L’inclusione di unastoria di Gipi tra i 27 candidati al Premio Strega 2014 ha fatto notizia. Come era prevedibile. E ha generato discussioni piuttosto accese. Come era prevedibile.
La notizia, venerdì scorso, aveva subito acceso quella vasta attenzione che è dovuta a una “prima volta” come l’ingresso di un fumetto nella rosa dei papabili al principale premio letterario nazionale. Ma il dibattito, per avvitarsi su stesso, ha impiegato davvero poco: lo spazio di un weekend, quando il tweet di Jacopo Cirillo – giornalista e fumettista – ha acceso una polemica fondata su ambigui distinguo, e con roboanti ricadute sulle “finalità culturali” di tale dibattito. Un po’ il sapore delle “polemiche di sinistra, sulla sinistra”, un po’ la prosopopea di certe discussioni sulla produzione culturale – e un po’ la confusione di chi del fumetto ha una visione un po’ romantica (fumettòfili inclusi).
La scrittrice Silvia Ballestra, infatti, difendendo Cirillo dalle critiche di @zeropregi (“pensavo che il fumetto fosse una forma di scrittura”) si era subito schierata per la difesa della “dignità del fumetto”.
Il paradosso di Gipi allo Strega: per alcuni un degno successo, per altri una occasione indegna.
Quel che ho fatto notare, è che l’osservazione di Cirillo è corretta nella misura in cui sottolinea un aspetto oggettivo: la pertinenza. Il fumetto non usa la stessa materia linguistica/espressiva di un romanzo letterario, sacrosanto. Ma il dibattito che ne è seguito (esempi: il giornalista Andrea Coccia, i fumettisti Emiliano Pagani e Daniele Caluri, o ancora Cirillo vs. Andrea Sesta) ha interpretato la non-pertinenza di Unastoria come un affronto all’autonomia e legittimità culturale del mezzo. E su questo vale la pena ritornare, perché la questione è ricca di implicazioni paradossali. Che ci ricordano come il fumetto sia un campo meno nitido – nel bene e nel male – di quanto talvolta vorremmo credere. Per quattro ragioni.
1) La candidatura di Gipi allo Strega è una buona notizia?
Ritengo di sì, eccome. E credo che prenderne atto conti molto, prima di ogni distinguo. Perché rappresenta non solo quel che si dice un “segnale”, ma un autentico risultato: un buon fumetto che riesce a generare l’attenzione dovuta (attraverso il veicolo di un qualsivoglia riconoscimento ‘rilevante’) alle migliori creazioni culturali. Per questo, pur condividendo con Cirillo o Coccia la consapevolezza che Gipi e Sandro Veronesi non pratichino lo stesso linguaggio, credo che le reazioni “entusiastiche” della stampa e dei lettori che hanno considerato la notizia “una specie di conquista” – criticate da Coccia – siano perciò persino ragionevoli.
Le periodiche e diffuse lamentazioni sulla scarsa attenzione verso il fumetto da parte dei media e delle istituzioni culturali, tanto spesso ribadite da fumettòfili e operatori del settore, non possono non scontrarsi con un fatto positivo: Unastoria di Gipi ha ottenuto un risultato importante. E questo conta e deve contare.
2) Un problema strategico: il premio (letterario, peraltro)
Quel che di utile sollevano le polemiche di Cirillo, Ballestra, Coccia, Caluri&Pagani, nonostante le ambiguità, sono però almeno un paio di questioni. La prima ben evidenziata dai creatori di Don Zauker: “Il messaggio che leggiamo tra le righe è che il Gran Guinigi o il Premio Micheluzzi (per citare due a caso dei più importanti premi italiani per i fumetti) sono cazzatelle per ragazzini o per adulti rincoglioniti, mentre il Premio Strega è roba seria”.
Un altro dato che non possiamo non riconoscere: la debolezza dei premi italiani del settore, combinato disposto di disorganizzazione, scarsa credibilità e mancanza di visione (per esempio qui), contribuisce a creare un vuoto di autorevolezza che lo Strega si trova a colmare con particolare facilità. Il successo di Angoulême, come ripeto spesso, è legato non solo alle cifre – ormai persino inferiori a Lucca C&G – bensì alla abile gestione di mostre e Premi, governati come strumenti con cui fare “politica culturale” sull’identità del fumetto. La rilevanza di Gipi-allo-Strega è quindi speculare (anche) all’irrilevanza di Gipi-a-Lucca/Napoli.
Si tratta di un problema strategico, sul quale insisto – non da solo (forse) – da tempo, e che un caso come questo riporta al centro. Magari offrendoci un’occasione per affrontarlo con maturità: senza un serio lavoro sull’identità e sul ruolo dei riconoscimenti fumettistici, questo settore continuerà ad essere privo di un’arma decisiva per influenzare il dibattito pubblico.
Il che non deve invitarci a scambiare la questione dei premi come la sola, grande ‘battaglia’. Perché sullo sfondo c’è un tema più ampio come la rilevanza sociale della letteratura, che era e resta (resterà) superiore a quella del fumetto, non solo in Italia. Per ragioni ideologiche del tutto contestabili (l’antico primato della parola sul disegno o, per buttarla sul novecentesco, sui linguaggi ‘ibridi’ e sui media). Ma anche per ragioni storiche del tutto comprensibili e – perché no? – serenamente accettabili: la letteratura esiste da secoli prima del fumetto, e fingere che questo sia ininfluente non aiuterà a risolvere qualsivoglia complesso di inferiorità.
Prendersela, nel 2014, col fatto che la letteratura sia socialmente più rilevante/influente del fumetto? Ovvero: siamo ancora al dibattito sulla (insufficiente) legittimazione culturale del fumetto, come negli anni ‘50/’60 di Umberto Eco, Marshall McLuhan o Alain Resnais? Per fortuna, non credo proprio. Next, please.
3) L’ingarbugliata questione (concettuale): il fumetto come letteratura
L’altro problema utile sollevato dalla polemica è quello, come dicevo all’inizio, della pertinenza del fumetto in un ambito letterario. Un punto su cui condivido quanto scritto dai ‘critici’, nel senso che il problema esiste, ed è tutto concettuale: fumetto e letteratura non sono sinonimi. E se il fumetto non è un’opera letteraria, dobbiamo prendere atto che locuzioni come quella coniata da Pratt – “letteratura disegnata” – vanno considerate per quello che sono: metafore. Niente di meno, niente di più. Il fumetto è narrazione, ma non letteratura; quanto vale per il cinema o il videogioco vale anche per la Nona arte.
Tuttavia, liquidare la metafora prattiana (che lo Strega incarna e rende più reale che mai) rischia di farci cadere in un tranello propriamente teorico: considerare il fumetto un medium “non-letterario” al pari di cinema o videogame. Il che non è corretto. Anche perché ci potrebbe far dimenticare che la presenza dei testi, in esso, è un dato rilevante. Già, perché sebbene il fumetto possa di per sé fare a meno della parola scritta, molto spesso ne fa un uso significativo. Inoltre, sebbene utilizzi la scrittura in una forma profondamente grafico-visiva (il senso del balloon, del lettering e delle onomatopee è farsi leggere, ma anche guardare), spesso la usa *solo* per la sua funzione semantica: esprimere una narrazione, alfabeticamente parlando. Come la letteratura.
Il fumetto non è letteratura, quindi – ma è anche (talvolta) letteratura. Ovvero: in un premio letterario il fumetto non è pertinente – ma in parte sì. Lo so, ragionando così il caso di Gipi allo Strega si fa complicato. Ma il problema è – guarda un po’ – che il fumetto non è un campo (un linguaggio) ‘semplice’, e ci tocca fare i conti con la sua complessità.
4) La forza – e il paradosso – del medium impertinente
A valle di questa polemica, dei suoi caotici distinguo e delle questioni – strategiche, concettuali – che ci costringe a considerare, il punto cruciale su cui tutti sembrano sorvolare, è proprio nella natura paradossale di questa complessità. Da un lato il fumetto non è pertinente nel campo letterario… ma anche sostenere il contrario non è del tutto corretto. Dall’altro, se anche fosse giusto non ritenerlo letteratura, guardiamo in faccia la realtà: da ormai trent’anni il fumetto continua a fare capolino in diversi premi letterari, in giro per il mondo.
Analogamente, e da altrettanti decenni, il fumetto si trova ad essere spesso selezionato ed esposto in premi, festival e biennali d’arte figurativa (in cui le opere letterarie non entrano). Da qualche tempo, poi, capita anche di trovarlo incluso in premi di design e grafica (in cui la testualità letteraria non riesce certo ad accedere).
Come è possibile che equivoci tanto profondi continuino ad alimentarsi senza sosta? Siamo tutti convinti che il fumetto sia “altro” dalla letteratura, dall’arte, dal design – con una sua autonomia culturale, espressiva, semiotica. Eppure, il fatto che si ritrovi periodicamente a competere con le migliori creazioni in questi ambiti, non avviene per caso.
Tutto ciò accade, e continuerà ad accadere. Perché il fumetto è una forma anfibia fra figurazione e astrazione, scrittura e design, cultura popolare e media. Forse perché è anfibio anche antropologicamente, nato com’è – e senza alcuno strappo tecnologico – a cavallo tra il mondo pre-moderno e quello della modernità (una delle ragioni che lo rendono tanto affascinante, come ho provato a spiegare più estesamente in questo libro).
E allora facciamocene una ragione. Per quanto suoni paradossale, in questa inestricabile contraddizione risiede la forza del fumetto. Una forma espressiva che – ebbene sì – tiene il piede in più scarpe. Con buona pace dell’idea di pertinenza – ovvero di separazione fra i linguaggi (le arti) – che quel bastardo Fumetto mette in crisi da un paio di secoli, complicandoci (felicemente) ogni seria discussione.