ranger costantemente in movimento, che dorme in una capanna indiana nella riserva di cui è anche agente o, più spesso, sotto un tetto di stelle e con una sella come cuscino. Una persona strana, insomma. Che oltretutto si oppone con tutte le sue forze al paranormale e all’ultraterreno: Tex non accetta niente che non possa essere regolato con la sua Colt e, in questo episodio in particolare, impedisce quasi fisicamente alla narrazione di approfondire e rendere più tridimensionale il mistero in cima al monte Rainer.
La storia peraltro, con tanto di scienziato pazzo in cima alla montagna e divenuto sakem dei Ghundar, è più una specie di mistero alla Peter Kolosimo che non un classico western Made in Milano. Ma nonostante questo è abbastanza godibile, sia per l’immenso mestiere di Bonelli che per il finale ellittico e, come sempre, sospeso al filo della credulità del lettore.
Ritorno a Pilares (Tex n. 387-391)
Arriviamo all’ultimo e più intrigante fra i tre capitoli “canonici” dedicati alla fantascienza nella decennale storia di Tex. Si tratta di un accenno, di una pennellatura all’interno di una storia molto particolare, tutta contenuta nell’albo numero 390 Il dio azteco.
La storia è molto più ampia, anzi è la più lunga mai realizzata finora per il ranger texano: si intitola Ritorno a Pilares ed è scritta da Guido Nolitta, alias Sergio Bonelli (cioè il figlio del creatore di Tex), e disegnata da Guglielmo Letteri, che fa invece parte del nucleo storico dei cinque disegnatori di Tex (assieme a Erio Nicolò, Giovanni Ticci, Fernando Fusco e Virgilio Muzzi) che scesero in campo negli anni Sessanta per dare man forte a Galep.
La lunghissima cavalcata di Ritorno a Pilares, che è poi il paese messicano dove abita El Morisco, uno degli “amici” di Tex più inquietanti e interessanti, inizia a pagina 79 del numero 387 e si conclude dopo cinque albi, per un totale di ben 586 tavole. Un mammuth che scorre via velocissimo, la cui storia è incentrata sulla ricerca del figlio Kit “piccolo falco” Willer, rapito da una banda di misteriosi uomini-giaguaro, e affonda a piene mani nel mito precolombiano e nella magia.
Quello dell’occulto è un tema caro agli autori di Tex. El Morisco è solo uno dei possibili interlocutori, perché Tex nel tempo ha affrontato ed affronterà Mefisto ma anche altri maghi, streghe, illusionisti che si fingono maghi, e poi fatture voodoo, trasformazioni di uomini in lupi o zombie che escono dalla tomba. Niente che una pallottola calibro 45, magari d’argento, non riesca a sistemare, intendiamoci. Gli uomini giaguaro non fanno eccezione, perché, come osserva acutamente Tex, sanguinano e quindi possono morire: è la base della logica ferrea, anzi “di piombo” del ranger. Solo che qui c’è un’eccezione.
Nei tortuosi inseguimenti per riuscire ad arrivare al nucleo marcio che si nasconde dietro gli uomini-giaguaro, c’è un notevole allungamento che prevede la visita alla missione di un folle prete messicano, padre Xavier, custode di un ultimo, prezioso codice azteco.
Nella cripta della missione sono conservati reperti strani, straordinari e impossibili. Fanno capolino alcuni “pezzetti di fantascienza”: una pistola a raggi, trasmittenti misteriose fatte di metallo sconosciuto, schemi di razzi incisi su tavolette di metallo, teschi di foggia incomprensibile e incompatibile con l’anatomia umana. Vengono tenuti segreti perché «l’equilibrio mentale di un uomo normale potrebbe venire messo a dura prova dalla rivelazione di certi straordinari fatti…», spiega padre Xavier. «…tanto straordinari da cancellare l’immagine del mondo che è stata trasmessa dalla cultura tradizionale. Cose che uomini saggi e previdenti hanno deciso di tenere gelosamente nascoste per più di duecento anni…».
È un attimo, un passaggio che El Morisco giudica straordinario e capace di cambiare il corso della storia. Ma poi tutto scompare nel fuoco, distrutto dal prete matto che, peggio di un templare alla Dan Brown, preferisce farsi esplodere con tutti i misteri e i tesori accumulati dalla Chiesa nel Nuovo Mondo e tenuti discretamente da parte, al di fuori dei circuiti tradizionali.
È tutto qui, perché la storia procede poi sul suo binario e non ha certo bisogno di interventi extraterrestri né magici per spiegare le trasformazioni degli uomini-giaguaro (splendida intuizione da parte di Nolitta), né per creare il movente di tutta la storia. Ritorno a Pilares è una lunga, bella storia, potente e sorprendente, che scivola via senza pesantezza ed ha anche questo ulteriore tocco che colloca senza esagerare la dimensione fantastica di Tex in un universo anche un po’ fantascientifico.
Tex e lo spazio esterno
Da un lato c’è un ovvio problema di ripetitività. Tex nasce editorialmente nel 1948 con una struttura a strisce, sconfigge le altre serie lanciate in parallelo dalle Edizioni Audace (poi Edizioni Araldo) dirette da Gianluigi Bonelli, e manterrà quel formato sino al 1967. Parallelamente alla pubblicazione delle strisce in albi 16,5×8 cm erano cominciate la pubblicazioni delle raccolte (nel tempo se ne sono alternate tre serie) sino ad arrivare, con diverse varianti, alla Collana Gigante (poi “Collana Tex gigante” e infine “Tex”) che apre la strada al classico formato bonelliano. Gli storici della materia ricordano che da pagina 69 del numero 96 dell’ottobre 1968 comincia la pubblicazione di storie inedite montate su tre palchi di vignette. Il numero delle pagine passa da 160 a 128, fino ad assestarsi poi su 112 pagine brossurate in formato 16 per 21 centimetri.
Tex va avanti con punte di 700mila copie tirate per l’edicola, assieme a Topolino è uno dei più grandi e duraturi successi editoriali del mondo dei fumetti in Italia (e nel mondo), e macina storie su storie. C’è chi ha scritto molto e bene sul personaggio di Bonelli, qui il ragionamento serve per dire che le oltre 800mila tavole pubblicate (dato del 2010) sono una montagna straordinaria che ha richiesto però un lavoro infernale e qualitativamente molto elevato. I disegnatori che si sono alternati alle matite per Tex sono stati sempre di più e così anche i soggettisti e sceneggiatori. Il personaggio (e i suoi pards) sono evoluti, ma la sostanza è rimasta sempre la stessa. E c’è sempre stato un problema: la “fame” di contenuti. Da qui le scampagnate nei territori della fantascienza.
È logico che sia lo spazio a venire da Tex anziché viceversa: non solo perché un Tex rapito dagli extraterrestri sarebbe veramente difficile da immaginare (e soprattutto immaginare il personaggio come al solito immutato e immarcescibile anche dopo un episodio di “alien abduction”), ma anche perché di solito è tutto il mondo che viene a Tex. Lui e i suoi pards si sono avventurati al di fuori del sudovest degli Stati Uniti un po’ di volte: oltre al Messico si sono spinti fino al Canada, America Latina, costa occidentale (soprattutto New York), addirittura territori al di fuori del continente Nord e Sud americano. Il 95% delle storie però si svolgono tra Texas, Arizona, Nuovo Messico, Messico vero e proprio e dintorni. Perché non trovare lo spazio anche per un po’ di esotismo spaziale?
Gli alieni di Tex sono classici cattivi, perfettamente comprensibili secondo le logiche retributive (a suon di piombo) del ranger: tracotanti, violenti, sfruttatori, incapaci di comunicare i propri bisogni e ciecamente arroganti nel modo con il quale vogliono soddisfarli. Sarebbe bastato un po’ di dialogo e avremmo forse aperto le porte a una civiltà extraterrestre. Invece, come nei migliori libri e film di fantascienza degli anni Cinquanta con a tema l’arrivo dell’alieno, o la creatura misteriosa che fuoriesce dalla palude (piuttosto che dalle rovine radioattive o dal bosco impenetrabile) tutto si deve risolvere in maniera violenta e immediata, lasciando la sensazione che sia stato solo un brutto sogno, una avventura strana che presto svanirà assieme al ricordo delle immancabili vittime innocenti, i danni collaterali che Tex produce o subisce ovunque si trovi.
L’esecuzione di Bonelli padre e figlio è però inappuntabile. Citando quel che è giusto richiamare degli immaginari fantascientifici ma senza esagerare e soprattutto senza sottolineare giudizi di merito sulle tecnologie piuttosto che sulle ragioni biologiche degli extraterrestri, i due autori seguono uno schema classico: costruiscono un meccanismo di mistero e suspense che prosegue con un crescendo sino al violento incontro (di solito in tre round successivi) con la creatura di turno, fanno raccontare ai protagonisti delle storie il senso di quegli incontri (soprattutto con il mostro verde e squamoso di Ritorno a Pilares) e intanto rispondono a una domanda molto semplice e diretta: cosa voglia dire per Tex avere a che fare con nuovi, pericolosi misteri. (Risposta: far sputare fuoco alle sue Colt con ancora maggior convinzione).
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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio. Il suo canale Telegram si chiama: Mostly, I Write.