Nel 1992, Lewis Trondheim e altri autori de L’Association – l’editore indipendente che ha lanciato la new wave del fumetto franco-belga – creano l’OuBaPo, l’Opificio di Fumetto Potenziale. Il progetto, ispirato all’Opificio di Letteratura Potenziale (OuLiPo) fondato da Raymond Queneau e François Le Lionnais, vuole esplorare i limiti del linguaggio fumettistico, rivoltare tutte le pietre che non sono state toccate per vedere se sotto alla ghiaia del mezzo artistico ci sia qualche nuovo reperto da portare alla luce.
È proprio nell’ossimoro del “nuovo reperto” che Trondheim crea No, no, no, un fumetto senza parole tenuto in piedi da una pantomima essenziale ma fragorosa: un tratto è sufficiente per cambiare l’umore di un personaggio o il senso della vignetta e la matita di Trondheim è una tromba squillante che si sposta nello spazio – guardate i salti e i movimenti che fa compiere ai personaggi – per poter colpire la nota che gli interessa e raggiungere il massimo effetto comico. Il Nostro guarda alle possibilità dell’epoca coeva – o quella coeva all’autore, che realizza quest’opera nel 1997 – ma anche al passato.
Pochi anni più tardi Lewis avrebbe disegnato un fumetto per l’antologia Jeux d’Influences raccontando come si avvicinò alla bande dessinee. Indicherà Matt Konture e il suo lavoro pubblicato su Le Lynx come la scintilla che accese la sua passione. Konture riempiva la pagina con un segno brutto, diceva, ma questo non gli impediva di avere cose interessanti da dire. Quell’epifania è la stessa che regge No, no, no. Da una parte la scomodità consapevole della scena underground, dall’altra le letture d’infanzia come Polly and Her Pals e i fumetti del primo Novecento, canonici e regolari.
Non la ricerca astratta che farà ne La nuova pornografia ma nondimeno un esercizio di stile su parametri classici che l’autore rimodella secondo le proprie esigenze. Trondheim si crea un perimetro di gioco limitato (sei vignette, niente suoni, niente sfondi, niente colori) e in quello spazio ristretto tenta tutte le variazioni possibili. Un cerchietto per raffigurare la bocca, e un segno di penna e due ondine sono quanto bastano per far capire la reticenza del protagonista, impegnato per tutta la storia a dire “no”, a non accettare la narrazione che gli viene imposta. Ma il suo “no” è un gesto vuoto, privato di senso da quante volte è stato ripetuto, perché non sortisce alcun effetto e il Nostro omino a forma di patata non fa che subire dalla madre, dagli amici, dai colleghi, dalla moglie e dai figli, perfino dalla morte.
Mettendo su carta le scene come pose chiave di un’animazione, a ogni pagina racconta la stessa gag, ossia quella di un diniego inascoltato che porta a situazioni sempre più catastrofiche, in una escalation che ammonticchia considerazioni ciniche e desolanti. Il finale è perentorio ma la vicenda potrebbe continuare all’infinito, collezionando improvvisazioni di sorta. In questa sede, gli scopi dell’OuBaPo si sovrappongono perfettamente a quelli che furono dell’’OuLiPo di Queneau, sviscerare un gesto minimo e piccolissimo in tutte le sue variazioni concepibili.
*Questo articolo appare come introduzione al volume No, no, no, di Lewis Trondheim, pubblicato da Proglo Edizioni in uscita a Lucca Comics 2017.