Per fare il fumetto bisogna partire dal segno. Il segno è una metafora meravigliosa… noi siamo circondati da oggetti tangibili depositari di un segno o di una serie di segni, dallo studio di questa serie di segni nasce la matematica del segno e cioè il disegno. […] Ora, per me l’importante è non giocarmi una univocità che mi stancherebbe e che non conterrei a facilità. Posso, invece, contenere una serie di segni diversi… (Andrea Pazienza, da Paz, a cura di Vincenzo Mollica, Torino, Einaudi, 1997, p. 169).
Queste parole di Andrea Pazienza sono un ottimo punto di partenza per affrontare un autore come Milo Manara. Soprattutto per parlare di una delle sue opere più importanti, quel Giuseppe Bergman proposto da Panini 9L in una superba edizione integrale. Un’edizione che, raccogliendo un lavoro pubblicato tra i primi anni Settanta e gli anni Duemila, mostra tutta l’evoluzione – nella sua forza e nelle sue debolezze – di un “segno”.
Quanto affermato da Pazienza allude, in un certo qual modo, alla “moltitudine” che l’artista ha (o meglio, dovrebbe avere) in sé: una specie di ispirata schizofrenia che intrattiene rapporti plurimi tanto con il racconto (di volta in volta declinato per genere, ma al contempo personale e unico), quanto con le tecniche e gli strumenti.
Lo “sporcarsi” dell’artista, intraprendendo con la propria materia espressiva uno scontro quotidiano, è un esercizio continuo. Un gesto che può arrivare a una specie di ascesi o, più facilmente, alla maniera, alla reiterazione di una pratica. Perché prima di ogni altro concetto l’arte è una “presa”, intesa proprio nel senso del toccare con mano e del forgiare la materia dando ad essa forma: l’arte come formatività. Ecco, Manara è un maestro capace di rendere la carta oggetto di desiderio, ma con un gusto che spesso è eccentrico al gesto artistico, lambendo lo spazio del trompe l’oeil. E proprio qui sta l’inghippo.
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Milo Manara è, per forza di cose, un illusionista: suggerisce, ma non crea. Le sue donne non eccedono la pagina, possono vivere solo nella gabbia di carta allestita ad hoc per metterle in posa, perfette, anodine, quasi aliene nella loro fisicità priva di imperfezioni. I loro deretani marmorei hanno più peso dei loro volti, o forse valgono tanto quanto, entrambi prodotti in serie, marchio di fabbrica, onestissimo e furbo.
Da tutt’altra parte si trova, ad esempio, la carnalità – anch’essa poi scivolata nella maniera e nel voyeurismo – di un Eleuteri Serpieri, dove il corpo non è leziosamente posto in vetrina, ma contrapposto dialetticamente al disfacimento, alla corruzione, al nulla. Se in Manara il corpo resta tale come oggetto fisico, teatrale, motore immobile della sua esile poetica, in Serpieri (almeno sino a Mandragola) il corpo di Druuna è principalmente carne, resistenza, limite. Da un parte l’illusione del teatro delle maschere, dei pupi siciliani, dall’altra un teatro del sogno e della confusione.
Manara però, fumettista indubbiamente molteplice, non è sempre stato un autore di maniera, interessato non si sa per quale motivo a disegnare biografie di personaggi discutibili sul piano dell’interesse storico come Valentino Rossi (operazione questa, va detto, di cui ha egli stesso riconosciuto i limiti). Per un certo periodo Manara ha infatti incarnato una reale possibilità per il fumetto italiano: una possibilità, si faccia attenzione, non una realtà. E Giuseppe Bergman ce lo ricorda.
Giuseppe Bergman, il candido e innocuo protagonista delle vicende narrate da Manara, appare in Francia sulle pagine della rivista À Suivre agli inizi del 1978, dove viene serializzato il primo ciclo di avventure, intitolato HP e Giuseppe Bergman. Si nota subito la destinazione editoriale di quelle pagine dalla gabbia, in linea con il formato franco-belga, senza nascondere una evidente affezione per Moebius. Questione non solo di tratto, spesso affine a quello del maestro francese, ma anche di volontà di riflettere sul medium stesso. Bergman è a tutti gli effetti anche questo: un’opera che, lungo centinaia di pagine, offre una decostruzione del fumetto come macchina narratrice.
In estrema sintesi, Giuseppe Bergman parla di un ingenuo personaggio, simile al Candido di Voltaire, che si accinge a partire all’avventura su proposta di un produttore il cui unico, cinico scopo è quello di creare “intrattenimento perfetto”. Nel corso del suo viaggio rocambolesco, il nostro potrà contare sulla guida di un noto creatore di avventure, HP – doveroso e sentito omaggio a Hugo Pratt, maestro e insieme archetipo – e su fantomatiche risorse finanziarie.
Il nocciolo narrativo è scarno, un canovaccio su cui Manara astutamente divagherà per centinaia di pagine, gettando in situazioni al limite del surreale il malcapitato eroe, che altri non è che uno sprovveduto alter ego dell’artista stesso. Soprattutto, però, quel che Manara fa è prendere la grande tradizione romanzesca del romanzo esotico di avventura e trasformarla in un meccanismo claudicante. Sembra quasi che, seguendo le orme del Musil de L’uomo senza qualità, costruisca un dispositivo che vuole girare a vuoto. E riesce peraltro a farlo, magistralmente, in una caleidoscopica commedia degli equivoci.
La sua è una non troppo velata critica alla società dello spettacolo e dell’intrattenimento, e al contempo una disanima ironica del fumetto come letteratura popolare, escapista, “da cesso”. Il suo è un gioco a rimpiattino con il lettore svogliato, un coito interrotto dove il continuo cambio di scena è sempre un’illusione, una celia, uno sberleffo.
Bergman è pienamente consapevole di essere un personaggio di carta, di essere intrappolato nelle pagine di un fumetto, ma altrettanto inconsapevole del suo essere giocato, di essere un capriccio, un eroe a metà, una impotente funzione narrativa. Manara gioca dunque a rimpiattino anche con il suo personaggio e con il ruolo dell’autore, qua fintamente onnisciente e più vicino a una idea di “scrittura automatica”, o quantomeno a un’evocazione di quella condizione creativa. I momenti di sperimentazione grafica sono ancora rari e quasi sempre motivati da un piega lisergica della trama.
Meglio fanno Le Avventure Africane di Giuseppe Bergman, serializzate sulla rivista Comic Art tra il 1980 e il 1982. Un lungo racconto composto da nove capitoli, al cui interno si possono distinguere due grandi archi narrativi: Un autore in cerca di sei personaggi e Dies Irae.
Se il primo di questi si allinea al tono surreale delle prime avventure, nel secondo, invece, Manara supera finalmente i limiti delle precedenti opere, confezionando un racconto solido e avvincente. Il prologo è affidato alla “voce” di Cloe, spirito guida dalle fattezze adolescenziali. Manara ne fa lo strumento con cui esporre una teoria sul segno e la capacità del (di)segno di dire l’impossibile attraverso una grammatica elastica e duttile.
In linea con le idee di Pazienza, qui Manara si fa moltitudine in maniera ormai nitida: non solo giocando con il segno e con la struttura, ma soprattutto dando sfoggio di una capacità affabulatoria sino allora vaga, quasi capricciosa. Se le divagazioni sino a quel momento erano strutturali al dispositivo narrativo del Giuseppe Bergman, ma si muovevano in maniera aleatoria e sussultoria, assecondando l’estro e il capriccio e diventando lo strumento principale con cui condurre una critica all’intrattenimento, adesso Manara si fa realmente intrattenitore, sfruttando appieno la potenzialità del racconto.
Manara passa da un divagare incerto a una struttura post-moderna, eppure classicissima, in cui il racconto principale diventa una cornice narrativa: i racconti sono dissuasori di velocità, rallentano il nostro moto di lettura, ci costringono ad attardarci e a sederci. Manara riflette sul meccanismo della narrazione e lo fa non abbandonandosi al caos controllato dell’immaginazione creativa, ma disponendo le tessere del discorso in ordine, attingendo al sogno infinito di Sharāzād.
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Con Dies Irae, Manara segna un ritorno alla classicità: lo scherzo grafico in cui Bergman gioca con la storia dell’arte è un prodromo della maniera che caratterizzerà il percorso successivo. I due capitoli conclusivi della saga aggiungono poco e rappresentano una regressione. Manara usa il racconto per assecondare un virtuosismo dalle finalità erudite e apologetiche. Sottolinea inoltre una linea diretta – troppo ‘continuista’, diciamo – tra l’arte e il fumetto, disconoscendo la natura bastarda e modernista del medium.
Il suo attardarsi sulle opere artistiche di Millais, Tintoretto, Von Stuck, Botticelli, Böcklin eccetera sino ad arrivare ai numi tutelari Pratt e Fellini è sì un tributo alla sua formazione pittorica, ed anche una specie di deduzione, una giustificazione culturale del ruolo storico – suo e dei fumettisti in generale – nel campo dell’arte e del fumetto. Ma nella sostanza, più estetizzante che strategica nel racconto, è un regresso, una arrendevolezza a un’idea un po’ troppo museale della (nona) arte.
Non si libera da queste pastoie neanche la conclusiva L’Odissea di Bergman, ennesima variazione sul tema del viaggio di Odisseo, che si lega alla stessa arrendevole riflessione sulla classicità. Ecco l’illusione – screziata da un erotismo ormai esanime e bidimensionale – ovvero il trompe l’oeil a cui accennavamo in apertura, forma derivativa dell’arte.
L’epopea decennale del Giuseppe Bergman è insomma il luogo ideale per comprendere la grandezza e la debolezza di un autore indispensabile, ma evanescente. Un maestro indiscusso del corpo e del segno, il cui virtuosismo ha sfiorato momenti sublimi (troppo spesso dimenticati: questa riedizione è un utile risorsa per gli smemorati) ma si è anche fatto (troppo spesso, nella sua produzione più recente) segno di una certa arrendevolezza del fumetto all’arte figurativa.
Giuseppe Bergman – L’integrale
di Milo Manara
Panini Comics, 2017
Cofanetto con due volumi cartonati, 272 e 240 pp. in b/n e a colori,
€ 55,00
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