Le biografie sono difficili. Non quelle librarie, ma quelle in tutte le altre forme sì. Un film o un fumetto devono disegnare un profilo soddisfacente nello spazio compresso di due ore o di un paio di centinaio di pagine ed è un problema che i più risolvono affastellando dati e nozioni, in quelli che lo sceneggiatore Aaron Sorkin definisce i racconti “dalla culla alla tomba”, perché pretendono di stipare una vita in un unico gesto, dandogli una forma distorta, o analizzando un singolo momento – di crisi, di successo, di atipicità – che funga da chiave di volta di tutta un’esistenza.
Ovviamente, il “come” si racconta influisce moltissimo sulla percezione del “cosa”. Penso, per fare un esempio puntuale, a due prodotti recenti che hanno rappresentato John Kennedy e la moglie Jackie. Da una parte il fumetto della collana Ils ont fait l’Historie, dall’altra il biopic Jackie del cileno Pablo Larrain, entrambi per altro introdotti dalla storia-cornice del giornalista che intervista un membro della famiglia per cercare un’interpretazione forte dei fatti.
Il primo era, per impostazione, un testo omnicomprensivo e dagli intenti scolastici, che non forniva prospettive inedite del personaggio ma serviva a tracciare un percorso diretto tra lettore e soggetto. Il secondo era un lavoro impressionistico, per quanto fallace, che prendeva un piccolo momento di una vita (la preparazione dei funerali di JFK), ci aggiungeva immagini di repertorio, a volte di repertorio ricostruito, e attraverso quello tentava di rileggere un qualcosa di più grande. Il risultato era un ritratto atipico di Jackie O, di come la vicinanza alla politica avesse influenzato la sua visione del mondo (secondo la lettura di Larrain, dopo la morte del marito, una delle cose che più le interessò fu la conservazione del prestigio monarchico dei Kennedy e la percezione del potere da parte del popolo). Dei due, quest’ultimo è un lavoro più interessante ma rischia di lasciare fuori i fruitori meno documentati sull’argomento.
Leggi le prime pagine di Luigi Meneghello, apprendista italiano
Meneghello, apprendista italiano di Eliana Albertini, edito da BeccoGiallo, indaga la figura dello scrittore veneto Luigi Meneghello attraverso squarci della sua vita (l’infanzia, la guerra, l’incontro con Antonio Giuriolo, l’arrivo a Reading, il rapporto con la moglie), mischiati a passaggi del suoi testi. È una scelta che sta a metà strada tra le due appena descritte e che guarda a una concezione moderna di quello che vuol dire raccontare una personalità. Già dal sottotitolo si capisce che le scelte convenzionali non interessano in questa sede. “Apprendista” potrebbe non sembrare la definizione più immediata per descriverlo, eppure è una parola che torna spesso nella carriera di Meneghello. È quella che dà il nome alla sua ultima lectio magistralis, tenuta all’Università di Palermo il 20 giugno 2007, pochi giorni prima della morte, ed è con quell’appellativo, “apprendisti di mezzo-lusso”, che il regime fascista lo fa assumere in un giornale, in qualità di vincitore dei Littorali, nel 1940.
Ecco, Meneghello non offre uno sguardo inedito del personaggio e forse corre il rischio di non fornire ai neofiti dello scrittore elementi sufficienti per decodificarlo, ma nemmeno si vuole porre come Bignami a uso e consumo di scolari pigri. La sua forza sta nell’essere un lavoro che ti fa capire Meneghello non attraverso un inanellamento di fatti, ma tramite luoghi (fisici e non) della sua poetica. Cerca di dire cose note in modi altri. Di sicuro è più vicino al documentario che alla fiction per la ricerca attenta dei particolari (il nomignolo Gigi, la proposta di matrimonio a Katia, rappresentata nel fumetto come l’ha raccontata Meneghello nei suoi scritti) ed è una modalità adeguata a raccontare un autore che ha fatto della narrativa autoriflessiva uno dei pilastri della propria poetica. Anche solo dai titoli dei suoi romanzi (Piccoli maestri, Libera nos a Malo) si percepisce in trasparenza la materia d’interesse: il confronto tra realtà apparentemente distanti, il divertimento per la lingua, la lettura del reale attraverso le piccole esperienze quotidiane. E poi il continuo muoversi tra il grande e il piccolo (i temi privati e familiari, l’autobiografia, la Storia), tra il dentro (il veneto, in particolare il borgo natio, Malo) e il fuori (l’Inghilterra), l’estraneo e il conosciuto, che Albertini rielabora mantenendo il distico visivo (la doppia targa delle vie cittadine, il vecchio e il nuovo, il timpano degli edifici e il motore dell’aria condizionata) e facendo dialogare luoghi e personaggi, mettendoli al centro della scena o eliminandoli del tutto. Attraverso i campi lunghi delle città, la fumettista ricrea un mondo, etereo e spoglio. Lo avvolge in una luce chiara e albeggiante che cambia di temperatura: con il passare delle pagine, i toni cerulei lasciano spazio al colore caldo dei mattoni. Sono ambienti che ci paiono imperscrutabili ma che hanno trasmesso, per un osmosi, un’aria compassata ai personaggi che ci vivevano. Gente che vive in questi luoghi, sembra dirci il fumetto, non può che emergerne così. Di contro, l’abuso di inquadrature totali tradisce in parte il retroterra illustrativo di Albertini, che procede per immagini e non per sequenze. E questo aiuta il senso di staticità di chi parlavo prima, ma lascia anche in bocca il gusto di disegni commentati, più che di fumetti.
Dalla calligrafia dei titoli in rilievo al movimento incessante della matita, che restituisce una sensazione materica sulla pagina, ogni cosa è tesa a rievocare la concretezza e la pragmaticità dello stile di Meneghello. A tal proposito, L’apprendista italiano non si tira indietro di fronte all’uso del dialetto, sfruttato nella prima parte per marcare la fase dell’infanzia (che viene a sua volta legata a quella della guerra con l’immagine di ritorno dai campi – di gioco e di battaglia – da parte di due compagni) proprio come Meneghello faceva nei suoi romanzi.
Per l’autore, il dialetto non era strumento di analisi o critica, come poteva essere in Gadda, ma inevitabile passaggio per esprimere concetti altrimenti indicibili (l’esempio, nel fumetto, è il “pissin” che scappa agli scolari). Nell’età adulta, il parlato locale gli sarà di nuovo utile per inquadrare il trapianto operato dall’Italia all’Inghilterra.
“Trapianto” è la parola cardine, l’ennesima che torna a definire un aspetto della sua professione. Mutuato dall’agraria, il termine compare più volte nei suoi lavori, prima per indicare il suo trasferimento in terra inglese (a Reading, dove tiene a battesimo la cattedra di letteratura italiana) e poi la serie di traduzioni in vicentino di opere anglosassoni (soprattutto la poesia, verso cui aveva una passione particolare), dal canto di Ariel tratto da La tempesta a This Be The Verse di Philip Larkin, in cui rilegge l’attacco «They fuck you, your mum and dad» in un altrettanto cadenzato «I te ciava, to mama e to popà». La traduzione era qualcosa che, nella mente di Meneghello, andava oltre il semplice esercizio di stile: certi luoghi di un testo in una lingua gli restavano oscuri perché hanno forme e angoli che non riusciva a indagare, la lingua d’arrivo celava delle cose, è vero, ma allo stesso tempo ne svelava altre.
Le esperienze di Meneghello, scritte, conversate in lungo e in largo, in una vita che è stata per metà pienissima di parole, ora si trovano trapiantate in immagini. Come la lingua, la letteratura ha celato delle cose che ora il fumetto riesce a indagare, l’isolamento delle figure, il vuoto, le architetture umane e naturali costellanti l’opera.
Luigi Meneghello. Apprendista italiano
di Eliana Albertini
Becco Giallo Editore
187 pagine, b&n
21,00 €