Nonostante Nicolas De Crécy sia oggi uno degli autori più stimati – e per molti versi “di culto” – del fumetto d’autore francese, celebrato accanto a Lorenzo Mattotti e Philippe Druillet dalla collana di sontuose monografie ‘definitive’ di MEL Publisher (come segnalammo a Natale), i suoi libri hanno difficilmente trovato spazio sugli scaffali delle librerie. In primis quelle francesi, almeno fino alla pubblicazione nel 1994 del suo Celestiale Bibendum, riconosciuto ormai come un classico del fumetto europeo contemporaneo.
La traduzione italiana di quel caposaldo della bande dessinée (per Eris Edizioni), che a Fumettologica ritenemmo uno dei migliori Fumetti classici del 2015, è stata seguita nel 2016 da La repubblica del Catch. Un libro più recente e meno noto, ma pur sempre un capitolo importante nella carriera dell’autore, nato per la pubblicazione in Giappone e solo dopo arrivato anche in Europa. Il riavvicinamento dell’autore al pubblico italiano, dopo gli anni lontani della sua comparsa sulle pagine della rivista Il Grifo, è proseguito – e culminato – con la partecipazione a Napoli Comicon 2017, ospite di Eris Edizioni, per presentare in anteprima un terzo volume: Diario di un fantasma. Un graphic novel in cui De Crécy si mette in scena e (soprattutto) in discussione come artista, mantenendo vivace quello spirito surreale e quella tensione alla libertà del segno che tinge ogni sua opera.
In occasione del festival abbiamo avuto modo di incontrarlo, per una intervista che ha voluto ripercorrerne la carriera, approfondendo soprattutto la genesi dei progetti usciti nell’ultimo triennio in Italia.
In Italia il Celestiale Bidendum è stato accolto molto bene, se non con entusiasmo, e non solo tra i critici bédéphiles. Si sentiva la mancanza di tue opere e in particolare di questa, così rappresentativa, che ha segnato una lunga fase della tua carriera. Cosa ha rappresentato per te, e come la consideri oggi, a più di 20 anni dalla sua pubblicazione?
Il Celestiale Bibendum è uno dei miei fumetti più importanti. Quando l’ho realizzato – ormai sono passati 20 anni – è stato un libro “laboratorio”. Volevo provare più cose possibili sia a livello grafico che narrativo. Avevo 25 anni quando lo iniziai, quindi avuto bisogno di molte energie per fare un lavoro così spinto a livello grafico. All’epoca avevo il coraggio di lanciarmi in una cosa così “pesante”, ma oggi non so se ce la farei, perché era un tipo di progetto troppo ambizioso e intenso.
Come hai sviluppato lo stile pittorico del Bibendum? Per i lettori italiani c’è qualcosa di affine a Fuochi di Lorenzo Mattotti, sebbene la tua linea fosse all’epoca molto diversa da quella del Mattotti “a colori”.
Prima del Bidendum ho lavorato a un libro intitolato Foligatto, 4 anni prima, nel 1990 (e uscito nel 1991), molto ispirato a Fuochi di Mattotti. Ai tempi in cui in Francia uscì Fuochi ero studente alla scuola di Belle Arti di Angouleme, nel 1986. Per noi tutti, a scuola, fu un colpo, qualcosa di davvero importante. Tutti gli alunni rimasero estremamente impressionati dal suo lavoro, che in effetti mi ha fatto capire che un lavoro di pittura poteva diventare un fumetto: Mattotti è uno dei primi che l’ha fatto. Se si parla di influenze, poi, dobbiamo parlare anche di pittura classica. E dunque le influenze del Bibendum, in fin dei conti, sono un mix di pittura classica e Mattotti. Aggiungo giusto un’altra cosa: all’epoca cominciavamo a fare il colore direttamente sulla pagina, mentre prima la tavola di un fumetto era in bianco e nero, e la stampa del colore veniva fatta a parte, dopo. Finalmente le tecniche di stampa ci permettevano di esprimerci a colori. Quindi la combinazione di queste due cose – le influenze mattottiane e classiche, e i moderni processi di stampa – mi hanno permesso di lavorare in quel modo.
La repubblica del Catch è stato realizzato per il mercato giapponese. Quanto e come ti ha segnato l’esperienza di lavoro nel mondo del manga? Eri già un lettore di manga?
Leggevo davvero pochi manga prima di andare in Giappone, perché la mia generazione non è davvero avvezza al manga. Inoltre avevo smesso di leggere fumetti in generale, all’epoca in cui i manga erano arrivati in Francia. Non ne ho letti molti, a parte Jiro Taniguchi, che amavo molto. Non conoscevo bene nemmeno Katsuhiro Otomo, che ho letto dopo averlo conosciuto di persona. Non ero grande lettore di manga, dunque, e l’esperienza in Giappone era più per il piacere di lavorare con dei giapponesi e per la fascinazione che ho per questo paese e per il loro modo di lavorare, che è molto molto diverso dal nostro.
Ciò mi ha fatto imparare moltissime cose, mi ha dato voglia di ricominciare con il fumetto – perché avevo smesso da 4 anni – e il fatto che fosse una proposta che veniva dai giapponesi, e che fosse una cosa nuova a livello editoriale – almeno per me – mi ha davvero motivato. Là ho lavorato con gli editor che mi hanno istruito sul modo in cui si facevano i manga, sul come dovevo rivedere il modo di raccontare affinché il pubblico giapponese comprendesse meglio. Perciò quello che ho fatto, alla fine, non è un manga vero e proprio, ma rimane qualcosa di completamente strano. È apparso in Giappone sulla rivista Ultra Jump, letta da un pubblico molto vasto. È stata un’esperienza incredibile.
Come hai accennato, anni fa per un certo periodo ti eri allontanato dal fumetto, dedicandoti all’illustrazione. Perché?
Erano ormai 25 anni che realizzavo fumetti, amo molto scrivere e disegnare e volevo separare le due cose. In parallelo da un lato scrivevo, ma era piuttosto per passione; dall’altro facevo delle illustrazioni “grandi”, per il mondo delle gallerie, quindi un lavoro più d’arte. Questo mi ha permesso di cavarmela meglio economicamente, perché il diritto d’autore sui libri è un po’ una miseria… Ho delle vendite buone, ma dovrei fare due libri all’anno per vivere bene. Per fortuna i miei disegni valgono molto e in più per me è un immenso piacere fare del disegno libero, al di fuori della narrazione. Per qualche anno mi sono dunque dedicato a questo.
A darmi la possibilità di tornare al fumetto è stata proprio la proposta dei giapponesi. Succede molto raramente che domandino a degli autori occidentali di lavorare per loro, quindi non potevo rifiutare. Inoltre questa occasione mi ha permesso di divertirmi di nuovo, di ritrovare il piacere della narrazione per immagini.
Quali fumettisti giapponesi ti hanno influenzato di più? Cosa hai scoperto nei tuoi numerosi soggiorni in Giappone?
Non posso parlare esattamente di influenze, perché il mio oggi è un lavoro molto personale, che lascia meno spazio alle influenze rispetto agli inizi. Quindi più che di influenze mi piace parlare di incontri amichevoli. Alcuni autori giapponesi mi hanno molto aiutato a farmi conoscere in Giappone, perché conoscevano già il mio lavoro e mi hanno presentato ad alcuni editori, promuovendo il mio lavoro in modo molto attivo. Questo è qualcosa di molto gratificante. Parlo di autori come Otomo, Taniguchi, Taiyo Matsumoto. Con Matsumoto abbiamo fatto anche un libro insieme, che è stato pubblicato solo in Giappone. E’ un libro ibrido, in cui abbiamo messo delle foto e poi abbiamo condiviso dei disegni. È stata un’esperienza molto interessante.
Hai prodotto vari libri illustrati. Quale piacere – o fatica – differente offre, a tuo avviso, il disegno puro rispetto al fumetto, e rispetto alla pittura?
La questione sta nel mio piacere di disegnare fuori dal fumetto. Perché il fumetto è un mezzo che amo molto, ma il problema è che a un certo punto si è obbligati a trovare un segno sintetico, che sia funzionale alla narrazione, quindi si è tenuti a piegare il disegno verso un certo stile perché funzioni narrativamente e questo taglia certe possibilità espressive. Io ho invece bisogno di disegnare al di là dello stile che ho trovato per la narrazione, e spaziare con il segno.
Il Diario di un fantasma sembra sia un compromesso verso queste istanze. Nasce dalla necessità di esprimersi su un piano più interiore, più personale?
Come racconto nel libro, esso nasce dalla voglia di raccontare la mia esperienza con il disegno e di girarlo in fiction e parlare di me usandomi come personaggio. La moda dell’autobiografia era molto viva all’epoca e io volevo deviare da questa tendenza: parlare quindi di me, ma attraverso la finzione. È stata importante anche l’esperienza che ho avuto in Brasile, dove dovevo fare un reportage disegnato ma non riuscivo a farlo: avevo un problema di rappresentazione del reale e questo mi pareva interessante… Infatti è davvero curioso il modo in cui è nato questo libro.
È un miscuglio di un sacco di cose diverse, anche riguardo alla parte che ho realizzato in Giappone. È un mix di esperienze differenti, come il rapporto che si può avere con il disegno in un paese come il Giappone e in uno come il Brasile. Il libro è pieno, poi, di elementi diversi tra loro: la cultura diversa, l’interesse che ho per questi paesi… soprattutto per il Giappone, certo. Può essere che siano stati i miei 40 anni, e la voglia di tirare le somme.
Lo stile qui è davvero diverso e quasi da sketch, rispetto a lavori precedenti. Come sei arrivato a quella sintesi?
Se si guardano tutti i miei libri, per me l’idea è sempre stata quella di lavorare in contrasto con il libro precedente. Quando ho finito il Bibendum ho realizzato Super Monsieur Fruit, che è un libro fatto di schizzi. Avevo lavorato in un tale senso con il Bibendum, che avevo bisogno di lavorare in un senso contrario, inverso, in contrasto. Per il successivo sono tornato a qualcosa di più ‘lavorato’ (nel senso più complesso), e poi di nuovo ho lavorato a un libro più ‘vuoto’; insomma passo da un metodo all’altro per variare il modo in cui mi esprimo, per evitare di “anchilosarmi” e di bloccarmi in uno stile solo, sul quale mi annoio rapidamente. Perché una volta sviscerato un metodo, poi è come se non mi interessasse più. Per me l’idea è di sperimentare, sempre.
Inoltre, a un certo punto mi sono reso conto della necessità di uno stile più sintetico e del fatto che, per il fumetto, non potevo andare in un senso di ricerca puramente grafico. Perché se si vuole veramente raccontare bene una storia, bisogna lasciare spazio al racconto. Non rimpiango niente di quello che ho fatto, ma se farò ancora un fumetto, sarà dallo stile sintetico.
Il Bibendum è stato anche al centro di una polemica fra te e il regista de Appuntamento a Belleville. Il plagio che hai subito all’epoca continua a sembrarci un caso sorprendente, quasi inspiegabile. Come è potuto accadere?
Diciamo che al giorno d’oggi la considero una storia vecchia. Parliamo del 2003, e oggi sono meno sensibile a questo problema. Ormai è vero che non ci si può far niente contro. Il vero problema, per me, rimane il fatto che c’era di mezzo una grande amicizia. Io e Sylvain Chomet abbiamo studiato insieme, lavorato insieme, eravamo molto legati; sono stato ingenuo a finire in una situazione simile con qualcuno con cui avevo un legame di amicizia… Non so bene come riassumerti la questione, resta il fatto che mi consolo pensando che, quando si è creatori di un universo forte, è possibile che venga copiato. Il fatto è che lui, con astuzia, ne ha tirato fuori qualcosa di internazionale. E questo è duro. Ma poco a poco, con il tempo che passa, mi convinco che le persone cominciano a vedere da dove viene realmente l’idea originale. Mi ci è voluto del tempo, oltre dieci anni, ma ora le persone iniziano a riconoscere che, alla base, c’è il mio lavoro.
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