Se esiste una serie a fumetti di cui si è colpevolmente sempre parlato troppo poco quella è Manifest Destiny. Sono ormai quattro anni (e quattro volumi) che Chris Dingess e Matthew Roberts portano avanti con rara solerzia la loro creatura e non sono neppure riusciti a guadagnarsi una pagina di Wikipedia. Quanti di noi avrebbero mollato prima? Eppure alle loro spalle hanno un endorsement enorme come quello di Robert Kirkman, cosa che dovrebbe garantire una visibilità non da poco. Parliamo dell’uomo dietro The Walking Dead, qui coinvolto come editore, visto che la serie esce per la sua Skybound . Poi ci sarebbe il fatto che si tratta di un fumetto davvero buono, forse più di moltre altre uscite di Image Comics ben più celebrate.
L’idea di raccontare un fatto vero – la spedizione esplorativa di Meriwether Lewis e William Clark dal Missisipi all’Oceano Pacifico svoltasi tra il 1804 e il 1806 –, arricchendolo di misteri, creature mostruose, violenza e un pizzico di umorismo, è già di per sé encomiabile per coraggio e originalità. Come se il contesto non fosse poi abbastanza affascinante – un The Revenant di Alejandro González Iñárritu ibridato con Lost e poi diretto da Roger Corman –, il continuo scambio tra realtà e finzione lo rende ancora più intrigante. Pensare che due personaggi tanto eccentrici quanto fondamentali alla narrazione come la nativa americana Sacagawea e suo marito, la guida franco-canadese Toussaint Charbonneau, non siano frutto della fantasia dello sceneggiatore ma persone reali che presero davvero parte al Corps of Discovery voluto dal Presidente Jefferson è stata una sorpresa non da poco.
Gli americani sono sempre stati propensi a giocare con la loro storia – valga come esempio su tutti American Tabloid di James Ellroy – ma in questo caso l’ottimo risultato esula completamente dal conoscere la realtà storica. Si dovrebbe parlare di Manifest Destiny prima di tutto perché funziona anche solo a livello di fumetto d’avventura purissima, di quelli con il monster of the month, il cameratismo, la natura selvaggia e il senso di scoperta sempre davanti a tutto. La ricetta perfetta da Star Trek in avanti. Tra le altre cose, come si può ben capire anche solo dai nomi tirati in ballo in queste poche righe, è intuibile quanto la serie sia dipendente dalla cultura pop, evitando però di citare o omaggiare chiaramente opere ben precise. Chris Dinges – scrittore affermatosi come sceneggiatore televisivo – conosce bene i meccanismi alla base della narrazione popolare e preferisce fare suoi i riferimenti, anziché limitarsi all’ennesimo omaggio visivo.
C’è da dire che da chi è stato in grado di portare avanti in maniera soddisfacente una scelta di scrittura così raffinata ci si aspetterebbe altrettanta cura anche per tutto il resto della sceneggiatura. E invece le cose non vanno proprio così. A livello di narrazione, Manifest Destiny è così quadrata da sconfinare spesso nel rozzo e semplicistico. I protagonisti si muovono tra i boschi dell’entroterra americano, trovano un misterioso arco, incontrano il mostro di turno, qualcuno muore, si studia una soluzione, si abbatte il mostro, si passa all’arco – anche narrativo – seguente. Tutte le sorprese vengono giocate con la combo voltapagina + splashpage. Le cose incominciano a farsi leggermente più ricercate con la narrazione parallela del quarto volume, ma è ancora poca roba. Alla stessa maniera i disegni di Matthew Roberts funzionano, nell’insieme, dimostrandosi diligenti e spettacolari all’occorrenza, ma non c’è davvero nulla per cui strapparsi i capelli.
Eppure Manifest Destiny è una serie davvero difficile da mollare, una volta che si è intrapresa la lettura. In primis perché si tratta di una delle pochissime opere di finzione dal tono fantastico in cui non fianiamo mai per chiederci perché qualcuno si stia comportando in maniera tanto idiota. Anzi, spesso Lewis e Clark si muovono in maniera estremamente lucida, trovando soluzioni brillanti a problemi sempre maggiori e gestendo l’equipaggio in maniera razionale e adeguata. Quante volte, riguardando The Evil Dead di Sam Raimi, ci siamo chiesti cosa mai abbia spinto quei cerebrolesi in cantina? O, volendo rimanere in ambito esplorativo, siete riusciti a digerire il biologo manolesta di Prometheus? Su queste pagine una cosa del genere non sarebbe mai successa, dimostrando un’onestà rara nei confronti del lettore. Se due tizi sono stati scelti dal presidente degli Stati Uniti per guidare una spedizione senza precedenti, probabilmente un motivo c’è. Alla stessa maniera vengono gestiti alla perfezione i rapporti umani tra gli uomini del corpo d’esplorazione.
Un esempio su tutti: a un certo punto si palesa lo spettro di un tentativo di stupro da parte di un soldato ai danni di una giovane soccorsa durante la prima parte di spedizione. I superiori dell’uomo lo scoprono e reagiscono male, molto male. Gli si può vedere la schiuma di rabbia agli angoli della bocca. Si parla di violenza sessuale ai danni di una ragazza molto giovane, tanta rabbia mi pare il minimo (e, ancora più correttamente, nella serie il colpevole viene punito in maniera esemplare ma non dato in pasto alla foga più populista; nessuna esecuzione, per intenderci) eppure spesso le cose non vanno così.
Viviamo in un’epoca in cui una scelta tanto cruda viene introdotta in un blockbuster videoludico – quindi qualcosa che dovrebbe divertire per definizione, non mi tirate in ballo That Dragon, Cancer facendo finta che giochino nello stesso campionato – come mezzuccio per evocare “paura e intimidazione”. Qui invece suscita le reazioni forti e disgustate che meriterebbe. E accade molto più spesso di quanto ci siamo abituati in anni di narrazione forzatamente cinica e disillusa. Nelle pagine di Manifest Destiny se qualcuno rimane indietro si va a cercarlo, i civili vanno protetti e si ubbidisce agli ordini del proprio superiore. Il tutto senza far apparire in nessun modo i protagonisti come dei burattini bidimensionali. Anzi, descrivendoli più volte come autentici scavezzacollo capitati in mezzo a qualcosa di molto più grande di loro. Solo che la vita delle persone pare aver ripreso importanza. Certo, qualche maglia rossa la si trova da queste parti, ma è un fenomeno molto limitato rispetto alla media di opere di questo genere.
Nonostante le lacune narrative di cui si parlava, Dingess gestisce i personaggi in maniera elegantissima, profonda e mai, mai banale. Tanto che spesso riesce perfino a infilarci qualche accenno di umorismo altrettanto sottile. Manifest Destiny è il suo palcoscenico, e il comparto artistico non può che limitarsi a seguire pedissequamente la sua sceneggiatura, anche se il concetto di fumetto come forma d’espressione dotata di una sua specifica dignità pare non appartenergli.
Sulle pagine di Fliggering Myth ha raccontato come «un episodio di una serie TV è di solito costruito attorno ai sei atti. Così organizzo i plot dei miei archi narrativi per la serie a fumetti alla stessa maniera, con un albo per atto. Voglio terminare ogni uscita con qualcosa che convinca il lettore a tornare, esattamente nella maniera in cui la conclusione di un atto di un episodio per la TV convince lo spettatore a non cambiare canale. Questa cosa mi ha aiutato anche con i dialoghi. Ho letto alcuni fumetti e le linee di dialogo erano roba che si adattava a malapena al balloon e non sarebbero mai uscite di bocca a una persona vera. Mi piace mantenere il dialogo il più reale possibile, come se un attore dovesse dirlo alla macchina da presa». Tanto per farvi capire quanto la sua attività di scrittore per la televisione rimanga preponderante nel suo lavoro.
Se si sforzasse di abbracciare un poco di più le meccaniche proprie del linguaggio per cui sta sceneggiando, probabilmente anche Roberts avrebbe occasione di affinare le sue capacità di disegnatore. Già adesso la differenza tra le scene più spettacolari – sempre rese in maniera ottima, sopratutto se in ballo ci sono dei mostri – e le sfiancanti pagine di mezzi busti – parecchio legnose – è apprezzabile, c’è solo da immaginarsi cosa potrebbe succedere se il sodalizio diventasse qualcosa di più bilanciato.
Per nostra fortuna la serie sembra destinata a durare ancora a lungo e il tempo per renderla qualcosa di davvero grandioso c’è tutto. Dulcis in fundo, il quarto volume si conclude con una pagina che potrebbe già darci qualche indizio su dove si andrà a parare. Questa volta l’arco di turno è completamente invisibile – tenete conto che il materiale che compone ognuna di queste strutture dà indizi su che tipo di minacce stiano per palesarsi –, la neve comincia a cadere placida e gli uomini della missione sono impegnati a costruire il forte dove dovranno passare tutto l’inverno. Sento già i sintetizzatori di Morricone risuonare in sottofondo.
Manifest Destiny vol. 4
di Chris Dingess e Matthew Roberts
saldaPress, 2017
132 pagine a colori, € 14,90