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Nextwave, la scatola perfetta di Warren Ellis e Stuart Immonen

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Oggi come oggi, esiste un’espressione più logora e abusata di “pensare fuori dalla scatola”? In un’epoca come questa, in cui chiunque pare arrogarsi il diritto di definirsi creativo e dove l’espressione di sé ha più che mai una posizione centrale nella nostra vita quotidiana, direi di no. Figurarsi poi quando ci si trova, da professionisti, a lavorare in ambiti ultracodificati. In ambiti così rigidi, quella di “pensare fuori dalla scatola” pare essere sempre l’unica soluzione spendibile per arrivare a un risultato perlomeno accettabile. Se fossi uno sceneggiatore potrei tirare in ballo la scrittura dei supereroi, forse uno dei generi apparentemente più reazionari del fumetto.

Dal 1986 in avanti c’è chi la scatola l’ha rivoltata come un calzino (Alan Moore e Frank Miller), chi l’ha schiacciata senza pietà (Pat Mills), chi l’ha abbellita con specchietti e lucine colorate (Mark Millar) e chi semplicemente si è limitato a cagarci dentro (Garth Ennis). Tutte soluzioni valide, ma all’appello ne manca una. Quella di tenere le sei pareti della scatola li dove sono, di studiarle per bene, di capire come si incastrano una con l’altra, di starne bene all’interno ma con una conoscenza scientifica di come funzionino le cose lì dentro. E a quel punto di avere accumulato una tale esperienza da poterne piegare le leggi senza mai infrangerle o aggirarle completamente. Ed è questo che Warren Ellis riesce a fare da circa trent’anni a questa parte, senza quasi mai sbagliare un colpo.

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Se lo chiedete a me, non riesco a trovare un modo migliore per descrivere cosa significhi essere davvero creativi: prendere un mandato, rispettarlo alla lettera e uscirne con qualcosa del tutto inaspettato. Se si analizza la bibliografia dello scrittore inglese si noterà come non ci siano mai stati grandi strappi rispetto ai limiti imposti dal contesto in cui operava, ma solo concetti tirati all’estremo. Abbiamo già parlato di Authority e compreso di come si tratti, dopo tutto, di una serie classica portata al limite. Stessa cosa per una lunghissima serie di altri grandi titoli legati a qualche major. Dagli X-Men passando per Iron Man fino agli Ultimate Fantastic Four, Ellis non fa mai saltare il banco tirando troppo la corda. Semplicemente alza di continuo la posta puntando dove nessuno lo avrebbe fatto. Prendendosi, oltretutto, lo sfizio di rispettare sempre tutte le regole del gioco.

Ed è per questo che ovunque lo chiamino – e Warren è uno che scrive praticamente per chiunque, dai videogame di Dead Space alle versione animata di Castelvania per Netflixla sua voce è riconoscibile all’istante, senza che questo vada ad alterare in alcun modo la base della proprietà intellettuale su cui sta lavorando. Ellis ha una conoscenza tanto profonda della scatola, delle sue leggi interne e di ciò che c’è fuori, da non avere bisogno di uscirne o di sfondare chissà quale parete per farci leggere qualcosa che non avremmo mai immaginato. Perfino il controverso titolo DV8 per Wildstorm, a base di super-ragazzini problematici, nasceva da intuizioni altrui. L’aveva semplicemente spinto al limite, innestandolo con la sensibilità giovanile ormai priva di ogni forma di movimento di quel periodo (siamo negli anni del post-grunge e della post-rave culture).

Ma come è possibile arrivare a un simile risultato? Mettendo alla base di tutto il processo di progettazione un concept solido e ben definito. Dotato di un’identità così chiara da poterlo riadattare a ogni contesto. Le grandi idee sono tali solo quando sono modulabili in base al budget e allo spazio a disposizione, non viceversa. Prendiamo la trasposizione live action del fantasy. Di primo acchito viene facile pensare a produzioni enormi e messe in scena sfarzose. In realtà Games of Throne è diventata la serie tv del genere di maggiore successo della storia puntando continuamente al ribasso. La prima vera battaglia si è vista solo verso la conclusione della seconda stagione (episodio “Blackwater”, diretto da uno tosto come Neil Marshall).

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Fino a quel momento, sfruttando vari escamotage di sceneggiatura, non si era mai fatto pressante il bisogno di vedere a schermo decine di comparse intente a menarsi. Senza contare che, quando finalmente riuscivamo ad arrivarci, non si andava più in la dei partecipanti a una partita di calcetto. Eppure il mondo che si dipanava davanti ai nostri occhi era in tutto e per tutto di matrice epic fantasy, con i suoi regni, i re e tutte quelle cose che piacciono tanto. Le intuizioni di Ellis funzionano allo stesso modo: per arrivare al lettore non devono fare piazza pulita di tutto quello che c’era prima, non richiedono migliaia di pagine per ingranare (be’, quasi sempre…), non hanno bisogno di infrangere in maniera forzata le regole del linguaggio. O meglio, se hanno la possibilità di fare queste cose, le fanno. Ma di solito sono grandiose anche riassunte su di un post-it.

Tutto questo preambolo per arrivare, finalmente, a Nextwave, pubblicata da Marvel Comics tra il 2006 e il 2007. Pensi a un fumetto dalle pretese leggere basato su personaggi di serie B e subito ti assale il dubbio che ti si presenti un nuovo Deadpool. O, ancora peggio, una di quelle terribili, terribili serie che devono per forza risultare divertenti vomitandoti addosso una battuta a vignetta. E invece ecco che ancora una volta Ellis fa la magia. Nextwave è cazzona quanto volete, ma rimane una serie super-eroistica a tutti gli effetti. Con tanto di plot appassionante e ben definito, un gruppo di eroi dalle meccaniche interne non scontate e un andamento classico al 100%.

Non gioca sporco, non ammicca al lettore, rispetta tutti i paletti del genere e si innesta con naturalezza in un universo ben definito e dalle leggi piuttosto ferree. Eppure è qualcosa di totalmente fuori controllo. Anarchica, esagerata, divertente, raffinata. Dotata di un’identità inconfondibilmente europea nonostante il contesto a stelle e strisce in cui nasce. E, proprio per questo, destinata a non essere capita dal mercato e quindi a durare pochissimo. Per quanto si sforzi di essere rispettosa dell’universo Marvel, è palese come la princiale ispirazione dello scrittore siano i fumetti di matrice inglese, alla 2000AD, per capirci. Questo è chiaro sopratutto nella definizione dei personaggi, che magari non saranno svegli come Reed Richards, ma in quanto a risolutezza hanno ben pochi pari in tutto il pantheon della casa editrice newyorkese.

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E in effetti tra le pagine dei dodici numeri di questa serie non c’è situazione che non riescano a risolvere menando più forte dei loro antagonisti. Se ci tenete definiteli pure dei cazzoni propensi all’acolismo, con qualche problema di deficit dell’attenzione e contenimento dell’ego, ma è dura che qualcuno rimanga in piedi una volta passati loro. La matrice europea emerge in maniera evidente in questa propensione a costruire l’eroe come qualcosa di funzionale, ma essenzialmente sbagliato. Tutt’altro che integro e scintillante.

Come i Guardiani della Galassia di Dan Abnett e Andy Lanning – altri due inglesi in prestito a una serie spiccatamente comedy – risolvevano ogni situazione andando incontro a suicidi quasi certi (e non per eroismo spassionato, ma solo per avere una minima speranza di salvare la giornata) qui semplicemente si fa esplodere e si sventra tutto quello che si riesce. La pelle di un drago è troppo dura per essere scalfita? Nulla di più semplice che fargli inghiottire un robot e spostare l’offensiva letteralmente all’interno del nemico. Ogni titolo da affiancare a Capitan (Marvel, Universo, Avalon) è già stato preso da qualcuno? Tanto vale farsi chiamare Capitan #### e risolvere il problema nel modo più rapido possibile. Questo è lo spirito con cui procedono le avventure di Nextwave, che hanno il peso specifico di una bella giornata di primavera e allo stesso modo riuscirebbero a mettere chiunque di buon umore.

Il bilanciamento tra dialoghi e tecniche umoristiche da sit-com – i continui stacchi un po’ alla Family Guy e i flashback fulminanti – e la parte più smaccatamente action riesce in maniera perfetta grazie tanto alla tecnica sopraffina di Ennis quanto alle matite di Stuart Immonen, qui in stato di grazia. Rispetto ai suoi lavori precedenti, il suo tratto si asciuga in maniera davvero importante, gli angoli si acuiscono e il tutto diventa più simile a un cartoon dannatamente aggressivo. C’è una sorta di sottilissimo e feroce umorismo che guida ogni singola linea, così le astronavi finiscono per muoversi solo in linea goffamente orizzontali mentre ogni cosa rimbalza al suolo tracciando vistose traiettorie da pallina gommosa.

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Parodistico e svilente nei confronti dei fumetti seri, quelli tutti “grim and gritty”? Forse, ma io non mi ricordo nessuna uscita più cazzuta di quella di Elsa Bloodstone che, indicandosi il simbolo dell’euro stampato sul top, urla «Credi che la lettera che ho sul petto stia per America?» a un finto Capitan America reo di averla apostrofata come “vittima”. Una scena gustosa già di per sé, ma che diventa di una raffinatezza incredibile se si è letta la prima serie degli Ultimates e si coglie la citazione (un piccolo aiuto per chi non l’avesse fatto: là era il vero Capitan America a indicarsi la A sul caschetto, chiedendo a chi gli chiedeva di arrendersi se stesse per Francia).

L’accoppiata Ellis e Immonen non sbaglia un colpo e si spalleggia a vicenda, rafforzando la direzione creativa della serie e tenendo altissimo il ritmo senza mai cedere a soluzioni di comodo. Le scene più concitate trovano un senso nel tratto graffiante e minimale del canadese, lontanissimo da certi effetti plastici ultra-kitsch tipici di disegnatori più classici, dando modo allo sceneggiatore di infilarne come se non ci fosse un domani. Tanto per fare un esempio, la sequenza di ben sei doppie splash del numero undici sarebbe sfuggita di mano a chiunque, ma qui ci calza alla perfezione. Perché saranno anche composizioni esagerate e surreali, ma sarebbe disonesto non ammettere quanto riescano a essere terribilmente epiche e gasanti. Fanno ridere, è indubbio, ma botte ed esplosioni sono di quelle che fanno male.

Il tutto funziona grazie alla scelta di asciugare il più possibile da particolari inutili scene già di per sé affollatissime e iperconcitate, raggiungendo così un folle equilibrio tra quadro astratto, cartone animato di Hanna & Barbera e una scena tratta da un film di Ching Siu-Tung. Anche in questo caso non si capisce dove si posizioni il limite tra pernacchia e fomento, se si sta assistendo a una sorta di magniloquente spoof di scazzottate tra tizi vestiti in maniera ridicola o a una celebrazione della stessa cosa. Quando poi ci verrà svelato il cattivo finale di tutto il corso narrativo, in un primo momento potremmo anche sorriderne, credendolo un’altra delle decine di trovate della serie, tranne prendere un bello scapellotto da chi ne sa più di noi. Perché a dare forma e surreale sostanza a quel malefico dinosauro rosso era stato un tizio di nome Jack Kirby, che forse avrete già sentito per un paio di altre cosette. Anche in questo caso si parte per ridere e si finisce per riesumare, in tempi non sospetti, una delle creazioni meno conosciute di un autentico alieno del fumetto. Non si esce mai da righe già battute.

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Andando a spulciare le vecchie FAQ del sito di Warren Ellis è possibile riesumare una discussione sul processo creativo che ha portato a Nextwave e chiarire in maniera definitiva come l’autore non avesse la minima intensione di riscrivere le regole, preferendo piuttosto basarsi su materiale già esistente e ben codificato. «Si prende una tonnellata di quei vecchi personaggi e idee che in quel momento sono inutili alla Marvel, li si getta in una pentola come il pastone di carne che sono e li si cuoce a fuoco alto fino a che non ottieni qualcosa di puro. O almeno concentrato. Il tutto mentre guardi FLCL a ripetizione. Si tratta solo di bollire e mescolare e gettarci dentro ancora altre vecchie idee Marvel e remixare e campionare e remixare un pò di più. Tirando fuori tutto i tendini appiccicosi e le ossa rimaste di trama, personaggi, continuità, e tutto ciò che la gente pensa dovrebbe appartenere ai fumetti di supereroi». Detta così sembra facile, ma partire da una simile ricetta e servire in tavola un piatto completamente privo della noia del post-modernismo tutto ammicchi e citazioni non deve essere stato affatto scontato.

A distanza di dieci anni dal suo ultimo numero, Nextwave rimane così un’opera gloriosa, assemblata con la precisione chirurgica di chi mette in piedi un piano per conquistare il mondo. Leggetela con in mano un cronometro e noterete come un grosso sorriso vi si stamperà sul volto a intervalli di tempo regolari. E parlo di non più di 15 secondi. Vi intratterrà con leggerezza rara, ma non avrete mai l’impressione di avere sprecato il vostro tempo e i vostri soldi. Anzi, vi rimarrà nel cuore in maniera ben più sentita di tante run spacciate come chissà quale svolta epocale. Per motivi economici, dopo i primi dodici numeri la serie è stata chiusa, ma la speranza è quella che la Marvel si decida a rimettere assieme la squadra – sarebbe difficilissimo immaginarsela in mano ad altri – e farci viaggiare ancora una volta a bordo dello sgangherato Shockwave Rider dei nostri super-idioti preferiti.

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