HomeFocusOpinioniLa sbornia editoriale del graphic journalism, e la sfida della libraria

La sbornia editoriale del graphic journalism, e la sfida della libraria

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Incontrare “giornalismo a fumetti”, o graphic journalism, è diventato sempre più facile. Sulla stampa o sul web, negli USA o in Francia, su media tradizionalisti o avanzati, in testate elitarie o popolari. E l’Italia è perfettamente allineata: anche dalle nostre parti non si tratta più di un linguaggio “speciale” per riviste di nicchia alla Animals o per newsmagazine cosmopoliti come Internazionale. Si può trovare sui generalisti Corriere, Repubblica, Stampa, Sole24Ore – perlopiù nei supplementi culturali, ma non solo – come sulla stampa di approfondimento (pagina99, EastWest, …) e persino, talvolta, sulle pagine di testate femminili o di lifestyle maschili, di periodici specializzati in intrattenimento ma anche in viaggi, tempo libero e frivolezze varie. Una sbornia felice, sul piano della quantità e della varietà.

In un momento di sobrietà viene però da sottolineare quel che spesso accade con le cicliche inondazioni nell’industria culturale – mode, tendenze, ‘fenomeni’… – e che cioè il rischio che l’abbondanza nasconde è grande, e si chiama dispersione e, in definitiva, oblio. Che ai miei occhi significa, per questo momento e per questo segmento, due problemi precisi:

1) se “tutti possono fare graphic journalism”, come distinguere non solo le prove eccellenti ma le grandi vocazioni e i professionisti più rigorosi?

2) se “il graphic journalism è dappertutto”, come possono autori e lettori ‘trovarsi’ in luoghi e direzioni unitarie, nella forma di libri di riferimento che siano aggregazione e chiariscano qualche rotta, per navigare senza affogare nell’inondazione editoriale (e magari prepararsi al dopo-sbornia)?

Dopo avere letto un libro come Fedele alla linea. Il mondo raccontato dal graphic journalism, di Gianluca Costantini (Becco Giallo), penso che finalmente si possa dire: una risposta la abbiamo. Ed è anche convincente.

fedeli linea costantini graphic journalism

Un libro da giornalista per ricomporre un percorso da artista

Il libro è una raccolta di fumetti realizzati dall’autore nel corso di una dozzina di anni, il cui filo rosso risiede nella loro natura di interventi giornalistici (o quasi, come vedremo). La funzione di ‘raccolta’, in questo caso, è particolarmente preziosa ed offre una delle risposte ai problemi che sollevavo: il volume riesce a riaggregare materiali dispersi in oltre un decennio tra i luoghi editoriali più distanti, alcuni invisibili o fugaci, restituendo l’estensione – e intensione – del lavoro di Costantini come graphic journalist. Un libro che fa dunque “il mestiere di un libro” – testimoniare percorsi, dare solidità a idee, consolidare lavori – ma in un campo che vive di una fragilità intrinseca più problematica di altri: la natura effimera del giornalismo periodico, per il graphic journalism, è aggravata dall’assenza di un’offerta di media periodici specifici e “stabili”.

Certo negli USA c’è il sito The Nib, in Francia c’è La Revue Dessinée, in Italia c’è Graphic-News.com, ma la loro rilevanza sociale e influenza professionale è limitata, e destinata a rimanere tale a lungo. Il valore di questa raccolta sta allora nel fatto che non insiste sul mettere insieme i pezzi secondo la chiave, indulgente, di una “retrospettiva antologica” quanto, più intelligentemente, di ricongiungere i frammenti di un discorso. Quello di Costantini, appunto.

E proprio sul piano della argomentazione di questo discorso giornalistico – cosa ha fatto? In quale contesto? Con quali motivi o committenze? E perché? – il libro di Costantini fornisce un altro elemento per rispondere agli interrogativi che ponevo sopra. Facciamola semplice: se la condizione occasionale, evenemenziale, effimera del “giornalismo a fumetti” sui periodici (non specifici, ricordiamolo) non consente al graphic journalism di esprimere identità forti o firme distintive (inciso: lo Zerocalcare post-Kobane lo è, ma fa un po’ scuola a sé), allora un libro non può permettersi solo di ‘raccogliere’.

Per dare conto di una direzione – il percorso di un autore, in primis – un libro di questo ‘genere’ deve anche ricostruire e motivare, presentare le ragioni e gli obiettivi. Il graphic journalism, insomma, è un linguaggio autoesplicativo solo nel momento e nel contesto editoriale in cui interviene, mentre nel suo passaggio a una edizione libraria ha bisogno di mettere in scena la cornice in cui si è sviluppato l’intervento.

Ecco qua l’altro merito del libro di Costantini: ciascun fumetto è introdotto da una pagina-cornice, con un testo – firmato da Elettra Stamboulis, partner e co-autrice di numerose opere – che riesce a ricomporre il filo rosso di un discorso giornalistico lungo 12 anni. Di più, i testi di Stamboulis riescono ad allargare la visione al dopo-notizia, a motivazioni ideali o intellettuali più profonde, e contribuiscono a dare corpo alla dimensione narrativa – non solo giornalistica – che rende questi fumetti interessanti al di là della loro origine evenemenziale. Bastino due esempi:

Questa micro storia in realtà racconta anche qualcos’altro: che un paese come gli Stati Uniti, proprio nel momento in cui il governo tradì la buona fede dell’elettorato, ha accolto e dato opportunità a dissidenti come Antliff. [dall’introduzione a Quei maledetti che bruciano le bandiere, 2006]

Atene rimane il luogo della possibilità della parola, del logos inteso come possibilità del pensiero. E quando il viaggiatore in cerca del logos incontra lo spazio occupato dal cemento dell’abusivismo degli anni dei palazzinari, rimane sicuramente turbato. [dall’introduzione a Cartolina da Atene, 2008]

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Il fumetto come giornalismo esorbitante

Nella sentita Prefazione, il condirettore di Pagina99 Luigi Spinola sottolinea bene il ruolo e la forza del graphic journalism, rappresentato dal lavoro di Costantini, mettendo sul tavolo anche i propri pregiudizi:

Nel graphic journalist Gianluca Costantini insomma m’invaghii del graphic trascurando il giornalista, perpetuando cosi involontariamente i pregiudizi della mia disgraziata professione. Poi arrivarono le prime tavole. E subito, la qualità del lavoro giornalistico di Costantini impose di piazzare la sua “doppia” nel primissimo sfoglio, quello riservato alle storie più calde e agganciate all’attualità, e non nelle pagine dedicate alla cultura e alle arti, retrovia preziosa ma più posata del giornale.

La capacità del giornalismo disegnato di imporsi sulle parole, va detto, è un effetto inevitabile della riscoperta del fumetto nell’ambiente post-digitale dell’informazione – visual journalism, data journalism, infografica – ma anche una qualità specifica del fumetto, puntualmente ricordata da Daniele Barbieri in Postfazione: «il disegno, basato sulla linea, inevitabilmente seleziona e semplifica, e nel farlo deve scegliere, e la scelta e comunque politica». Costantini però vi aggiunge, di suo, una competenza da autentico desk journalist che, seppure raramente sul campo come un reporter, sa cercare, consultare e verificare le fonti, e sa farle parlare secondo la propria visione del giornalismo: un mestiere da attivista, che deve rivelare più che spiegare, collegare più che presentare, sollecitare l’importanza – per lo più politica – di assumere un punto di vista.

Non di solo graphic journalism, però, si nutre in realtà questo libro.

Costantini rimane pur sempre (anche) un formalista o, meglio, un disegnatore che sta in bilico tra il figurativo e l’astratto e che talvolta si abbandona a ricerche fortemente – puramente? – estetiche. La bellezza di una delle numerose tecniche che attraversano questo libro, la fotografia ipermanipolata (ritagliata, ripassata, incollata, graffiata, colorata) digitalmente, non è necessaria per compiere gli obiettivi giornalistici ‘puri’ di lavori come La storia di Cheikh Mansour.

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Eppure questo sovraccarico stilistico diventa anche una risorsa straordinaria, perché sovrappone l’espressività esorbitante (enfatica, se volete) del disegno al discorso giornalistico, in qualche modo affermando – quasi aggressivamente – la superiorità dello sguardo artistico su quello testimoniale. Un paradosso che a ben vedere, chi più chi meno, attraversa tutti i migliori graphic journalist, Joe Sacco incluso: lo stile grafico aggiunge e persino toglie, “distraendo” lo sguardo, dai “fatti”. Il ragionamento vale anche per lo stile lineare che Costantini usa in molti altri interventi giornalistici, agli antipodi di quella barocca “oreficeria disegnata” praticata con La storia di Cheikh Mansour o Cartolina da Balbeek. Lo spazio lasciato sgombro dalle linee, quel bianco della pagina o dello schermo, è spesso quasi un eccesso di vuoto che fa stagliare ogni dettaglio dall’abituale densità grafica dei supporti giornalistici canonici: lo sguardo si perde e/o si ferma, facendo un lavoro molto diverso, più meditativo, rispetto alla abituale prassi di lettura dell’informazione.

Con il lavoro di Costantini, dunque, non siamo di fronte a una questione che sta solo sul piano della distinzione tra news versus views, ma anche di quella tra linguaggi: giornalismo versus arte. Che questi due linguaggi o forme possano trovare un equilibrio non era e non sarà mai scontato, data la loro enorme distanza ideale, pedagogica, funzionale. Certamente, però, sarà più interessante seguire chi come Costantini la mette in gioco, rispetto a certi graphic journalist piattamente figurativi, eredi di un naturalismo – e, forse, di un giornalismo – più vicino al primo Novecento che al Ventunesimo secolo.

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