Siamo nel 1989. Sulle pagine della rivista Young Magazine di Kodansha arriva la prima puntata della nuova opera di Masamune Shirow, già mente dietro al celebrato franchise Appleseed. Solo limitandoci ad analizzare la doppia titolazione scelta dall’autore abbiamo abbastanza informazioni per capire dove si sarebbe andato a parare. Ufficialmente la serie viene battezzata come Squadra Mobile con Corazza Offensiva (suona meglio nella versione inglese “Mobile Armored Riot Police”), chiarendo subito il feticismo del mangaka per un certo tipo d’azione fatta di scontri a fuoco, politica e personaggi sufficientemente badass. Peccato che il nostro insista con gli editori per inserire anche quella che era stata la sua prima idea per il titolo, ovvero quel Ghost in the Shell con cui il fumetto sarebbe diventato celebre in tutto il mondo.
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Un esplicito omaggio alle riflessioni sul dualismo tra mente e corpo del filosofo Gilbert Ryle – citato a sua volta anche da altri giganti della fantascienza come Arthur C. Clarke – così come un ponte verso quell’informatizzazione che da lì a pochi anni sarebbe esplosa in maniera definitiva. In gergo tecnico lo shell è infatti una parte di sistema operativo che permette all’utente di interagire direttamente con il terminale con cui sta lavorando. Alla stessa maniera con il termine ghost ci si può riferire alla copia integrale del proprio hard-disk in una sede momentanea o a un particolare caso di sessione di IRC (protocollo di messaggistica istantanea del web nato nel 1988) in cui un utente disconnesso viene comunque segnalato come attivo dal server. Un affastellarsi di significati complesso e spesso stridente, ma che restituisce bene le sfaccettature del lavoro di Shirow. Da simili presupposti non poteva che nascere un’epopea labirintica e sbilanciata, eppure carismatica come poche altre. Destinata al successo globale nonostante la frequenti chiusure sulle proprie idiosincrasie. Poco importa se si tratti di procaci ragazze in autoreggenti o sull’insistere a ogni costo su filosofia e massimi sistemi.
Sebbene tutti conoscano a grandi linee la trama di Ghost in the Shell grazie al capolavoro animato di Mamoru Oshii, vale la pena ricordare come la sua origine cartacea si distanzi in maniera significativa dalla consacrazione su pellicola. Anche in questo caso assistiamo alla caccia senza quartiere del maggiore Motoko Kusanagi, una cyborg dalle spiccate capacità offensive, nei confronti del misterioso Burattinaio. Il tutto però si limita a una trama orizzontale che si snoda tra le singole missioni portate a termine di capitolo in capitolo dalla famigerata Sezione 9. In questi episodi veniamo trascinati in un vortice stordente di fantapolitica, militarismo, riflessioni sull’idea di totalitarismo e parecchia azione dal taglio particolarmente violento.
I plot – così come le tavole – sono dense ben oltre il livello di guardia, e spesso ci si perde tra arzigogolati discussioni su leggi e provvedimenti da parte delle autorità, personaggi che vanno e vengono senza troppi problemi e, sopratutto, il vizio di Shirow di lasciare un sacco di roba in sospeso. Non è un mistero che si tratti di una lettura piuttosto faticosa, e che richieda uno sforzo non indifferente per venirne a capo. La sceneggiatura è nervosa quanto la regia, spesso tanto febbrile da chiedersi quanto questo effetto fosse effettivamente ricercato da Masamune. «A volte i lettori si lamentano», spiegava l’autore al suo traduttore Frederik L. Schodt in un’intervista del 1998. «Mi rendo conto che le mie storie devono essere di facile fruizione, e cerco di renderle semplici da leggere. È un braccio di ferro. Io non voglio fare storie troppo semplici, né le voglio scrivere troppo complesse. Faccio fatica a trovare un buon bilanciamento. […] So che è difficile per i lettori a volte».
Una tensione interna che viene esplicitata – in piena contraddizione con le ellissi di cui parlavamo nel paragrafo precedente – dalla sovrabbondanza di annotazioni riservateci dall’autore. Aspetto quasi parossistico, se si considera di quali aspetti marginali dell’universo dove prende vita New Port City vadano a parlare. La finta alimentazione dei cyborg viene sviscerata con minuzia, così come il funzionamento della mente condivisa dei Fuchikoma. Neppure il successivo Alita di Yukito Kishiro arriverà a una tale sovrabbondanza di dati distribuiti sulle tavole tra note, schemi esplicativi e micidiali muri di testo. In Ghost in the Shell tutto appare perfettamente logico, razionale, ben progettato. Si viene presi anche solo per sfinimento e ci si convince che il mondo davanti ai nostri occhi abbia una concretezza davvero unica. Una capacità di worldbuilding capace di gareggiare ad armi pari, per minuzia al limite dell’autistico e ricerca del particolare solo apparentemente secondario, con campioni del genere come il moderno romanziere China Miéville.
«La redazione del bilancio generale (preventivo) dello Stato avviene negli ultimi dieci giorni di aprile e deve essere consegnata entro lo stesso agosto, secondo i termini stabiliti dal Ministero delle Finanze, il quale entro l’anno deve presentare la valutazione all’assemblea di gabinetto e informare in via ufficiosa ogni Ministero…» riporta una nota a pagina 46, dilungandosi ulteriormente sui vari meccanismi di finanziamento statale del Giappone del 2029. Il risultato di un tale sbilanciamento tra narrazione lacunosa e un continuo flusso di informazioni sull’ambiente è uno degli aspetti più peculiari di quest’opera.
Non sappiamo se essere schiacciati dai troppi dati disponibili o arrancare alla ricerca di un bandolo logico nel corso degli eventi. Come se fossimo delle reclute appena arruolate nella Sezione 9 a cui nessuno è tenuto a spiegare nulla – avete presente Emily Blunt in Sicario, no? – cerchiamo semplicemente di non affogare sballottati tra un caso e l’altro mentre cerchiamo di capire il più possibile su di un mondo che, ancora oggi, ha perso pochissimo del suo fascino. Un fatto palese, percepibile anche solo sfogliando le tavole senza leggere una singola parola. E questo perché il Masamune disegnatore, a differenza di quello che indossa il cappello da sceneggiatore, ha davvero pochi pari.
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Che Shirow rimanga prima di tutto un artista visuale è fuori da ogni dubbio, capace di pescare da ogni influenza potesse venire a contatto un ragazzo cresciuto nella Kobe degli anni ’70 . Dalla sua passione per gli aracnidi – nel 1995, alla domanda «Cosa fai nel tuo tempo libero?» rispondeva con un laconico «Fotografo ragni» – prendevano forma i carri armati monoposto esapodi con cui spesso i protagonisti si ritrovano a interagire. Senza mezzi termini, uno degli esempi di design della fantascienza più luminosi degli ultimi trent’anni, capace di sviluppare un‘autentica mitologia nella mitologia rimanendo incastonati in maniera indelebile nell’immaginario collettivo fin dalla prima apparizione. Alla stessa maniera l’attenzione maniacale dell’autore per armi, visori e veicoli ha permesso a queste pagine di invecchiare pochissimo nel corso degli ultimi 26 anni.
È incredibile quanta poca differenza ci sia tra il progetto di Shirow per il visore associato alla tuta per il camuffamento termo-ottico e i recenti HTC Vive o PlayStation VR. Proprio i combattimenti che vedono questa tecnologia di occultamento come protagonista sono tra le pagine più celebri di tutta questa saga, tanto da essere ripresi sia nell’anime quanto nel live action in uscita. E se sul grande schermo i registi si sono potuti appoggiare al movimento come al sonoro per riuscire a rendere intellegibile lo svolgimento dei fatti, Masamune poteva contare solo sul suo tratto. Il risultato non sempre funziona, ma quando arriva al punto si ha la chiara percezione di avere sotto gli occhi una soluzione visiva di rara potenza. Di quelle sfruttate ancora oggi dai blockbuster di Hollywood per costruirci una preview a effetto.
Destino che di certo non spetterà alla scena dell’orgia lesbica del terzo capitolo, episodio reso celebre anche dalla colorazione dell’autore. Non proprio un esempio di minimalismo grafico. Ma poco importa, perché quelle che vediamo avvinghiate tra loro non sono tre ragazze, ma esseri artificiali, perfetti, dall’esplicita essenza sintetica. Conversano freddamente e al contempo consumano amplessi. Il tutto apparentemente fuori contesto, come una scheggia di fan service grezza e inutile. In realtà l’attenzione per i corpi di Shirow rispecchia appieno le sue visioni politiche. Il pericolo più tangibile in Ghost in the Shell non è il terrorismo o la corruzione, ma un soft power quasi dittatoriale, improntato sul materialismo. «Il consumismo… quello sì che è una violenza nei confronti dei paesi poveri», sbotta a un certo punto Motoko, sotto processo per i suoi metodi funzionali all’ordine pubblico ma un tantinello sommari. E in un simile contesto come potevano essere progettate le cyborg dal fenotipo femminile se non come bambole di una bellezza plasticosa e offensiva?
Quando la protagonista si reca in un centro per la manutenzione, l’infermiera di turno non si presenta certo in camice, ma in reggicalze e sgambatissimo slip da inizio anni ’90. La versione cyberpunk di certe commedie italiane con Gloria Guida. Pensare che l’uomo che ha speso tanto tempo e fatica per costruire il mondo plausibile di cui stavamo parlando prima si conceda una scelta simile solo per pigrizia è del tutto fuorviante. Anche perché il tema ritorna più volte. Le facce paiono tutte maschere in lattice – comprese concessioni super-deformed nei momenti più leggeri – e i burattinai dietro manipolazioni economiche o di potere spesso sono particolarmente corpulenti. Come i padroni che vessano il popolo in una vignetta satirica di quasi 200 anni fa. Ancora più significativa è la resa grafica dell’amministratore delegato della multinazionale Anka: una scatola con un braccio meccanico. Aspetto reso più ironico dal fatto che l’impresa da lui condotta si occupa di costruire e commercializzare corpi bionici di ultima generazione. Probabilmente Shirow ha qualche dubbio sul fatto che l’ad di McDonald’s conosca il gusto dei suoi panini.
Questi sono solo alcuni degli aspetti salienti di un’opera che ha generato un franchise enorme, tra seguiti, serie tv, videogiochi, lungometraggi animati e remix 2.0 degli stessi. 340 pagine spesso al limite del comprensibile, frustranti e dal peso specifico non indifferente, ma che ancora oggi segnano uno degli standard della fantascienza. Il 30 marzo arriverà nelle sale cinematografiche la nuova versione live-action – questa volta prodotta da Hollywood – e, nonostante i milioni di dollari e il futuro in cui viviamo, sulla locandina e nei teaser c’è ancora lei: la tuta bianca di Motoko. Proprio come se l’era immaginata Shirow nel 1989.