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Intervista a Max Capa, padre del fumetto underground italiano

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La prima cosa che ho fatto, subito dopo aver concordato l’appuntamento per intervistare Max Capa al Leoncavallo di Milano, è stata riaprire un piccolo volume che non sfogliavo da tempo: il Manuale del piccolo provocatore (Edizioni Ottaviano, 1976), nella cui introduzione sono scritte queste parole:

«L’editore, pur non concordando con tutte le scelte degli autori, propone ai lettori questo Manuale nella speranza, se non altro, che esso contribuisca a distogliere la sinistra dalla semisecolare tentazione di essere una brutta copia della destra».

Non capita spesso di trovare un editore che si dissoci – anche se parzialmente – da un libro che ha appena pubblicato. E per ragioni politiche, oltretutto. Nella storia personale di Max Capa, l’episodio rientra tranquillamente nella norma. La raccolta in questione contiene alcune storie a fumetti realizzate dal circolo di artisti che il giovane autore aveva radunato intorno alla sua fanzine Puzz, una delle prime riviste alternative in Italia. Quando il fumetto e la contestazione politica si muovevano pericolosamente in sincronia.

Incontro Max Capa a distanza di oltre 40 anni dall’uscita del Manuale. L’intervista si svolge in occasione della seconda edizione del Festival AFA (Autoproduzioni Fichissime Anderground), durante il quale una moltitudine di microrealtà editoriali si riunisce per tre giorni nel più celebre centro sociale italiano.

Quando entro nella sala che ospita la fiera, il clima è allegro e rilassato. Ivan Hurricane (co-organizzatore dell’evento e collaboratore di linus, Ndr), corre da una parte all’altra parlando contemporaneamente con un numero incalcolabile di persone. Con poche falcate mi porta a salutare gli ospiti d’onore Matteo Guarnaccia e Vincenzo Sparagna, fino alla sala dove ci aspetta il sig. Nino Armando Ceretti, in arte Max Capa.

Classe 1944, il padre del fumetto underground italiano si aggira all’interno della sala che ospita i suoi disegni gustando la pipa. Parla sottovoce, quasi timidamente, con gli amici che lo circondano. Mi dicono che non esce quasi mai dallo spazio dell’esposizione. So che non ama le interviste e che probabilmente non si fida dei giornalisti (giustamente). Per fortuna io, che mi presento insieme a un cameraman e un piccolo microfono, ho la mia arma segreta: appena dopo avergli stretto la mano, gli porgo il volumetto ingiallito che ho portato da casa. Lo sfoglia con un misto di soddisfazione e nostalgia. Ci sediamo in un angolo, uno di fronte all’altro. Un piccolo gruppo di persone ci ascolta a qualche metro di distanza per non disturbare. Iniziamo.

Quando ha cominciato a realizzare fumetti, signor Max Capa?

Mmm…sarà stato intorno al 1967. Avevo 22 anni. Ciò che mi ha fatto interessare ai fumetti è stata l’apparizione di linus (il cui primo numero esce nell’Aprile 1965 – ndr). E forse anche di un altro giornale, Sgt Kirk mi pare (western a fumetti disegnato da Hugo Pratt e sceneggiato da Héctor Germán Oesterheld, Ndr)… beh, è stato lì che ho iniziato a pormi la questione del disegnare, disegnare fumetti, caricature, storie illustrate…. È quello che faccio ancora adesso. Sono fumetti che stanno in una sola pagina. Io li chiamo «Cartoon-Bedé». In italiano si potrebbe dire «Tavola-Fumetto». Come vedete anche qui, nella sala, le tavole sono uniche ma al loro interno è racchiusa una storia intera.

A cosa iniziò a lavorare nel 1967?

Saltiamo il ’67. Passiamo al ’69. Ero a Milano, avevo contattato Candido, un settimanale umoristico abbastanza fascistoide. Lì ho pubblicato i primi disegni. Ma dopo la strage di Piazza Fontana ruppi il rapporto, per ovvie ragioni. Allora lavoravo come guardiano di notte in un garage. Iniziai a disegnare vignette per Autosprint. Nel febbraio del ’70 esco di casa, compro la rivista e vedo sette dei miei disegni pubblicati. Ero finalmente diventato un autore professionista. Da quel momento ho iniziato a collaborare con Urania (la celebre collana di fantascienza, Ndr), La settimana Enigmistica, Humor e altri mensili. Poi, nel 1971, ebbe inizio la vicenda di Puzz.

Il celebre Puzz.

Oggi sono conosciuto per quello, ma è stata un’esperienza che ha rovinato la mia carriera di disegnatore.

Perché «rovinato»?

Perché dovetti tralasciare molte cose, che sarebbe stato meglio non tralasciare, per stare dietro a quel lavoro.

Come nacque il nome della rivista?

Humor (una rivista underground dell’epoca, Ndr) ci aveva chiesto di pensare a un magazine underground, pieno di cose strane e mai viste. Una sera, a cena con altri disegnatori, cercavamo un nome. A un certo punto uno si alza in piedi e urla: «Chiamiamolo Puzza!!». E io: «Non esageriamo. Chiamiamolo Puzz».

Che tipo di progetto avevate in mente?

Volevamo fare una cosa…non normale. Non volevamo replicare Tex Willer, ma fare qualcosa di nostro, di nuovo. L’idea arrivava certamente dal fumetto underground americano ma non c’era una vera e propria influenza diretta. Era il 1971 e già allora linus non mi piaceva più. Era diventato un mensile per studenti, snob, molto alla moda e un po’ troppo milanese. A linus preferivo una rivista come Eureka. All’epoca conobbi Oreste Del Buono, ci discussi e quasi litigai, anche se per questioni che oggi non hanno più alcuna importanza…

C’era una componente politica molto forte nei fumetti che realizzavate.

Sì, con Puzz ci avvicinammo alle tesi radicali dei comunisti, dei situazionisti e degli anarchici. Questo incontro influenzò moltissimo i nostri disegni e i fumetti.

Ha mai avuto guai con la giustizia?

Spesso, in quegli anni. Nel 1975 arrestarono 23 di noi dopo alcuni moti che si erano verificati a Milano, Firenze e Bologna. Eravamo accusati di avere lanciato cocktail molotov contro una chiesa e qualche sede di partito. Anche io sono stato in galera, ma non c’entravo nulla con tutta questa storia. Tentavano di farmi arrestare come capo della banda dei sovversivi, ma non ci sono mai riusciti.

Per voi fare fumetti era un atto rivoluzionario.

Certo. Erano fumetti underground ma avevano anche un livello di lettura sociale e politico. Spesso si accompagnavano a testi teorici e brevi saggi di stampo sovversivo. La critica radicale e la vita quotidiana si fondevano nei fumetti.

Nel 1977 le tensioni esplosero nuovamente.

Già, eheh… Decisi di chiudere Puzz. Creai Provocazione, ma chiuse subito. Fondai le Edizioni Iguana, con le quali lavorammo a diversi mensili. Facemmo un enorme lavoro sul Passator Cortese, che era un brigante romagnolo. Ma le cose poi andarono male, non si vendeva abbastanza…

E alla fine degli anni ’70 decise di lasciare l’Italia.

Sì. Mi trasferii a Parigi e smisi di fare fumetti. Avrei dovuto collaborare con Charlie (il mensile da cui poi nacque Charlie Hebdo, Ndr). Proposi alcune cose ma non funzionarono. Da allora ho smesso di fare fumetti per altri editori.

Ha iniziato a dipingere.

Esatto, iniziai a dipingere. E dipingo ancora adesso. Qui al Leoncavallo ho portato un’opera che si chiama Totem mobile. Lo porterò anche a Parigi per un’esposizione di miei quadri prevista per questo inverno.

Conosceva i fumettisti che sono stati uccisi nella strage di Parigi del gennaio 2015?

Sì, li conoscevo, li frequentavo. La notizia di quel massacro mi ha traumatizzato.

Crede che il fumetto abbia ancora un potenziale sovversivo? A giudicare da quello che è successo ai suoi colleghi di Charlie Hebdo parrebbe di sì.

No, non sono d’accordo. Loro si prendevano gioco terribilmente (sorride, Nda) degli islamisti. Ma non credo che il disegno satirico possa fare politica, oggi. Ormai anche la satira è complementare al gioco delle istituzioni. Certo, può essere orientata verso una certa direzione politica ma questo non vuol dire che abbia una reale importanza. Al contrario, negli anni ’70 i fumetti erano realmente radicali, politicizzati.

Legge fumetti oggi?

Pochissimi. Non leggo più satira, non m’interessa. E non leggo romanzi. A volte qualche libro di storia.

E invece il festival AFA le piace?

È la prima volta che vengo nel nuovo Leoncavallo (la sede del Leoncavallo attuale è occupata dal 1994 – ndr). Il festival mi piace… forse un po’ troppo grande per i miei gusti. Quello che mi ha colpito di più sono i graffiti sui muri. Bellissimi.

* Una trascrizione ridotta di questa intervista è pubblicata su Linus di luglio, ora in edicola.

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