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Claudio Calia: «La mia esperienza è un mezzo per raccontare l’Iraq»

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Claudio Calia è autore noto per il suo lavoro nel campo del giornalismo a fumetti. Non si è impegnato solo in questo versante della produzione fumettistica, ma è senza dubbio costante e sostanzioso il suo apporto alla scena italiana del fumetto di cronaca e di indagine. Ha raccontato questioni relative alla lotta alla TAV sulla tratta Torino – Lione, ha indagato sul caso di Porto Marghera e ha “censito” i centri sociali italiani. Tutto questo collaborando con l’editore BeccoGiallo, marchio radicato nel fumetto di realtà, con il quale ha appena dato alle stampe un nuovo volume, Kurdistan. Dispacci dal fronte iracheno.

Il libro rappresenta la prima incursione di Calia in terra straniera, un diario di viaggio nato da un soggiorno di due settimane in Iraq, a fianco degli operatori dell’Organizzazione Non Governativa Un ponte per… Dell’esperienza e del suo libro in cui raccoglie testimonianze di cittadini iracheni e operatori di pace ce ne ha parlato in una intervista in anteprima.

Leggi in anteprima esclusiva le prime pagine da Kurdistan. Dispacci dal fronte iracheno

claudio calia kurdistan

Come è nato tutto il progetto che sta dietro a questo libro?

Con una chiamata in Skype di un mio amico di vecchia data, Riccardo Varotto, ora rappresentante locale della ONG Un ponte per… a Padova. Al tempo stava lavorando proprio in Iraq con UPP, e insomma conoscendomi e leggendo – per forza di cose – i miei fumetti è stato piuttosto naturale che provasse a capire come mettermi in condizione di poter realizzare un libro sull’Iraq di oggi.

Le condizioni si sono create abbastanza in fretta, sfruttando la possibilità di potermi invitare per tenere dei workshop di fumetto nei centri giovanili gestiti dalla ONG. Il progetto dunque si è svolto in tre step: il mio viaggio con questi quattro workshop, diventati tre per problemi di sicurezza a Zumar, un albo a fumetti di 24 tavole stampato in arabo e inglese di promozione delle attività dei centri giovanili, e infine il libro con BeccoGiallo e il sostegno dell’Associazione YaBasta – Caminantes.

Che aneddoti hai da raccontare su quell’esperienza?

Davvero tanti. Dall’atterraggio a Istanbul dove mi sono trovato durante l’attentato di Daesh del 28 giugno 2016, alle decine di persone che ho conosciuto. Decine di esperienze personali e profonde vissute in appena due settimane, grazie anche all’impeccabile e densa scaletta di incontri che mi è stata organizzata da Un ponte per… In media sono tornato da questo viaggio con una sensazione di speranza nel futuro che non mi sarei aspettato alla partenza.

Cosa ha significato insegnare tramite il fumetto in luoghi così lontani a noi? Del resto dici “il fumetto crea ponti”.

In Iraq in alcune città si arriva a parlare tre lingue differenti: arabo, curdo e addirittura… aramaico! Le persone che partecipavano ai miei corsi spesso non potevano comunicare l’uno con l’altro per problemi linguistici. Con il fumetto mi piace pensare di avere contribuito a farli parlare tra di loro e, con la mostra di alcuni dei loro disegni che sta girando proprio da pochi giorni in Italia, fargli dire anche qualcosa a noi, qui, sulla loro situazione. Oltre alle loro voci che ho riportato nel mio libro.

Il corso di fumetto a Dohuk l’ho tenuto all’interno dell’Accademia di Belle Arti: trovarmi in Iraq a proiettare slide di Yellow Kid e Little Nemo, statunitensi, a un gruppo di studenti d’arte e giovani dei centri giovanili tra siriani, ezidi, iracheni e curdi mi ha fatto provare una sensazione incredibile da cui la frase, che direi di aver visto realizzata nella sua compiutezza, “il fumetto crea ponti”.

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claudio calia kurdistan

Cosa ti ha ispirato, in quanto a opere di genere simile?

In realtà non mi sono ispirato a nulla di genere simile: mediamente quando lavoro a un libro di graphic journalism nel tempo libero leggo tutt’altro. Come fumetti in testa – ma che in verità non ho neppure riletto per l’occasione – mentre lo realizzavo pensavo al trio Joe Matt/Chester Brown/Seth, a come alla fine siano riusciti spesso a fare fumetti belli e interessanti – molti tra i miei preferiti di sempre – in cui il racconto procede solamente per mezzo di dialoghi, di persone che parlano. Cosa che a dire la verità accade anche nel Brian Michael Bendis migliore, da Powers a Daredevil. Dal lato del segno, ho guardato molto al Popeye di Segar.

Noto che ci tieni a non apparire, il tuo racconto è molto spesso in soggettiva. Come mai? Sono gli altri ad essere al centro?

Questa probabilmente è la vera differenza rispetto ai miei lavori precedenti, dove spesso saltello letteralmente da una parte all’altra del libro a introdurre i diversi argomenti, è l’intuizione formale che è un po’ il cuore del libro. Ho deciso di scomparire, anche emotivamente.

Il mio sguardo è limitato alle scelte di sintesi e di regia del racconto. Poi lo sappiamo che questo è tutt’altro che un limite e anzi, spero esprima più di quanto avrebbe potuto essere con l’uso di testi a spiegare il mio pensiero. Quello che ho voluto cercare di fare è stato restituire la complessità dell’Iraq odierno attraverso le voci e testimonianze che ho raccolto, esattamente come a chiunque potrebbe capitare affrontando un viaggio come il mio, provando anche la stessa confusione. Perché no, riportando racconti e esperienze a volte anche contraddittori tra loro.

Il libro vuole essere un’occasione per chi anima i centri giovanili di Un ponte per… e una parte bella e significativa di società civile irachena di raccontarsi a noi. Io sono il mezzo che ha cercato di rendere fruibili, in una qualche misura anche intrattenenti, e comprensibili i loro contenuti.

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In parte si può dire che ci siano due tipi di graphic journalism, uno partecipato e uno cronachistico, che vede l’autore come fosse una telecamera, giusto?

Penso che in verità possano essere tanti i modi in cui affrontare un lavoro di giornalismo a fumetti: per dire se stessimo a questa definizione Joe Sacco e Guy Delisle sarebbero catalogabili nello stesso “tipo” mentre per me sono diversissimi, a partire dagli scopi prima ancora che dalla forma.

Io ho voluto esattamente pensarmi come una telecamera, in questa occasione. Riportare con lo stesso mio spaesamento al lettore la mia esperienza, lasciando a ognuno la possibilità di formarsi un opinione sull’argomento.

Ci sono stati momenti di particolare paura o pericolo?

Limiterei tutto al mio sbarco a Istanbul, dove si sono avvicendate un paio di scene di panico poco dopo l’attentato. Alle decine di persone che mi hanno chiamato quella sera continuavo a dire “tranquilli, tra poco raggiungerò un posto sicuro: l’Iraq!”. È una sensazione che avevo già provato in Palestina quando ci andai nel 2000 e che questo viaggio mi ha ricordato: ci sono posti nel mondo dove la vita vale così poco che impari forzatamente a relativizzare le tue paure o sensazioni di pericolo.

Quando una ragazza ti dice che si è trasferita da Baghad la terza volta che ha visto scoppiare un’autobomba tra la gente, anche il fatto di trovarsi al piano di sopra di un aeroporto mentre sotto si svolge un attentato diventa tutto sommato una esperienza come tante.

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