Il 30 marzo è uscito nei cinema italiani Ghost in the Shell, live action ispirato all’omonimo manga di Masamune Shirow e all’adattamento animato di Mamoru Oshii. Il film è diretto dal regista inglese Rupert Sanders (Biancaneve e il cacciatore) e interpretato da Scarlett Johansson (nel ruolo principale), Michael Pitt, Pilou Asbæk, Juliette Binoche e Takeshi Kitano.
La storia racconta del maggiore Mira Killian Kusanagi, un cyborg che dirige la sezione di Sicurezza Pubblica numero 9, un’organizzazione antiterrorismo cibernetico gestita dalla Hanka Robotics. La squadra si ritrova a dover affrontare un nuovo nemico pronto a tutto pur di sabotare la Hanka Robotics.
Il film è molto atteso, un po’ perché è l’adattamento americano di un cult del fumetto giapponese già trasposto in un anime di grande successo e un po’ per il coinvolgimento dell’attrice Scarlett Johansson – con conseguente polemica relativa al whitewashing.
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Negli Stati Uniti, le prime recensioni hanno rilevato pareri e giudizi abbastanza variegati. Su Rotten Tomatoes – uno dei principali aggregatori di recensioni – il voto complessivo delle 103 recensioni è positivo appena per la metà. Su Metacritic, un sito simile a Rotten Tomatoes, al momento sono state raccolte poco più di 50 di recensioni, con solo 10 positive.
Tra i commenti positivi c’è quello di Guy Lodge di Variety, che ha scritto che il film è puro intrattenimento digitale e «onora in maniera spettacolare lo spirito e l’estetica dell’adattamento animato di Mamoru Oshii senza rendere tutto un cosplay pedissequo». Il film è piaciuto anche a Tim Robey del Telegraph, che scrive: «ci sono momenti che ricreano direttamente le migliori scene di Oshii, con set e attori che eseguono armoniosi calchi delle sue scene. Ma rispetto all’anime la storia è di gran lunga più afferrabile – più snella – e i momenti stilistici, privi di azione, tendono ad essere salienti». Aggiungendo che «per Johansson, questo personaggio potrebbe facilmente diventare un franchising, l’equivalente futuristico e post-umano di un John Wick o un Jason Bourne».
Per Peter Bradshaw del Guardian la pellicola raggiunge la sufficienza, essendo «spettacolare e a suo modo guardabile, ma che – a prescindere dal dibattito sul whitewashing – sacrifica l’aspetto dell’anime che in 20 anni ha raccolto tantissimi fan sfegatati: il mistero cupo e di culto che questo film è determinato a risolvere in modo definitivo, pur creando un franchise».
Jordan Mintzer di The Hollywood Reporter dice che il film è in gran parte deludente e che non riesce a replicare gli intenti dell’anime: «Se il “fantasma” nell’anime di Ghost in the Shell si riferisce all’anima incombente all’interno del cyborg, allora questo live action del regista Rupert Sanders si ferma solo al guscio [shell, in inglese]: un lavoro realizzato in gran parte al computer, con più corpo che cervello e più immagini che idee, come se l’hard disk del film originale fosse stato ripulito di tutto ciò che era oscuro, poetico e mistificante». È più o meno dello stesso avviso Rosie Fletcher di Digital Spy: «Senza dubbio bellissimo da guardare, ma in fondo rimane un film d’azione futuristico piuttosto standard. Un guscio con all’interno il fantasma del nulla».
«Il film è esteticamente troppo inebriante per essere ignorato, ma anche troppo derivativo per essere amato», scrive Ben Call di The Wrap, aggiungendo: «È la dimostrazione di quanto di buono la magia del design di Hollywood possa realizzare nel 2017. Allo stesso tempo, però, lo fa in funzione di un racconto stanco, infarcito di trucchi visivi già visti e con una narrazione piena di luoghi comuni».
Una considerazione curiosa arriva da Time Out New York: «Se il volto granitico di Takeshi Kitano è l’elemento più umano del film, qualcosa è andato davvero storto». A dire il vero, visto che si tratta di un film su intelligenze artificiali e data la conclamata bravura di Kitano, l’affermazione è discutibile, ma si tratta più che altro di un attacco trasversale alla Johansson, che viene definita «senza anima».
Anche il New York Times assicura che «non c’è anima» e consiglia di «godersi i credits, perché offrono alcune delle immagini più spettacolari di un film visivamente confuso e in generale scialbo». Riguardo alle pieghe della trama arraffazzonate per giustificare il whitewash della protagonista, il NYT afferma in modo piuttosto laconico, nel chiudere la recensione: «Questa non è solo appropriazione, è distruzione».