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Secret Empire, un mega-evento come tutti gli altri

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Le cose erano iniziate nel migliore dei modi possibili. Luglio 2016, nel primo numero della neonata Captain America: Steve Rogers, il protagonista si svelava come agente infiltrato al soldo dell’Hydra. Quel colpo di scena era sceneggiato da Nick Spencer, non un genio ma comunque una penna arguta e briosa. Uno scrittore capace di muoversi bene in tutti gli ambiti – da serie creator owned come Morning Glories a seconde linee della Marvel come Ant-Man – portatore sano di una personalità eccentrica quel che basta per non riuscire mai ad abbassarsi a livello di mestierante.

Alle matite eravamo messi un pochino peggio. Jesus Saiz è una specie di incrocio tra Frank Cho e Jamie McKelvie, senza la spudoratezza del primo e lo stile del secondo. In poche parole il disegnatore perfetto, nel senso più conservatore del termine, per una serie supereroistica. Il suo è un tratto pulitissimo, con tutte le anatomie perfette e non un guizzo a disturbare una messa in scena plastica e sempre clinica nella sua esposizione. Una scelta facile, facile insomma. Una delle soluzioni preferite della Marvel per rinchiudere il fumetto nel suo consueto recinto debitamente ripulito da ogni sorpresa e al contempo non togliere nemmeno un briciolo di luce al nome dello sceneggiatore messo in copertina.

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Già a questo punto avrei dovuto incominciare ad avvertire vibrazioni negative. Peccato che il presupposto su cui si basava tutta la storia era uno di quelli davvero ghiotti. La mia illusione era quasi patetica nel suo candore. Speravo che lo sceneggiatore, scartabellando in anni di storie passate, avesse trovato un cono d’ombra dove insinuare il dubbio che la sua trovata a effetto fosse in realtà la conclusione di una trama portata avanti in maniera inconsapevole per centinaia di numeri. Quando a metà anni Ottanta Frank Miller e Alan Moore decisero di svelarci come i nostri eroi fossero in realtà violenti e sociopatici non dovettero inventare nulla. Bastava rileggersi tutto quello pubblicato fino a quel momento e cambiare la prospettiva d’osservazione.

In cinquant’anni di storie Batman sarà ben riuscito a vendicare i suoi genitori, eppure non mi pare gli sia mai passata la voglia di menare dei criminali. A essere precisi è abilissimo a catturarli, ma non così attento quando si tratta di neutralizzarli in maniera definitiva (anche in maniera non violenta, tipo mettendoli in una prigione dalla quale evadere non è la prassi). Non è che forse è lui il primo a voler frantumare qualche naso vestito da pipistrello? Alla stessa maniera Daredevil non potrebbe fare a meno di sentirsi in colpa dopo essere uscito per l’ennesima notte a spaccare femori e tibie? Quello che mi aspettavo da uno scrittore dissacrante come Spencer era una rilettura in chiave meno psicanalitica e più da spy-story di un mito dei fumetti statunitensi. Alla fine tutto si sarebbe rimesso a posto – ovviamente –, ma almeno nel mezzo ci saremmo divertiti a unire i puntini e a perderci in un meccanismo a orologeria perfetto per forza di cose (certe storie funzionano solo così).

E invece non è andata così. Capitan America tutto a un tratto è diventato cattivo perché il Cubo Cosmico, sotto forma di bambina raggirata dal Teschio Rosso, ha alterato i ricordi e la percezione della realtà del Vendicatore, convincendolo di essere da sempre una spia sotto copertura. Tutta la raffinata costruzione che mi ero immaginato era crollata nel giro di un pugno di pagine. L’obiettivo della sceneggiatura di Spencer non era più il narrare come Steve Rogers fosse passato da uno schieramento all’altro, ma il semplice racconto del fattaccio nella maniera più eclatante possibile. Tutta la storia del Cubo Cosmico non era altro che un enorme, scorrettissimo e male interpretato MacGuffin.

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Per capirci meglio: immaginate di aver ereditato una vecchia casa di campagna. Pensando di ristrutturarla nel migliore dei modi possibili la affidate a un abile architetto, con l’esplicita richiesta di integrare inserti moderni in un contesto dotato di storia e di carisma. Volete quei panorami e quell’atmosfera, ma anche i comfort della vita moderna non vi fanno proprio schifo. Passano i giorni e montano le aspettative. Finalmente arriva il momento di svelare il risultato finale. Come avrà fatto l’abile designer a unire spunti così diversi? Non vedete l’ora di scoprirlo e di incominciare a vivere la vostra nuova vita tra le mura della dimora. Peccato che il progettista abbia pensato bene di radere tutto al suolo e di piazzare sulle macerie un bel prefabbricato. Il punto non era forse quello di vivere in una casa confortevole posizionata in quel preciso appezzamento di terreno? E allora cosa importa se ci siamo arrivati nella maniera più semplice e banale possibile? Non fossilizziamoci sui particolari! Quello che conta davvero è che abbiate un tetto sulla testa, il wi-fi ad alta velocità e che Steve Rogers sia cattivo. Tutto il resto sono solo svolazzi gratuiti.

Da un presupposto simile immaginatevi con che spirito sono arrivato al maxievento Secret Empire. Praticamente siamo andati incontro a un enorme What If di quasi 400 pagine, gratuito fin dalla partenza come si conviene a questo tipo di trovate e senza quel motore narrativo che ne giustificasse una durata così importante. Un po’ come quando si prende l’idea per un corto e si cerca di trarne un film completo. Se da una parte basta una scusa qualsiasi per mantenere viva l’attenzione dello spettatore per qualche minuto, dall’altra parte occorre che il concept iniziale abbia la profondità necessaria per fungere da fondamento a tutta l’architettura narrativa in arrivo da lì a breve. E non si può sempre giocare il gettone de “il punto era un altro, questo era solo un pretesto” perché non è detto che questo famoso “altro” mi possa interessare più dei presupposti di partenza. «Quello che vedi è quello che vedi», diceva già nel 1966 il pittore Frank Stella, quindi se vogliamo un buona storia incominciamo a scriverla bene fin dalla prima riga.

Va detto che Spencer ha fatto di tutto per salvare il salvabile e spesso ha sfiorato il miracolo. L’intenzione di voler parlare del presente è stata palpabile, e l’energia con cui lo scrittore si è schierato contro i mali del nostro tempo – populismo e culto dell’uomo forte – è stata davvero notevole. Sempre che non ci si metta a riflettere su quanto i moti progressisti di un dipendente della Disney possano essere farina del suo sacco e non imposizioni di marketing. A conti fatti non si è ancora capito cosa paghi di più, se fomentare nerd ultraconservatori o adulare millenial con velleità progressiste. Nonostante tutto rimane sempre cosa gradita vedere le tensioni della propria realtà inserite in maniera organica in un contesto fantastico.

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Così, in Secret Empire, si è finiti a parlare di conflitti fra generazioni, delle speranze di quelle più giovani e degli errori di quelle passate. Dello sfuggire alle soluzioni più semplici e della forza che occorre per portare avanti, in un momento storico definibile come di transizione perpetua, ideali nati in contesti ben diversi. Coraggioso come Spencer abbia scelto di sfruttare spesso una prosa molto epica ed enfatica, fregandosene di come in questi anni il moto più diffuso sia quello di trasformare ogni forma di pretesa in merda. Tutto deve essere sbeffeggiato, irriso, ridotto a un gioco. Figurarsi quano si tratta di mettere in scena una battaglia di ideali.

Lo sceneggiatore ha tentato in più riprese di dare un afflato rapsodico a una vicenda la cui inconsistenza è a tratti allarmante (davvero, non è possibile riassumerne la trama, non perché siamo in zona Fury Road o Dunkirk, ma proprio perché non sussiste), peccato che tra i suoi lavori più apprezzati ci sia il poliziesco sopra le righe The Fix e una serie sui nemici più sgangherati dell’Uomo Ragno. Serie godibili e molto divertenti, ma che non definirei proprio come solenni. Il risultato è dignitoso, intervallato di tanto in tanto da fugaci siparietti brillanti che mettono il luce il vero talento di Spencer, ma l’èpos della nostra generazione non passa di certo da pagine e pagine dove tizi in costume si menano mentre una pioggia di didascalie su speranza e la forza di non arrendersi riempie le pagine.

Senza contare che il giochino fatto con Capitan America – ovvero svolte narrative che succedono perché devono succedere, senza un reale percorso che le giustifichi – si ripete spesso nell’arco dei dieci numeri della serie. Tutta la sceneggiatura appare come studiata per colpire costantemente l’emotività del lettore, dimenticandosi di tutto il resto. Quello a cui assistiamo è un susseguirsi di disastri e di improvvise risurrezioni basato su giustificazioni sempre più labili, come se l’importante fosse solo arrivare allo stomaco. Aspetto già di per sé piuttosto fastidioso e che vede uno sceneggiatore solitamente piuttosto preparato concedersi al feuilleton più banale. Scelta deleteria per tutto il discorso politico imbastito con tanto fervore. Inutile scagliarsi contro populismi e ipersemplificazioni della realtà se per farlo sfruttiamo mezzi altrettanto bassi. Ci si mette praticamente allo stesso livello e tutto viene vanificato. Escludere ogni forma di ragionamento e puntare unicamente all’emotività è caratteristico della narrazione più popolare – e per una volta uso questo termine in senso non positivo –, storicamente veicolo di ideali non proprio progressisti o votati a un pensiero minimamente strutturato. Cose che succedono quando si parla solo alla pancia.

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Come al solito la selezione dei disegnatori dell’ennesimo megaevento Marvel è sempre improntata verso la soluzione più d’effetto – anche qui, come a livello di scrittura, vige la regola della gratificazione immediata –, sebbene in questo caso si sia scelta una via un filo più complicata del solito. Per l’occasione è stato messo in piedi un intero team di disegnatori – Rod Reis, Andrea Sorrentino, Leinil Yu, Daniel Acuna, più l’immancabile Steve McNiven e qualche extra qua e là – improntati a rendere il mondo di Secret Empire il più cupo e aggressivo possibile. Va detto che per la maggior parte delle pagine la cosa funziona alla grande, con un universo narrativo spesso sprofondato in tratti neri e nervosi.

Peccato che come al solito, in questo tipo di iniziative, tutto sia stato mitigato da spinte ultraconservatrici. Abbiamo quindi un sacco di buone idee buttate sul banco, tanto che a tratti si è rischiato davvero di avere tra le mani un’opera basata su di una linea creativa ben precisa e non sulle ricerche di mercato. Ma poi, tanto per chiarire come vanno davvero le cose, il primo e l’ultimo numero sono stati comunque assegnati a McNiven. Che sarà sicuramente un disegnatore tecnicamente ineccepibile, ma da Civil War in poi pare più che altro una sorta di canonizzatore dell’Universo Marvel. L’unico che è riuscito a portare avanti la sua poetica in maniera coerente e funzionale è stato Sorrentino, che a questo punto forse si sarebbe meritato molto più spazio. Al di là del suo utilizzo degli inchiostri, lividi e cupi quanto le atmosfere di Secret Empire meritavano, il disegnatore italiano è risultato l’unico ad aver sfruttato il layout delle pagine e la costruzione delle vignette per veicolare l’urgenza o l’impatto di certi passaggi. Certo, a volte è risultato un poco eccessivo, ma sempre meglio tentare il passo più lungo della gamba che limitarsi a una sorta di storyboard molto dettagliato.

Prendiamo il settimo numero della serie, un autentico tour de force stilistico come non se ne vedevano da Occhio di Falco di David Aja. I colpi del Punitore vengono rinchiusi in singoli micro-riquadri all’interno di una composizione più grande, l’impatto di un colpo reso in tutta la sua crudezza con l’inserzione di una vignetta obliqua sovrapposta a quella principale, lo svenimento della Vedova Nera ripreso a “camera fissa”, i frammenti di scudo sparsi sulla pagina in piccole sezioni colorate a contrasto. Sono solo alcune delle tante idee disseminate dal disegnatore all’interno di un singolo numero. Tanto per farvi capire come si possa sfruttare il linguaggio per rendere la storia più viva, facendo al contempo ricerca in un contesto di evasione. Certo, ci sarebbe qualcosa da ridire su layout di pagina particolarmente pittoreschi o sulle vignettone a forma di ragno, ma sono pur sempre trovate che, nel loro eccesso spesso al limite del kitsch, riescono a strappare un sorriso di sorpresa.

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Una piccola nota personale poi vorrei spenderla per la coppia formata da Joshua Cassara e Rachelle Rosenberg, le mie personali rivelazioni di tutta l’iniziativa. Studiando i loro vecchi lavori mai mi sarei immaginato un simile scarto qualitativo in un arco di tempo così breve. Immaginatevi la stilizzazione di John Romita Jr. in chiave teen-drama e non sarete troppo lontani dal lavoro di queste due ragazze. Meglio ancora, cercate di visualizzare il contrario di quello che le copertine di Mark Brooks – già fuori tempo massimo di loro, ma ammazzate in maniera definitiva da scelte di grafica disastrose – promettono e sarete vicini a farvi un’idea del potenziale di questi due ragazzi. Non a caso a loro è stata affidata la storyline dedicata alle nuove leve dell’universo Marvel, e non mi stupirei se ora venissero dirottati in pianta stabile su qualche altra serie giovanile. A patto di farli lavorare insieme però, visto come i colori intensi di uno vanno a valorizzare i tratti così cupi e pastosi dell’altra e viceversa.

A conti fatti, Secrete Empire è stato un mega-evento come tutti gli altri: abbiamo avuto lo scrittore del momento a vestire i panni dell’agnello sacrificale pagato per dare una forma spendibile a un’idea nata solo per rimbalzare sui social, una serie di scenette gratuite atte a far fare capolino a tutti i principali personaggi della casa editrice, un sacco di tie-in che avranno letto in pochi, grandi disegni e un cataclismatico cambio dello status quo che durerà fino al prossimo teaser. Nessuno si aspettava di più e abbassare ulteriormente le aspettative era dura. Tutti i disegnatori coinvolti ne sono usciti in maniera pulita e le colpe sono ricadute giustamente sulla dirigenza Marvel. La cui confusione generale pare ormai una costante, tra il bisogno impellente di attirare l’attenzione con qualche trovata bislacca e quello di rincorrere a ogni costo la ben più redditizia controparte cinematografica.

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