La carriera di autore per William Gibson è uno strano percorso. Lo scrittore naturalizzato canadese (fuggì dagli Stati Uniti per evitare il Vietnam, come ogni intellettuale alternativo e controculturale che si rispetti) non ha inventato il cyberpunk – merito che forse tocca all’amico/concorrente Bruce Sterling – ma ne è la voce più genuinamente letteraria e famosa.
Ha attraversato stili e stagioni diverse, partecipando a Hollywood (con un disastroso Johnny Mnemonic, nadir assoluto rispetto allo zenit del Blade Runner figlio di Ridley Scott e nipote di Philip K. Dick) e continuando a scrivere professionalmente con trilogie ambientate in periodi e momenti diversi.
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Aedo della tecnologia (il cyberspazio, dove i cow-boy digitali surfano grazie alle loro consolle customizzate, è il quadro concettuale che ha definito alcune delle metafore più potenti del nostro tempo) è un autore straordinariamente analogico, che ha abbandonato molto tardivamente la macchina per scrivere e che lavora ancora oggi con l’approccio di un artigiano della cottage industry culturale, una pagina alla volta, lasciando che mestiere, gusto e immaginazione si mescolino lentamente.
Nella ricetta di Gibson mancava il fumetto. Adesso non manca più. Archangel (cioè in italiano Arcangelo), la miniserie in cinque parti pubblicata da IDW e tradotta ora in Italia da Magic Press, è tante cose contemporaneamente.
Innanzitutto è la riproposizione di una idea originariamente pensata per la televisione tedesca. Un produttore in Germania voleva una miniserie di fantascienza e l’amico e collega autore Michael St. John Smith fece da ponte con Gibson. Che riprese una sua vecchia idea, costruita fantasticando da bambino sulla Seconda guerra mondiale. Perché gli scrittori, si sa, hanno questo gigantesco archivio di storie dentro la loro testa che si arricchisce da tempo e continua a lungo, a prescindere dalla produzione effettiva.
L’idea originaria di Gibson era una Guerra Bizzarra con i servizi segreti americani, britannici, la resistenza, le operazioni insolite e misteriose con l’occultismo nazista, gli Ufo e chissà cosa d’altro. Ma era una idea che ai tedeschi proprio non piacque; nonostante questo i due colleghi americani trovarono un punto di intesa sul soggetto e da qui iniziarono a dialogare e scrivere.
Poi entra in scena lo strumento fondamentale, cioè il viaggio nel tempo con i suoi paradossi, e qui entriamo nel merito della storia. Promesso: niente spoiler. Ma già dalla quarta di copertina sappiamo che si parla della possibilità di creare una linea temporale alternativa per generare una nuova Terra con le risorse ancora intatte (o almeno non troppo consumate) e poter ricominciare abbandonando un pianeta vetrificato dalle esplosioni atomiche.
Dentro il tema delle linee temporali parallele, dei paradossi che generano i viaggi nel tempo, c’è una letteratura enorme, e non solo fantascientifica. Però è uno degli strumenti per lo sviluppo delle trame più amato e difficile da usare. Inoltre, gli universi paralleli e il tema della Seconda guerra mondiale sono altri luoghi tipici di molta produzione di genere. È un incrocio “facile”, tutto sommato, forse perché consente di dire qualcosa di più rispetto a quel che la Storia ha registrato, e del quale Gibson e Smith si sono appropriati con gusto anche per la citazione delle atmosfere. E lo hanno fatto guardando ad entrambe le possibili declinazioni.
Tre ingredienti: anni 40, paradossi temporali, paura postbellica
Da un lato ci sono le distopie e comunque gli universi paralleli nei quali è tutto molto simile a come viviamo noi oggi ma c’è qualcosa di profondamente diverso, e che siano ambientati durante o subito dopo la Seconda guerra mondiale, c’è da ricordare La svastica sul sole di Philip K. Dick (che è diventato anche una serie televisiva, proprio di recente).
Dall’altro, sul tema più propriamente detto del paradosso temporale (e il modo con il quale si manifesta) lo stesso Gibson ricorda la “Guerra del Cambio” e le sue due fazioni che cercano di alterare la storia (sono i “venti del cambiamento” nel romanzo di Fritz Leiber Il grande tempo. Ma c’è tantissimo altro: dai videogame (ad esempio i vari Journeyman Project, ma l’ambientazione è parzialmente diversa) fino ai gustosi episodi di serie televisive americane quasi tutte degli anni Sessanta/Settanta, che trovano in questo “trucco narrativo” la chiave per aprire l’escapismo di un episodio o di una intera stagione.
Terza gamba, che regge lo sgabello narrativo di Gibson, è l’America alla fine della Guerra, che è poi l’America che avrebbe scoperto la paura dell’olocausto nucleare durante la Guerra fredda contro l’Unione Sovietica. Un’America tornata improvvisamente d’attualità con l’elezione a presidente di Donald Trump che ha fatto di quel contesto una delle narrazioni dei nostri giorni, complice anche il suo sparring partner nordcoreano. Un senso di sgradevole paura strisciante che avevano provato i nostri nonni e che oggi è tornato improvvisamente attuale.
Poi ci sono le atmosfere più squisitamente visive. Che nel fumetto sono notevoli. Quando Gibson cercò la sua via del cinema, sceneggiando un racconto che poi venne trasformato in Johnny Mnemonic, l’idea tutta hollywoodiana era di bissare il successo di Blade Runner creandone una versione più genuinamente cyberpunk con Keanu Reeves al posto di Harrison Ford. Mai bidone, però, fu più scarso, sgangherato e mal funzionante.
A parte i dialoghi, che chiedevano inutilmente pietà alla mente violata e urlante degli sfortunati spettatori, a sorprendere (negativamente) erano soprattutto la pochezza della regia e la povertà delle ambientazioni, a parte alcuni momenti di computer grafica non da buttare completamente via.
Lo stupore di Gibson per il disegno
Proprio la povertà visiva, la pochezza delle ambientazioni, cioè il tremendo iato fra l’immaginazione legata alla magia delle parole e la sua attuazione visiva, deve essere ancora oggi l’aspetto che fa più soffrire Gibson quando ripensa al suo passaggio californiano. Tanto che nel “backstage” pubblicato nell’edizione italiana, Gibson appare genuinamente stupito e quasi commosso dal lavoro dei disegnatori, arrivando a scrivere:
La cosa più emozionante è stata sicuramente vedere Butch dare vita alla storia sulla pagina. Per me, sono sincero, è stato più incredibile che vedere animate le mie sceneggiature per lo schermo, perché non è il risultato del lavoro di centinaia di persone e di una caterva di milioni di dollari, ma del talento di un solo essere umano, qualcuno che si siede con una matita e fa tutto a mano. La qual cosa continua a lasciarmi di stucco.
Butch sarebbe Butch Guice che, assieme ad Alejandro Barrionuevo e Wagner Reis, disegna (e lui poi fa anche le chine, con Tom Palmer) la miniserie di Arcangelo. Un lavoro che cita sicuramente il fumetto supereroistico tradizionale, ma che interpreta anche parte dell’immaginario legato alla Berlino dell’occupazione alleata, con atmosfere malinconiche, inquietanti, sporche. C’è l’azione, c’è un procedere lento per associazioni di immagini lungo percorsi che si intrecciano e mantengono una semplicità formale tale da permettere di evocare anche altre ambientazioni ed altre storie
C’è l’immaginario visivo (e ci sono anche i colori) della pubblicistica americana e sovietica degli anni Quaranta. C’è lo stile imperiale tedesco. Ci sono anche le atmosfere un po’ pulp degli anni Quaranta, l’immaginario fantascientifico della “golden age”, il gusto dell’Uomo invisibile di H.G. Wells e dei primi racconti di Robert Heinlein. C’è poi una curiosità montante per l’esplorazione di strade alternative al racconto, con piacevoli scivolamenti verso il citazionismo. Alcuni personaggi secondari compaiono brevemente portando dietro di sé una storia già raccontata, come luci nel mare notturno.
Gibson dà il meglio negli spazi brevi, con storie nel quale si aprano spiragli, allusioni, scenari possibili e solo mostrati. Nei romanzi Gibson prende il passo di un lungo fiume che naviga lentamente, largheggiando. Tuttavia qui l’azione è quella dettata dal piano americano, tre palchi (più raramente quattro o due) per tavola fatti da due-tre vignette per palco che lo costringono a correre, seguendo il ritmo dell’azione e soprattutto quello del feuilletton. Perché la miniserie in cinque albi ha avuto tempi di produzione più rapidi di quelli naturali di scrittura, e l’ultima parte è stata portata avanti adattandola sul momento ai cambiamenti della cronaca (e non vado oltre, perché ho promesso niente spoiler).
Tuttavia, un elemento appare chiaramente: Gibson ha capito, forse anche grazie alla collaborazione del collega e amico Smith, i tempi del fumetto d’azione. L’elemento fantastico diventa una geometria euclidea, uno spazio in cui muoversi come nella realtà fattuale del realismo più spinto, e i suoi personaggi sono eroi, forse leggermente super ma certamente non sovrumani. Anche e soprattutto il principale personaggio femminile: una tipologia di donna giovane e forte, che “eccede gli standard”, come dice lo stesso Gibson, e che appare sempre nei suoi racconti. “Non saranno donne realistiche ma le amo. Evidentemente, oltre che a me, piacciono anche a molti altri”, scrive lo scrittore.
Il lascito di Arcangelo è una eredità complessa ma ricca. Fatta di immagini ma anche di un tessuto coerente, che non ammette seguiti, costruita come un buon film di avventura con la densità visiva dell’immaginario di Gibson rivisto in chiave XXI secolo. O perlomeno, quello che possiamo fantasticare sia l’immaginario di William Gibson, perché accanto alla magia delle parole – e di parole ce ne sono molte, con balloon gravidi di piccole formichine, astine e cerchietti neri – c’è il colore, la forma e soprattutto il tratto dei disegni di una mezza dozzina di artisti che hanno lavorato per mesi alla realizzazione di questa miniserie. Un lavoro che, a dirla tutta, mi è davvero piaciuto.