Riecco Ratigher, al secolo Francesco D’Erminio, alle prese con l’indagatore dell’incubo. Rispetto alla sua prova precedente, che ci era parsa non molto convincente, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. L’autore di Trama e di Le ragazzine stanno perdendo il controllo in questi mesi frenetici è diventato il nuovo direttore editoriale di Coconino Press, prendendo il posto del co-fondatore Igort.
Una nuova tappa professionale certamente sfidante, che dovrà trovare un equilibrio tra la progettazione di una diversa politica editoriale e la gestione di un catalogo imponente, con nomi del calibro di David Mazzucchelli, Manu Larcenet, Gipi o Paolo Bacilieri.
Proprio per quest’ultimo, già in forze alla Bonelli come disegnatore e talvolta come autore completo, Ratigher ha elaborato una storia decisamente articolata. Un lavoro più sviluppato nell’impianto che nell’intreccio. Alla maniera del suo Trama, Graphic Horror Novel è un racconto più interessato allo ‘spazio’ del fumetto – al suo comporsi linguistico, alla sua costruzione – rispetto al mero sviluppo delle vicende narrative. Con il risultato di offrire un episodio per certi versi bizzarro, ma nel complesso piuttosto tradizionale, per non dire banale.
Come nella prova precedente, Ratigher appare poco a suo agio con il personaggio di Sclavi. Il suo Dylan Dog è una maschera poco sviluppata, sempre ai margini della vicenda, un attore poco credibile che si attacca ai soliti punti fermi del personaggio per sembrare se stesso (il quinto senso e mezzo; le battute con Groucho; gli approcci con le donne) costretto suo malgrado a recitare ogni mese il ruolo di motore inconsapevole degli eventi.
Il Dylan Dog di Ratigher, come altri Dylan Dog letti negli ultimi anni, non è una figura empatica che invita a identificarsi. Poco o nulla a che vedere con il tormentato, indecifrabile, incoerente – e proprio per questo vivo – personaggio sclaviano. Se non come immagine archetipica di se stesso, sagoma di carta che si ripete, con altalenante convinzione, per non morire.
Non sembra dunque un caso fortuito che l’espediente metafumettistico su cui si regge l’impianto dell’episodio diventi, per i suoi cantori più o meno consapevoli, l’unico discorso credibile sul personaggio, l’unica chiave interpretativa capace di raccontare ancora qualcosa in modo onesto e non forzoso. Anzi, in Graphic Horror Novel certi meccanismi ripetuti e banalizzati diventano le fondamenta più efficaci possibili per edificare e sviluppare una riflessione meta.
Insomma il Dylan Dog in quanto fumetto – consapevole di esserlo – risulta forse più interessante e in grado di dire qualcosa, oggi, rispetto al Dylan Dog personaggio o ‘eroe’. Un personaggio di cui forse ha detto l’ultima parola lo stesso Tiziano Sclavi, con quel recente “ritorno dal silenzio” improvviso e frettoloso, e quella copertina bianca che chiudeva molti discorsi, liberando molti fantasmi. Chissà.
Nel frattempo, assistiamo all’entrata in scena – più precisamente, in bagno – del vero protagonista di questo episodio di Dylan Dog, l’Autore. Un importante fumettista che, nel paese chiuso di questa storia che parla di fumetti, è più famoso e arrogante di una rock star, e fa fumetti – più precisamente, graphic novel – che sono capolavori da Nobel per la letteratura. Chiamiamolo DFW, come le iniziali dello scrittore a cui si ispira, e seguiamolo mentre, per recuperare la memoria perduta (che altro non è che la storia che andremo a leggere) disegna e crea sulle piastrelle del bagno. Una ben bizzarra, ma evidente, allusione alle vignette quadrate che compongono la classica gabbia compositiva bonelliana.
La sua storia è canonica e banale come un episodio disegnato da Montanari & Grassani – ed infatti lo è. Narrano le cronache che Bacilieri stesso abbia proposto i due storici disegnatori dopo avere letto la sceneggiatura. Scelta azzeccata e consapevole, forse inevitabile, ma che crea un cortocircuito interessante: il superamento della Trama come oggetto dotato di senso in se stesso. La banalità della vicenda disegnata da Montanari & Grassani è infatti ammessa dallo stesso Dylan Dog in un dialogo chiarificatore con l’Autore. Il messaggio finale dell’arte diabolica che reclama il suo prezzo è talmente scoperto da indurci a più di un sospetto. Serve infatti a uno scopo che prescinde dalla vicenda raccontata (chiaramente insignificante): svelare l’identità dell’Autore.
La storia banale che si racconta, o meglio si disegna sulle piastrelle del bagno nel quale DFW si è rinchiuso misteriosamente, è la chiave che consente a DFW di definire se stesso, di ricostruire la propria storia e capire chi è veramente (ovvero un autore mediocre, artefice della storia che “leggiamo di leggere”). Il fumetto si fa specchio del personaggio, dunque, e diventa un fumetto selfie. Banale come tutti i selfie sanno essere. Non a caso viene prodotto sulle piastrelle di un bagno, sfondo su cui milioni di navigatori blandamente narcisisti, ogni giorno, immortalano il proprio aspetto.
La Trama, per dirla con Ratigher, non è allora importante. È uno spazio nel quale l’Autore ritrova se stesso. L’autoreferenzialità della rappresentazione, cifra dei nostri tempi, viene qui portata al parossismo. Una tipicissima, classicissima, bruttissima storia a fumetti viene presa come modello (mediocre) per mettere in scena il vero orrore dei nostri tempi. Il nulla che soggiace ai tanti discorsi, alle storie mediocri che mangiamo ogni giorno, alle autorappresentazioni che scandiscono la nostra esistenza. La narrazione lascia spazio allo storytelling: il dispositivo fumetto contiene in sé la verità della propria struttura (il nero inchiostro che è il principio di tutto e, gocciolando, tormenta DFW) e lo fa in modo naturale, quasi inconsapevole. Come un selfie, svela la nostra esistenza al di là del nostro desiderio. Il fumetto rappresenta l’autore, non viceversa.
Ecco dunque Ratigher fare il verso all’editor/scrittore Recchioni che scrive Dylan Dog (“io faccio arte, non faccio cadaveri”, dice DFW per confermare la propria innocenza, richiamando il motto della serie più nota di Recchioni, Orfani). E Dylan Dog che fa il verso a se stesso, ammettendo la mediocrità delle sue storie, è un cortocircuito autoinflitto: terribile eppure onesto. Una radicale autocritica, tanto finzionale quanto sfacciatamente in sintonia con lo stato delle cose. Un caso più unico che raro, nel fumetto seriale – Bonelli e non – di gioco, satira, analisi (e mise en abyme) intorno alla condizione creativa di un prodotto narrativo.
La conclusione dunque non può che essere l’angosciante verità della propria finzione, il vero incubo che ci racconta questo Dylan Dog fumetto: la consapevolezza che, oltre lo spazio bianco della propria auto-rappresentazione, non c’è nulla; che dalla gabbia, che talvolta ci illudiamo di controllare o di rompere, non si può davvero sfuggire. La verità di una storia mediocre, ma sincera. Come un selfie.
Dylan Dog n. 369 – Graphic Horror Novel
di Ratigher, Paolo Bacilieri, Montanari & Grassani
Sergio Bonelli Editore, 2017
94 pp., B/N
3,50 €