Ebbene sì, stiamo parlando di Wonder Woman. Del film di Wonder Woman, per essere precisi, in uscita l’1 giugno nelle sale italiane (QUI il trailer). Di solito affronto articoli come questo come se fossero problemi di geometria: il problema di recensire la versione cinematografica di un eroe/eroina quasi centenaria cercando di collaborare con le regole del gioco che vengono proposte. Dare cioè un bel taglio a tutto quel che fa parte della storia e del folklore del personaggio (come ho fatto ad esempio QUI per Logan o QUI per Ghost in the Shell) e concentrarmi invece sul momento presente, sull’interpretazione cinematografica.
L’idea per questo approccio mi è venuta un giorno di una dozzina di anni fa a Sydney, conversando con un cuoco italiano trapiantato “down-under”. «Non puoi pensare – mi diceva lo chef – di cucinare i piatti tradizionali della cucina mediterranea in Australia semplicemente perché gli ingredienti non sono gli stessi. Però puoi cercare di cogliere lo spirito di quei piatti tradizionali e declinarli con ingredienti genuini e locali». Il suo ragionamento faceva da apertura a un filetto di Barramundi alla mugnaia, interpretazione del piatto nostrano con il pesce tipico dell’Oceania e del sud-est asiatico. Delizioso, e lo ricordo ancora con nostalgia a distanza di anni.
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Ecco, l’approccio del nostro cuoco espatriato è quello che di solito mi guida quando si parla di film tratti dai fumetti Marvel o DC. Non si può pretendere la correttezza filologica o la ricerca di una compressione all’interno di due ore dell’esperienza narrativa di mezzo secolo o più. Senza contare che i comics americani maggiori (parlo di X-Men, Superman, Iron Man, Batman) fanno parte di un immaginario oltre che collettivo anche abbondantemente condiviso. Cambiando mediatore del racconto è più corretto lasciare libertà di espressione e, entro certi limiti, variazione al demiurgo di turno. Con Wonder Woman però voglio fare una eccezione perché sento il bisogno di andare nella direzione opposta.
Non perché penso che Wonder Woman sia meno conosciuta (anche se in effetti, come vedrete tra un po’, molte cose sulla storia segreta di Diana non si sanno) ma per altri due motivi. Il primo è che Wonder Woman è già stata trasfigurata sul piccolo schermo da Lynda Carter con un effetto potente e duraturo, superiore a quello che per esempio Adam West da noi è riuscito ad avere su Batman. Già questo richiederebbe un lavoro di aggiustamento del canone perlomeno nell’ottica di comprendere meglio il film.
No, qui il punto centrale è un altro. Wonder Woman è figlia di un esperimento psicologico le cui condizioni di realizzazione e la stessa storia personale di chi lo ha messo in pista, in omaggio a una metodologia femminista che dichiara con trasparenza lo statuto degli attori coinvolti, devono essere chiarite. E l’àncora alla quale faccio riferimento per la storia di Wonder Woman è un discusso (ma straordinario) libro della storica americana Jill Lepore, scrittrice del New Yorker e accesa femminista, che ha cercato e forse un po’ ingigantito molti dei passaggi che però restano nel complesso attendibili, precisi e straordinariamente interessanti per capire chi sia Wonder Woman, da dove provenga e soprattutto perché.
Il libro si intitola The Secret History of Wonder Woman e non è mai stato tradotto in italiano. L’idea di fondo è che il mito da cui origina la principessa Diana Prince sia qualcosa di più che una “semplice” fondazione escapistica. Wonder Woman è il punto di incontro, secondo la Lepore, della presa di consapevolezza delle donne moderne all’inizio del Novecento, cioè dei movimenti per il suffragio universale (avete presente la mamma dei bimbi di Mary Poppins, che anziché accudire la prole va a marciare davanti alle istituzioni londinesi? Quella cosa là) con l’immaginario bondage e lo stile di vita bohemienne di William Moulton Marston, psicologo perfido ma di chiara fama (ha inventato la macchina della verità) che aveva messo su un menage a trois con moglie, amante convivente e con una terza donna “nomade”, che si faceva vedere di quando in quando, vivendo il poliamore con libertà e liberalità.
Proviamo un attimo a rimettere in prospettiva quel che ho detto: l’inventore di Wonder Woman è uno psicologo con tanto di dottorato di ricerca e inventore della macchina della verità. Grande sostenitore della prima ondata del femminismo, ha basato molte delle caratteristiche del personaggio e delle sue prime avventure su Margaret Sanger, la pioniera del controllo delle nascite (la contraccezione, assieme alle macchine per i lavori domestici sono due degli elementi chiave per l’emancipazione delle donne dal loro ruolo di mogli e madri-schiave della famiglia).
Non è finita, perché ha vissuto con tre donne, ha avuto figli con due, e gestito le cose in maniera tale che sua moglie Halloway Marston (quella legalmente sposata) potesse avere uno stile di vita che le consentisse di avere un lavoro a tempo pieno, mentre l’amante-convivente Olive Byrne (oltre che ex-studentessa dello psicologo) potesse tirare su i figli della famiglia (suoi e dell’altra) e la terza facesse un po’ quel che voleva, perché va sempre bene. Erano tutti quanti pieni di bracciali e braccialetti, amanti del bondage, pratiche intime con corde, lazo magico da cui scaturivano giochi in cui, dopo essere stati legati dal suddetto lazo, si doveva dire la verità per non essere puniti.
La storia dietro la storia insomma è questa: Wonder Woman è figlia di qualcosa di più, molto di più che non della sola fantasia di un paio di artigiani dei comics asserragliati in qualche condominio di Manhattan. Il contesto è assai più complesso e l’idea di fondo è che Wonder Woman fosse veramente un’Amazzone che doveva rappresentare l’empowerment della donna moderna, aliena ai vincoli e ai condizionamenti dei secoli precedenti di patriarcato fallocratico. Da questo punto di vista Diana Prince è un personaggio non solo moderno e contemporaneo, ma addirittura futuribile, con la capacità che ha avuto di dipingere sessualità, gender, femminismo ed erotismo sposandoli con il mondo dei comics, i cambiamenti sociali dell’America di inizio secolo (Wonder Woman è nata nel 1942 e ha combattuto la sua quota parte di scontri contro le truppe dell’Asse, soprattutto tedesche) raccontati soprattutto dopo la Guerra.
Veniamo al film. Che è un bel film: mi è piaciuto. È un film in costume, che resetta la storia di Wonder Woman portandola nel passato (la Grande Guerra), magicamente interpretato da Gal Gadot (che è di una bellezza ipnotica in questo ruolo) e talmente pieno di momenti di azione, soprattutto nella seconda metà, da meritarsi l’appellativo di “festa per gli occhi” senza alcuna seconda intenzione denigratoria. C’è anche qualche scena girata in Italia, per la precisone ai Sassi di Matera (la qual cosa mi fa pensare che prima o poi devo andare a vederli, dato che siamo ormai a venti e passa film che girano qualche scena o molte scene in quel comprensorio) e nel complesso il film tradisce completamente le aspettative della storia e le interpreta con originalità rendendole comunque interessanti.
Sì, avete letto bene: tradisce completamente. Perché Diana Prince è veramente una creatura divina, dotata di una forza e una resistenza eccezionali, superiori a quelle di qualsiasi mortale ed eroe. Ma è più fumetto del fumetto. La sua storia è avvolta nel mistero della mitologia: nel tempo è stata rivista più volte e con il film arriviamo a una lectio difficilior del testo originale che però non guasta. Soprattutto, questo film si basa su poche battute, qualche scena di azione e qualche primo piano. Se non ci fossero quelli, sarebbe un fallimento.
Invece, si salva tutto perché la regista Patty Jenkins (Monster, nel 2003) si è prodigata e ci sono delle scene, dei movimenti di camera, dei momenti di regia che non sono banali. E poi c’è l’israeliana, modella ed ex militare Gal Gadot che mena come un fabbro, zompa da tutte le parti, pratica almeno sei stili diversi di combattimento corpo a corpo, alterna facce toste a facce tristi a facce stupite ed è tutto tranne che l’ideale di empowerment femminile a meno che non si voglia immaginare un mondo di amazzoni eticamente pure ed ingenue, quasi virginali. Ma è una forza della natura e sembra più Wonder Woman lei di tre quarti dei fumetti in cui compare Diana Prince. Le sue scene di azione sono a tratti un matrimonio perfetto tra il fisico di Gal Gatod e la prodezza tecnica di Patty Jenkins.
Il film Wonder Woman è invece un film cupo, come lo sono tradizionalmente tutti i film dell’universo espanso della DC (almeno, rispetto a quell’allegro branco di saltimbanchi della Marvel) ma è anche un film in costume, un film basato su un’idea, costruito attorno a un equilibrio più maturo (rispetto ad esempio al devastante e deprimente Batman v Superman) e con qualcosa di particolare. Manca forse un ingrediente chimico misterioso nella sceneggiatura, capace di catalizzare una reazione chimica nella storia che invece è presente tra gli attori e in alcuni movimenti di regia. È infatti meravigliosa e tutta da guardare la coppia Gal Gadot-Chris Pine. Quest’ultimo tra l’altro anche in questo film si rivela la versione migliore di come ci immaginavamo che potesse essere William Shatner se avesse fatto di più e meglio.
Cosa manca a Wonder Woman? Poco, pochissimo. Forse una storia migliore, più profonda, scritta con più onestà e meno mestiere. Ma dopotutto chi va a vedere un film dei supereroi per la storia? Forse qualche storico del femminismo novecentesco? Ci permettiamo di dubitarne.