“Morte del sogno” era troppo lugubre, così li hanno chiamati rotating art team, i disegnatori che si alternano su una serie, avvicendandosi al cambio di ogni arco narrativo. L’artista fisso è caduto, sotto i colpi del tempo, delle scadenze sincopate, del perfezionismo di certi, della pressione di altri, del bisogno dei lettori, delle brame del mercato.
I giornalisti americani hanno suonato le campane a lutto in seguito all’annuncio della serie Astonishing X-Men, il quarto revival della testata resa celebre da Joss Whedon e John Cassaday nel 2004. A scriverla, Charles Soule. A disegnarla, TBD. Che non è lo pseudonimo di qualcuno rimasto sotto con la scena rap anni Novanta, ma l’acronimo di “To Be Determined”, ovvero “ancora da decidere”. Chi siederà al tavolo da disegno lo sanno bene, solo non sarà una persona sola. Marvel Comics ha confermato Jim Cheung, ACO, Ron Garney, Phil Noto, Greg Land e Ramon Rosanas per i primi sei numeri. Seguiranno: altri disegnatori.
Quand’è successo che questa sia diventata la normalità, senza nemmeno che ce ne accorgessimo? Nei primi anni Duemila, John Romita Jr. rimase su Amazing Spider-Man per quattro anni senza mai sforare una scadenza o perdere di qualità (più o meno), Alex Maleev ingollava uscite di Daredevil come fossero nighiri, Mark Bagley ha macinato 111 numeri di Ultimate Spider-Man in coppia con Brian Michael Bendis (sulla costanza della fattura possiamo discutere), e ogni cambiamento veniva vissuto come un trauma che si leniva appena in tempo per la notizia del rimpiazzo successivo. I Frank Quitely e i Bryan Hitch erano l’eccezione che si faceva perdonare tutto con un accenno di vignetta. Perfino disegnatori che ora sono percepiti lenti come Adam Kubert un tempo riuscivano a reggere la mensilità senza problemi.
La gestione di Bendis e Bagley su Ultimate Spider-Man è la più lunga avventura di coppia nella storia della Marvel, superando perfino quella di Stan Lee e Jack Kirby su Fantastic Four (102 numeri più un albo spurio). Lo sarà probabilmente per molto tempo, forse per sempre. Il mercato chiede più produzione a un minor prezzo, perché tante serie sono diventate quattordicinali. I disegnatori chiedono più tempo, nelle stesse 24 ore giornaliere in cui Jack Kirby completava tre pagine, ora Quitely non abbozza neanche un primo piano. Insoddisfatti, cercano – trovandole – libertà creative ed economiche nelle etichette creator-owned, che però tolgono (ancora) tempo al lavoro mercenario. E le ore continuano a restare 24.
Cito solo testate Marvel perché DC Comics non ha mai avuto il feticismo per i disegnatori stabili, se non di recente. Entrambe però – e la nozione rende ancora più schizofrenica la linea DC – si sono dotate di un house style, uno stile che indicasse al volo al lettore di quale casa editrice fosse il fumetto che teneva in mano. Oggi solo la DC si fregia di tale marchio, usando come modello di riferimento Jim Lee e la scuola Wildstorm, mentre la Marvel ha abbandonato l’house style preferendo lasciar germogliare l’eclettismo dei singoli, perché uno stile riconoscibile è sinonimo di omologazione e quindi indifferenza e quindi noia.
La Marvel di fine anni Sessanta era quello che è adesso la Marvel cinematografica: un universo coeso in cui il fruitore può passare da uno schermo all’altro senza soluzione di continuità, avendo la percezione di rimanere nello stesso mondo. Ecco perché i disegnatori si facevano insegnare da Jack Kirby e John Romita come mettere su carta i personaggi e ora registi, scenografi e concept artist assunti da Kevin Feige seguono una linea comune quando devono metterli su pellicola. Certo, in quanto a idee visive il franchise cinematografico è il piattume fatto e filmato, ma nessuno potrà dire di non percepire un fattore unitario quando si guarda uno di quei film.
Nei fumetti invece, rinunciando a un’estetica precisa, la Marvel ne ha guadagnato in freschezza, coltivando nuove penne e lasciandole imporre il gusto sul lettore, non viceversa. Se a questo ci aggiungete l’utilizzo alla Marvel dell’omonimo metodo di produzione, in cui la storia veniva abbozzata dallo sceneggiatore, poi sviscerata dal disegnatore in ventidue tavole e infine aggiustata dai dialoghi post quam dello scrittore, ne esce un panorama di serie storiche in cui il disegnatore era più che un esecutore di spartiti altrui.
Tutto questo ha davvero importanza in un’epoca dove si tratta solo di scegliere una sensibilità che sappia tradurre bene in immagini ciò che è già stato deciso a monte dallo sceneggiatore? Forse i rapporti a lungo termine non hanno più senso di esistere, se il grado di collaborazione è radicalmente differente da quelli di Stan Lee e Jack Kirby (che, per quanto lavorassero separati, si nutrivano l’uno delle suggestioni dell’altro). L’obiezione che fa John Romita Jr., «le abbiamo scritte anche noi quelle storie», è valida se si parla dei lavori del passato, ma dubito che il disegnatore abbia avuto potere di veto su lavori come Avengers vs. X-Men o Captain America. Frank Cho ce lo ha raccontato lo scorso novembre, spiegando che nonostante le numerose collaborazioni con Bendis, non ha mai avuto l’occasione di parlarci, «un po’ perché è davvero difficile riuscire a raggiungerlo e un po’ perché è così occupato che penso non gli interessi il contributo dell’artista, si fida». E se si fida lui, perché non possono fare le stesso i lettori?
Il senso è opposto a quello di vent’anni fa, quando il nome più grande sul cartellone era ad appannaggio del disegnatore. Gli X-Men erano di Jim Lee, Spider-Man di Todd McFarlane, nonostante a lavorare con loro ci fossero Chris Claremont e David Micheline. Dietro allo strapotere del disegnatore c’è una lunga cronostoria che sfocia nell’evento apicale della nascita di Image Comics, al cui interno gli sceneggiatori hanno avuto un ruolo minimo, se non nullo.
Poi i nomi hanno cominciato a rimpicciolirsi, di fronte alla convinzione che bastasse il marchio a spostare i lettori da un albo all’altro. È stato solo con Joe Quesada che l’auteur è tornato strumento commerciale, mezzo con cui costruire credibilità, interesse e aspettative attorno a un fumetto. Non solo, in questo modello di business è un mezzo spendibile per dare coerenza a un oggetto che esce formato dalle mani di tanti ma deve essere vissuto come il prodotto di un’unica mente.
È un equilibrio delicato che pare impossibile da raggiungere dopo la fuoriuscita del gruppo Image nel 1992. La Marvel vuole poter sfruttare i nomi dei suoi talenti come incentivo per le vendite ma teme di creare rockstar che assoggettino l’editore al proprio volere. Se i grandi nomi non firmano più contratti in esclusiva è perché vogliono poter dedicare tempo ai progetti creator-owned, più remunerativi e soddisfacenti in termini di libertà creativa. Nelle parole riportate da ICv2 l’editor-in-chief della Marvel Axel Alonso fa trapelare una soglia di sopportazione bassa per questo sistema: «Dobbiamo essere pazienti e mantenere buone relazioni. Ogni tanto c’è qualcuno che si fa terra bruciata attorno, ma cerchiamo di tenere le porte aperte in attesa di opportunità future. Spesso ci ripensano».
Perché la scelta creator-owned offre speranze ma non garanzie. Un lavoro indipendente che vende la metà di un corrispettivo Marvel riesce a far guadagnare il doppio di quanto si incassa con la Casa delle Idee solo in linea teorica. Quando si passa ai fatti, Alonso chiarisce che «è vero per i fumetti di alta fascia, non so se sia vero per gli altri. Ho parlato con persone che non avrebbero mai voluto lanciare un fumetto Image quest’anno, diciamo».
Dopo lo scisma Image, non ci sono stati momenti di crisi precise nella legittimazione dei disegnatori, ma qualche tappa può essere individuata. Prima: Vendicatori Divisi, l’evento del 2004 con cui Brian Bendis riformava i Vendicatori consegnandoli al Ventunesimo secolo e contemporaneamente diventando il soldatino coraggioso della Marvel. Con Vendicatori Divisi si è passati gradualmente da un piano editoriale in cui ogni serie doveva tenere a mente di essere parte di un mondo più grande a un mondo più grande che doveva tenere a mente le proprie unità minime di senso. Nello stesso periodo acquisiscono importanza maggiore i ritrovi estivi in cui i principali editor e scrittori si uniscono per pianificare i successivi sei mesi editoriali. Giocoforza il piatto della bilancia ha cominciato a pendere dalla parte dello sceneggiatore. La gestione di Lanterna Verde è di Geoff Johns, i Fantastici Quattro di Jonathan Hickman, il Daredevil di Mark Waid. Non solo perché elencare tutti i disegnatori risulta meno d’impatto, ma anche perché così non si perde il senso di una visione unitaria e coesa che può essere venduta come pezzo di letteratura. Cosa è meglio, chiede Comics Alliance, tra «Il Flash di Joshua Williamson, Carmine Di Giandomenico, Neil Googe, Felipe Watanabe, Jorge Corona, Davide Gianfelice e Jesús Merino» e «Il Flash di Joshua Williamson»?
Gli impulsi che hanno governato la percezione delle maestranze negli ultimi dieci anni si sono riflessi nel marketing, con due esempi: Young Guns e gli Architetti Marvel. Concettualmente, Young Guns e gli Architetti Marvel sono simili. Sono entrambe iniziative che promuovono gli autori della scuderia, detta nella più brutale delle maniere. Solo che Young Guns sponsorizzava a rotazione i nomi di giovani e promettenti disegnatori della Marvel, mentre gli Architetti veicolavano l’idea di un universo narrativo retto dai cinque sceneggiatori di punta della compagnia, Brian Bendis, Jason Aaron, Ed Brubaker, Matt Fraction e Jonathan Hickman.
Il libro Make Ours Marvel: Media Convergence and a Comics Universe sostiene che «chiamare i disegnatori più quotati della compagnia young guns suggerisce che siano, in effetti, mercenari, sparatori imberbi che cercano di farsi un nome, l’equivalente fumettistico di Billy the Kid», sensazione corroborata dall’iconografia dello sketchbook a loro dedicato. Solo alcuni dei giovani di belle speranze hanno visto concretizzarsi gli auguri della Marvel, e ad alcuni di loro non sono stati dati che progetti laterali (Trevor Hairsine, Clayton Crain, Ariel Olivetti, quest’ultimo molto critico del trattamento riservatogli). Di contro, gli Architetti rimandano a un modello di stabilità. Gli autori sono già affermati, la loro legittimità in questa sede non è promessa ma confermata. E il concetto sotteso suggerisce visioni grandiose su come trasformare spazi vuoti in opere d’arte. Pensate a Frank Lloyd Wright, Le Corbusier, Mies van der Rohe.
Il titolo sottende che questi autori avessero sviluppato i progetti e le strutture dell’universo Marvel, quando nella realtà dei fatti erano semplicemente i detentori della testate di punta e per questo venivano vissuti come le colonne della compagnia. “Gli Architetti” era un metatesto che serviva a eludere le dinamiche produttive, un retaggio delle modalità promozionali della Marvel anni Sessanta. Era Stan Lee a tenere conferenze nelle università, a venire intervistato, a comparire sui giornali. Era lui il volto della compagnia, non Jack Kirby o Steve Ditko.
Dopo Vendicatori Divisi, un passaggio rilevante è stato Un nuovo giorno, il rilancio dell’Uomo Ragno progettato da Joe Quesada per far tornare Peter Parker un personaggio giovane con cui i lettori potessero identificarsi, dopo le acque compassate in cui lo aveva traghettato J. Michael Straczynski. L’editor del parco testate ragnesche Tom Brevoort chiuse tutti i titoli, facendo confluire la manovalanza nella serie ammiraglia e aumentando la periodicità a tre volte al mese. Per sostenere trentasei uscite annuali strutturò il lavoro come una writers room televisiva, con un gruppo di autori capitanati da un head writer che collaboravano insieme alla stesura delle trame e lavoravano in solitaria ai singoli archi narrativi, disegnati a turno da un gruppetto di disegnatori.
Una modalità produttiva non dissimile da quanto si fa abitualmente in Italia, ma lo sforzo di coordinazione non deve essere valso il gioco: dopo una prima fase, il leader del gruppo Dan Slott prese pieno possesso della testata mentre i disegnatori continuarono ad alternarsi. Per come era impostata la catena editoriale, accentrare la fase di scrittura di una serie regolare su una sola persona fu la mossa più pratica. Rimpiazzare il disegnatore fisso, altrettanto.
L’esperimento è stato poi ripetuto con Avengers Vs. X-Men per volere dell’editor-in-chief Axel Alonso. Composta da dodici uscite, Avengers Vs. X-Men è stata disegnata a sei mani da John Romita Jr., Olivier Coipel e Adam Kubert. Prima del crossover dal gusto videoludico, la miniserie principale di ogni evento estivo era scritta e disegnata da un team fisso che restava quello anche di fronte a eventuali ritardi (House of M, Civil War). Questo per non confondere il lettore, che già si barcamenava tra spin-off e tie-in vari e aveva come unica stella guida il team creativo.
Ma nelle grandi macchine che sono gli eventi Marvel un ritardo è un’opzione non contemplabile, perché il meccanismo deve continuare a girare. «Quando c’è un solo sceneggiatore, un solo disegnatore, magari programmiamo con scadenze ravvicinate e/o lo sceneggiatore decide di aggiungere un numero all’ultimo minuto. Succede». Con quel “succede” Alonso sembra quasi non riuscire a trattenere il ricordo urticante di Age of Ultron, altro evento Marvel schiantatosi contro il muro di lungaggini del disegnatore Bryan Hitch e portato a conclusione da Brandon Peterson e Carlos Pacheco.
«All’epoca di Avengers Vs. X-Men Dan Buckley [il presidente della Marvel, NdR] si arrabbiò più di Hulk Rosso perché non era così che facevamo gli eventi», ricorda Alonso. «Ma quello che importa alla gente è la rapidità di consegna. Sono più disposti a perdonare un cambio di disegnatori che un ritardo, purché i disegnatori siano bravi». Soprattutto i rivenditori hanno bisogno della sicurezza economica che gli viene offerta dai mensili. Il nocciolo della questione interseca motivi economici ed editoriali, meno quelli artistici, anche se testate come Astonishing X-Men o All Star Batman sfruttano il formato antologico per giustificare i cambi di stili (Astonishing anticipa che toccherà punti diversi della storia dei mutanti, mentre All Star si è presentata dall’inizio come la visione personale di ogni disegnatore sul personaggio).
Fare cassetta su un nome o spingerne uno nuovo non è semplice come un tempo. Le celebrità vere si contano sulle dita di una mano e il potere di attrazione si è frammentato nei rivoli di attenzione che abbeverano ogni canale, ogni piccolo webcomic, ogni autoproduzione spuria che ha pensato fosse meglio essere famosi meno, essere famosi tutti. «Non c’è più Wizard con la classifica dei nomi più in voga», ha detto Alonso. «Possiamo fomentare e creare aspettative finché vogliamo, ma non sappiamo quanti, tranne forse Steve McNiven e Oliver Coipel, muovano delle copie».
«I disegnatori non sono più l’ago della bilancia», è la stata la frase perentoria (col senno del poi, passabile di ambiguità) che ha rotto i capillari di Chris Samnee, Declan Shalvey, Brandon Graham e altri, l’ennesima gaffe comunicativa della compagnia. Uno scivolone che la DC Comics ha colto al balzo per promuovere Dark Matter, evento creato – almeno a parole – per valorizzare scrittori e disegnatori e dare loro risalto con la creazione di nuovi personaggi. Guardate quanto affondano il coltello nella carne dei PR Marvel toccando tutti i nervi scoperti (la centralità dei professionisti, la ricerca di eroi ex-novo). La lamentela di Samnee e soci è legittima, persino banale nel modo in cui si sentono sminuiti in un’espressione artistica che li vedrebbe protagonisti: il fumetto è fatto (anche, soprattutto) di questi piccoli incidenti in cui parola e immagini insieme creano un terzo gesto, pulito e violento, che non sarebbe potuto esistere senza l’unione dei due.
Nel 2014, proprio parlando del primo volume di Astonishing X-Men, David Harper ha scritto Comics and the Diminishing Role of Artists in a Visual Medium, un pezzo in cui analizzava il paradosso profondo che ha deformato un mezzo fondato sull’immagine, portandoci in quella che il giornalista chiama «l’Era degli Scrittori».
«Quando guardo ad Astonishing X-Men mi riesce difficile immaginare quella serie nel contesto moderno», ha detto Harper. «Ci sono voluti cinque anni per vedere quei venticinque numeri pubblicati. Nel mondo della doppia uscita mensile di oggi, Cassaday avrebbe disegnato il primo arco, poi gli sarebbero successi altri autori e la serie sarebbe stata meno di quello che avrebbe potuto essere. Per come vengono valutati i disegnatori oggi, credo che ai fumetti sia successo proprio questo: sono meno di quello che potrebbero essere».