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Cinefumetti all’incontrario. Smetto quando voglio – Masterclass

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Come è noto, i cinecomics spopolano ormai da qualche anno su scala planetaria. Persino in Italia, negli ultimi tempi, abbiamo registrato qualche segnale in linea con questo fenomeno statunitense (ma non solo: guardate la Francia). Tuttavia, siccome siamo pur sempre un paese *originale* [insert eufemismo], va anche detto che dalle nostre parti si assiste anche a un piccolo trend all’incontrario: la diffusione di fumetti che al cinema si ispirano, anziché viceversa. Comics-cine invece di cine-comics o, se volete dirla all’antica, “adattamenti”, fumettizzazioni o qualcosa del genere.

In Italia succedeva nella prima metà del Novecento con, su tutti il Totò a fumetti, preceduto da altri casi, come l’esperienza di Walter Molino sul finire degli anni Trenta (Luciano Serra pilota, da un film del ’38). Erano tempi in cui per i più giovani il fumetto era assai più accessibile e diffuso di altri medium. Ora l’intrattenimento mediato tramite il video è più popolare del fumetto, per i giovani. Quindi perché ripercorrere quei passi? Che l’intento sia quello – anziché di popolarizzare il cinema – di cercare di popolarizzare il fumetto e i suoi autori, forse per raggiungere l’America e aspirare ad avere anche noi film ispirati a fumetti o fumettisti che lavorano nel mondo del cinema e delle serie televisive? Dalla qualità che mostrano i nostri recenti “comics-cine”, le ipotesi sembrano essere più quest’ultime, e non la più genuina pianificazione di creare e sfruttare in maniera adeguata un franchise.

smettoquandovoglio zerocalcare

Complice il successo di Lo chiamava Jeeg Robot e del fumetto a esso ispirato distribuito nelle edicole, un destino simile capita anche a Smetto quando voglio – Masterclass, seguito di Smetto quando voglio (2014) nelle sale dal 2 febbraio e in edicola con un fumetto a esso ispirato, scritto da Roberto Recchioni (John Doe, Dylan Dog) e disegnato da Giacomo Bevilaqua (A Panda piance, Il suono del mondo a memoria). La trama:

Alcuni ricercatori universitari tentano di uscire dalla precarietà producendo e spacciando smart drugs (sostanze stupefacenti al limite del legale), ma finiscono per avere problemi con la malavita romana. Nel seguito collaboreranno con le forze dell’ordine. Un Breaking Bad corale che finisce in tarallucci e vino.

Mi avvicino al fumetto di Smetto quando voglio – Masterclass con lo sguardo di chi al cinema non ci va (giuro: una o due volte l’anno). Il film non lo vedrò, ma voglio capire che fumetto ne è uscito fuori, perché sono convinto che al di là del film, il fumetto che esso ispira debba essere leggibile a sé (inutile fare esempi, adattamenti e buona parte degli spin off necessitano di vita propria).

I protagonisti del fumetto sono il team di ricercatori del film, ai quali è concessa una breve avventura collaterale. Devono scovare una smart drug particolare, che si chiama Variant, e sta nelle copertine variant dei fumetti, e la si lecca involontariamente sfogliando un albo. Dopo le prime pagine dove autorefenzialmente appaiono gli autori dell’albo – non so a quanti del grande pubblico del cinema importi davvero conoscerli – non c’era modo peggiore di continuare se non quello di incrementare l’autoreferenzialità, facendo un fumetto che parla di fumetti. Io avrò anche una certa avversione per l’autoreferenzialità, ma qui sono stato messo alla prova. Non credo serva a niente, se non a distaccare il lettore, farlo pensare ad altro, allontanarlo, anziché portarlo a empatizzare con la storia.

Peraltro, per fare un esempio, in più occasioni non mancano battute come:

Siamo in un fumetto, è un linguaggio più sintetico e stilizzato.

Il fumetto, questo sconosciuto. Passi una volta, ma ripetuta la battuta non diventa vera, e nemmeno più divertente. Non credo affatto che il fumetto sia «un linguaggio più sintetico e stilizzato». Eppure, operazioni come questo fumetto sembrano affermarlo, e ribadire una certa inferiorità presunta, con un atteggiamento da complesso di inferiorità rispetto ad altri medium che non dovrebbe esistere e non andrebbe alimentato. C’è pure un monologo in cui si cerca di far pena spiegando come il settore della carta stampata «stia passando un periodo di forte depressione», ci sono poche tipografie e «quelle rimaste si sono dovute abbassare a stampare un po’ di tutto, anche le cose più umili come i volantini del kebabaro e i fumetti…». Immagino che, nell’avvicinare volantini di kebabaro e fumetti, ci siano intenzioni ironiche che stento a cogliere. Ma ci vedo pure un po’ di complesso di inferiorità che non credo sia utile trasmettere.

SQVM
I disegni di Bevilacqua sono asciutti, piatti, senza particolare personalità, ma credo sia necessario, visto che il fumetto è un linguaggio più sintetico e stilizzato, rispetto al cinema. Al testo va peggio, letterato male e intriso di quella lingua post cinematografica tipica dei film d’azione tradotti male, che non è italiano e non è reale (nessuno nella vita vera non si dice «va bene… facciamolo!», traduzione letterale di “okay… let’s do this”, si dice, magari: «bene… diamoci da fare!»).

Sul finire della storia il cerchio si chiude, tornano le variant, e si citano quelle realizzate per l’albo stesso, da ZeroCalcare, Roberto Recchioni, Giacomo Bevilacqua, Riccardo Torti; e si ironizza poi sulle pubblicità progresso più o meno nascoste di film e serie tv.

Smetto quando voglio Masterclass – il fumetto – è un derivato, che della derivazione fa un difetto. Avrebbe senso – forse – come albetto da distribuire al cinema, in omaggio, da dimenticare sui sedili della sala.

Smetto quando voglio – Masterclass
di Roberto Recchioni e Giacomo Bevilacqua
40 pagine, colore – 2,5€
RCS – La Gazzetta dello Sport

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