Quanto può costare l’intrattenimento? Detto senza girarci troppo attorno, un sacco di soldi.
Pensateci bene: al costante ingigantirsi dei budget legati all’industria cinematografia ormai ci siamo abituati. Ogni stagione il podio di film più costoso della storia viene assegnato a qualche nuovo giocattolone sfavillante, con la speranza (da parte dei produttori) che dopo l’uscita nelle sale riesca a guadagnarsi anche il gagliardetto del più remunerativo. Ben diverso il discorso in tutti gli altri campi, dalla musica ai videogiochi (o al fumetto), dove il discorso sui costi rimane in genere più nebbioso, o legato a più ristretti circuiti professionali, e l’attenzione generalista viene conquistata solo dai casi davvero eccezionali.
Ed eccone uno: il polverone sollevato dai 265 milioni di dollari spesi per lo sviluppo del videogame Grand Theft Auto 5, il famigerato simulatore di malavita giunto alla sua incarnazione più realistica e ambiziosa. Un fiume di soldi – difficile anche solo da immaginare, per la maggior parte degli utenti – che in un modo o nell’altro deve rientrare al più presto nelle casse della Rockstar, software house del progetto. E infatti, per evitare che a nessuno sfuggisse l’uscita sul mercato di questo nuovo prodotto, più della metà del budget a disposizione è stato speso in marketing e comunicazione (Bloomberg Businessweek lo descrive così: 115 milioni per lo sviluppo, e tutto il resto in promozione). Nessuna sorpresa, quindi, se il videogame in questione ha finito per incassare la folle cifra di un miliardo di dollari in soli tre giorni. Basta fare una panoramica degli addendi, talvolta, per intuire con largo anticipo il risultato finale. Una proprietà intellettuale nota a chiunque (anche per la sua qualità); quattro anni di distanza dalla sua ultima incarnazione; una costante semina di indizi e teaser; e l’imponente battage pubblicitario degli ultimi mesi. GTA 5, insomma, non poteva passare inosservato. Eppure, meno spesso ma con risultati quasi sempre più clamorosi, si può arrivare allo stesso risultato investendo una frazione infinitesimale di risorse economiche.
Un manga titanico
Ebbene sì, mi riferisco a quei successi a sorpresa di cui nessuno – a dispetto di quello che si dice, analisti o meno – sarebbe stato capace di prevedere l’ascesa. E vale la pena parlarne in ambito fumettistico, visto che proprio da qui sembrano partire alcune tra le più grandi scalate dell’intrattenimento moderno. L’ultimo esempio è l’universo di prodotti che si stanno creando attorno al manga Attack on Titan, creazione di un giovane mangaka classe 1986 arrivato al traguardo delle venti milioni di copie vendute in meno di due anni. Risultato ancora più straordinario se si considera il veicolo promozionale (la rivista Bessatsu Shonen Magazine, di certo non tra le più note) e la natura dell’opera. Sgradevole, disperata, senza nessuna traccia di quella carineria che invade, bene o male, ogni aspetto dell’intrattenimento nipponico. Anche i disegni sono quanto di più rozzo si possa trovare in commercio, spesso al limite della fan art. Eppure il successo è stato straordinario e immediato, esteso dalla carta stampata fino agli anime e ai videogiochi portatili. Per trovare un fenomeno simile in occidente dobbiamo tornare ai tempi dei primi numeri di The Walking Dead.
Difficile immaginarsi come una serie a base di zombie (nota bene: all’epoca del primo numero della serie Image non era ancora esplosa la mania per i non morti), in bianco e nero, dove si parla e si muore (definitivamente) un sacco sarebbe potuta diventare il fenomeno che è ora. Per quanto fosse palese che si trattasse di un titolo di estrema qualità era ben diverso capire in anticipo come ogni prodotto derivato avrebbe avuto la stessa sorte. Vedi il videogame, sviluppato con quattro soldi e in totale antitesi a quello che il mercato vorrebbe, eppure diventato anch’esso hit multimilionaria. Per trovare altri esempi di queste sorprese non dobbiamo neppure spostarci troppo da casa. Basta tornare al 1986 e allo scoppio tardivo di Dylan Dog, passato da flop a successo inarrestabile in poche settimane. Va detto che le risorse investite per il marketing furono impegnative (incluso l’acquisto di pagine pubblicitarie su quotidiani), eppure il detective di casa Bonelli riuscì ad arrivare a tirature leggendarie (sfiorando il milione di copie in un mese, tra inedito e ristampe) soltanto inventandosi una nuova tipologia di lettori. Anzi, di lettrici. Oltreoceano la stessa cosa accadde due anni più tardi con il Sandman di Gaiman, primo comic book di “supereroi” ad avere un pubblico prevalentemente femminile e sopra i vent’anni.
C’è chi cambia le carte, e chi le fa “variant”
Si tratta, lo so, di esempi diversissimi tra loro. Ma tutti sono accumunati da un dato: un enorme successo arrivato nonostante apparissero come progetti apparentemente slegati dai desideri del pubblico. Non c’erano ruffiani collegamenti ai titoli in vetta alle classifiche, né tantomeno campagne di titillazione pubblica avviate mesi prima. Senza essermi mai addentrato nei meccanismi produttivi, dubito che nessuna delle ramificazioni crossmediali di cui sopra fosse stata pianificata prima di avvertire con certezza il valore di ciò che si aveva in mano. Eppure, ognuno di questi titoli ha cambiato le carte in tavola. Non ha semplicemente alzato il livello di magnitudo del progetto, proponendo quel che c’era prima ma in maniera più clamorosa. Ha proprio aperto strade nuove, parlando prima degli altri la lingua dei propri lettori. Probabilmente ancora prima di loro stessi. Scott Pilgrim pare oggi solo una serie vagamente hipster, con un tratto naif e un sacco di citazioni pop, ma all’epoca (nel 2004, ma pare il medioevo) era qualcosa di strabiliante. Lo strappo con tutto ciò che veniva prima era palese. Adesso si può parlare di intimità e minuscole storie d’amore scrivendo un fumetto con un mash-up di Super Mario 3 in copertina. Chi se lo poteva immaginare prima di Bryan Lee O’Malley? Quando invece vedo uscire una nuova testata con 50 copertine variant, la domanda che mi faccio è: riuscirà qualcuno a mettere in piedi una campagna pubblicitaria più brutalmente “ignorante” di questa? Saranno anche disegnatori bravissimi, ma si tratta pur sempre di una mera questione di potenza di fuoco. Non c’è neppure ricerca nello scegliere gli artisti. Sono semplicemente quelli con la fila più lunga alle convention.
Quando leggo Attack on Titan, invece, mi domando: come hanno fatto a portare quella sgradevolezza ai vertici delle vendite? A generare mode da milioni di yen con un prodotto relegabile all’underground? Come potrebbero riuscirci gli operatori editoriali nel mio paese? E qui l’attenzione si sposta su fiuto, talento e capacità immaginativa. Robette che non puoi certo comprare, ma che hanno il potere di lanciare autentiche leggende. Nel 1984 due fumettisti spiantati investirono 1200 dollari di rimborso delle tasse nella prima stampa del loro volume, e in una minuscola inserzione su di un magazine specializzato. Si chiamavano Kevin Eastman e Peter Laird, e grazie a una parodia dei noir alla Frank Miller a base di tartarughe mutanti si ritrovarono da un momento all’altro a gareggiare con i grandi. Rimanendo in vetta per un sacco di tempo.