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Appunti ordinati sui fumetti Marvel di Star Wars

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Nell’impero di Guerre stellari, l’Universo Espanso (l’insieme di prodotti extra-filmici dedicati alla saga e comprendente libri, fumetti, videogiochi e serie tv) è tanto – se non più – importante quanto i film stessi. Sono anche più vecchi, visto che il primo fumetto di Guerre stellari uscì un mese prima del film originale. Più delle serie tv, più dei libri, quasi quanto le action figure, i fumetti servirono al triplice scopo di lanciare la saga, farne da tessuto connettivo lenendo l’attesa del capitolo successivo e, quando la trilogia originaria giunse al termine, portare sangue ossigenato al cuore dei fan, orfani della serie.

Star Wars

È strano dirlo, considerando che i film di Guerre stellari sono un prodotto difficile da replicare su carta. Azioni movimento suono musica sono energie che mal si traducono in immagini mute e statiche (e comunque non tutti i disegnatori hanno il colpo d’occhio di Lucas). Guardare i duelli con le spade laser senza gli effetti sonori di Ben Burtt può essere un’esperienza mortificante. Eppure l’immaginario lucasiano aveva trovato nel fumetto il modo migliore per preservare e accrescere la mitologia ufficiale. È stato così fino ai primi anni Duemila, specialmente nel periodo Dark Horse. Oggi hanno un ruolo diverso. In televisione c’è una serie a cartoni, i videogiochi marchiati Star Wars si ammonticchiano accanto alle console, di romanzi sono piene le librerie, ed esce un film di Guerre stellari ogni dodici mesi. Internet poi ha colmato il vuoto affettivo, e per forza di cose i fumetti hanno dovuto cambiare pelle.

L’hanno cambiata tornando in Marvel, l’editore licenziatario originario, dopo il ventennio trascorso in Dark Horse, dove erano stati foraggiati da autori di fama medio-bassa. I boss Marvel hanno da subito sostituito la carta da parati, annunciando team creativi di lusso e varando storie con protagonisti i personaggi più amati dai fan (la trinità Luke-Leila-Han). Risultato: Star Wars #1 è uscito nel gennaio 2015 e ha venduto un milione di copie. D’accordo, con 67 copertine variant del primo numero di una property fidelizzatissima realizzato da autori di grido sono bravi tutti, si potrebbe dire.

Solo che, albo dopo albo, i numeri hanno continuato a reggere, combattendo l’erosione fisiologica dei lettori e oggi, due anni dopo il varo di Star Wars #1, il parco editoriale di Guerre stellari è uno dei più redditizi. Darth Vader si è conclusa quest’autunno con il numero 25, venduto in 111.381 esemplari (ma la media era di 70.000 copie, un buonissimo risultato), a dimostrazione che in Marvel sono consapevoli del potere del marchio e intendono preservarlo. Sono passati due anni ed è un tempo ragionevole per intuire la traiettoria di questo universo.

Lo Star Wars versione Marvel è un parco collane che fa capitolo a sé, come fanno X-Men, Avengers o Spider-Man, e devono quindi avere una coordinazione svizzera tra di loro. A orchestrare il gruppo è stato chiamato Jordan D. White, editor che ha alle spalle il lavoro sugli X-Men (Uncanny X-Force, Deadpool, Wolverine e gli X-Men). Laureato in letteratura inglese e scrittura creativa, White ha fatto gavetta in una radio studentesca di Binghamton, New York, dove produceva, scriveva e recitava in serial radiofonici. Supervisionare tutta la filiera di un prodotto settimanale deve essere parso un buon terreno di prova per un marchio che si ispira proprio a quel formato.

Sopra White c’è un ulteriore vaglio, effettuato dallo story group di Lucasfilm, il consorzio che gestisce ogni narrazione di Star Wars. Prima dell’entrata in Disney, il canone della saga era gerarchico, c’erano storie che erano più canoniche di altre, in una graduatoria che andava da “approvato da George Lucas” a “what if”, ma il controllo incrociato non era sufficientemente rigoroso da permettere un’unica visione coesa  Il nuovo think tank ha abolito questo canone in favore di una continuity orizzontale in cui – salvo eccezioni – ogni prodotto sarà una pezzo di storia ufficiale. Sono loro che hanno in testa il grande quadro che si forma una volta messi insieme libri, film, fumetti, videogiochi e serie tv, e sono loro che decretano cosa possono o non possono raccontare gli autori. White lo racconta con un misto di ammirazione e fastidio: «Leggono tutto. Gli mandiamo le sceneggiature e loro ce le rimandano indietro con le annotazioni. Gli mandiamo le tavole e loro ce le rimandano indietro con le annotazioni. Gli mandiamo il fumetto finito e loro ci rimandano indietro con le annotazioni pure quello».

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La linea di White e del brain trust passa attraverso alcuni punti cardine. I fumetti devono sembrare i film. Devono avere storie, personaggi, ambienti che si avvicinino ai film, si devono leggere come dei film e devono assomigliare all’aspetto dei film. Compito tutt’altro che facile: Darth Vader ha come protagonista un personaggio le cui caratteristiche peculiari, la voce e il respiro asmatico, sono irriproducibili in un fumetto, non importa quante onomatopee con scritto “Kooo… Hissss!” ci si photoshoppi sopra; la miniserie Chewbecca si poggia tutta su un personaggio i cui unici dialoghi sono suoni gutturali. In soccorso sono così arrivati coloristi di fascia alta, da Laura Martin a Edgar Delgado, la cui tavolozza digitale compie un atto mimetico netto nei confronti della fotografia de L’Impero colpisce ancora.

Affinché i contenuti siano altrettanto mimetici, le storie devono parlare dei personaggi più amati nel periodo temporale più amato (la trilogia originale). Dove la Dark Horse spaziava dalle ere antiche alle generazioni future allontanandosi anche di molto dagli anni conosciuti della serie e dando l’idea che esistesse per davvero una galassia sterminata in cui potrebbero avere luogo zilioni di avventure, la Marvel stringe il cerchio attorno al nucleo dei protagonisti classici.

E infatti l’universo è talmente piccolo e le combinazioni possibili limitate che già le prime storie di Jason Aaron e Kieron Gillen, autori delle due testate principali, sono state raccontate durante l’egida Dark Horse. Nel 2013 era stato varato uno degli ultimi fumetti Dark Horse, Star Wars, la prima serie regolare con quel titolo dopo vent’anni. Il concept era lo stesso della serie Marvel: raccontare le avventure di Luke, Leila e Han nel lasso temporale tra Una nuova speranza e L’Impero colpisce ancora. Scritta da Brian “molestie sessuali” Wood e disegnata da Carlos “so che non mi conosci” D’Anda, Star Wars trattava la materia come fosse un grande cartone animato, dando però spessore maggiore alla figura di Leila (non so bene che cosa ci dica questo di Wood); nel 1999, la miniserie Vader’s Quest disegnata da Dave Gibbons, raccontava di come Vader metabolizzasse la distruzione della Morte Nera andando alla ricerca del pilota che aveva messo in ginocchio l’Impero.

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Quando parlo di contrazione a scapito del respiro immaginifico lo faccio perché si avverte a prima vista che è così: nella versione Dark Horse, Vader scopre l’identità di Luke assoldando un gruppo di mercenari (tutti creati appositamente) perché torturino un pilota ribelle di Centares (pianeta ex-novo) che gli consegni il nome del ragazzo, il quale intanto è impegnato a salvare la principessa dell’inedito pianeta Jazbina. È una miniserie più dalle parti di un fantasy alla Edgar Rice Burroughs (guardate il totale della pagina qui sopra, mi sembra che sia ben chiara la cifra del design dei personaggi). Nel nuovo canone Marvel, Vader assolda Boba Fett per scoprire il nome del pilota. Il cacciatore di taglie visita Tatooine, fa un giro di interrogatori nella cantina di Mos Eisley, si scontra faccia a faccia con Luke e poi riporta la notizia al suo committente. Una storia che tocca un paio di luoghi e personaggi di primissimo piano della saga.

La missione editoriale è tenere tutto più compatto, cercando di introdurre in ogni storia almeno uno o due frammenti conosciuti, a mo’ di un continuo greatest hit rinnovabile. Con i pro e i contro della situazione, perché se viene meno il senso di scoperta, ne guadagna il piacere di vedere Lando Calrissian che organizza un colpo criminale o Luke che si batte con Boba Fett, disegnati bene come mai prima, colorati bene come mai prima, messi su carta nel modo più vicino possibile al film. Non è forse l’ultimo piccolo sfizio da fanboy? Più di così, ci sono solo le action figure.

Ovviamente la serie di Wood e D’Anda era una banderuola in preda alla bufera, e oltre i singoli archi narrativi non c’era una progettualità vera. Star Wars di Aaron sa cosa vuole raccontare, che poi è l’unica cosa che si può raccontare in quella parentesi temporale, ovvero il percorso di crescita di Luke tra un film e l’altro, impegnato a imparare che cosa siano i Jedi e la Forza, perso in un mondo che Obi-Wan gli aveva appena accennato, e il suo rapporto in absentia con il mentore. In questo nodo sta l’idea più riuscita della serie: Dai diari del vecchio Ben Kenobi, le avventure di Obi-Wan Kenobi nel periodo in cui si era autoesiliato nel deserto di Tatooine per vegliare su Luke. Queste storie, narrate nel diario di Obi-Wan che Luke trova su Tatooine, sono le uniche davvero diverse dal resto della produzione, non perché le storie siano di una qualche capitale importanza, ma perché restituiscono un personaggio altro che, pur rimanendo coerente con il carattere, non avevamo mai visto prima. In particolare, Aaron spinge sulla lettura religiosa, un tema a lui caro dai suoi lavori più noti (ma anche dalla sua prima storia pubblicata, un raccontino oggetto di un concorso Marvel per aspiranti sceneggiatori – era il 2002 – sull’incontro tra Wolverine e una timorata di Dio).

Dai diari del vecchio Ben Kenobi vede Obi-Wan come un Gesù Cristo errabondo nel deserto che ha il compito di proteggere Luke e passare sotto i radar dell’Impero, resistendo alla tentazione di intervenire troppo nella vita del giovane. La prima tentazione di Cristo, quella in cui Satana gli dice di trasformare dei sassi in pane, è trasposta nel primo episodio in cui, in un periodo di forte siccità, Obi-Wan porta al mercato dei meloni neri, contenenti latte, che il contrabbandiere scambia per sassi. Come i vangeli, gli episodi autoconclusivi tracciano una storia orale che Obi-Wan non ha fatto in tempo a raccontare e che trova soddisfazione nella parola scritta. Il senso è acuito dallo stile michelangiolesco di Simone Bianchi e dai cammei di Mike Mayhew, i due disegnatori scelti per il filone. Parlando di quest’ultimo, una recensione di Multiversity lo liquida così: «Ci sono momenti in cui Obi-Wan e Luke sono in posa come per un quadro invece che come personaggi di una forma di disegno sequenziale. […] Non è il movimento naturale che dovrebbe avere un fumetto». E lo dice come se fosse una cosa negativa, come se forma e sostanza non fossero idee manipolabili a seconda dei contesti. Qui lo stile da quadro, retrò, fisso, anche fotoriferito, torna utile per far emergere la natura sacrale e religiosa della storia.

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Di tutt’altro avviso l’altra serie regolare, da poco conclusa, Darth Vader. Dove Star Wars è avventurosa e aperta, negli spazi che solca – fisici e narrativi – Darth Vader è una commedia nera d’ufficio in cui un burocrate sta sempre chiuso negli androni di navi, scafandri e celle. Mentre Aaron cerca in tutti i modi la voce dei personaggi, trovandola, il Darth Vader di Gillen è qualcos’altro (non un antieroe – a questo punto della mitologia non lo è ancora – ma un cattivo vero che fa vere cattiverie). Purtroppo parte di quel “qualcos’altro” è luce che scalfisce un personaggio il cui fascino maggiore risiede nella sua ombra, quindi spesso il guadagnato pesa meno del perduto. Sia Aaron che Gillen si sono cimentati con il concetto letterario di prefigurazione, un elemento vitale della saga («È come poesia, sono in rima, ogni stanza rima con quella prima» è la money quote della poetica lucasiana). Come sono diverse le serie, è diverso lo spirito con cui i due autori affrontano la questione. Le risonanze di Aaron sono affettuose e pensate, quella di Gillen ironiche ed evanescenti. Aaron e Cassaday riprendono il tema orientale della circolarità visiva de L’Impero colpisce ancora (importantissima nell’economia simbolica del film), e disseminano più o meno velatamente le tavole di cerchi e anelli. Gillen sembra scrivere la serie con un perenne sorriso di sufficienza stampato in volto (lo dico in senso buono, benitenso). Triplo-Zero e BT-1, i sadici spicciafaccende che Vader usa come strumenti di tortura, sono lo sberleffo massimo all’ossequiosità di C3-PO e R2D2.

Serie principali a parte, c’è bisogno di tenere limitate le incursioni fumettistiche per ragioni interne al mezzo – il problema della numerazione – e al contesto. Ecco che se Kanan, con il suo tratto gommoso mirato ai più giovani che sono cresciuti con i prequel e che seguono la serie tv Rebels – di cui questo fumetto è a sua volta un prequel – può permettersi dodici numeri di storie, Princess Leia, Lando e Chewbacca invece si fermano a una manciata di numeri, perché i retroterra dei rispettivi protagonisti sono ancora tutti in divenire e vanno centellinati. Costituiscono gli asset della saga e sprecarli subito sarebbe il più nefando dei delitti. Per paura di svelare troppo, i realizzatori sono andati nella direzione opposta raccontando episodi di vita risibili. Nonostante i team creativi d’eccellenza (Mark Waid, i coniugi Dodson, Alex Maleev, Phil Noto), che lavorando di mestiere portano a casa risultati più che leggibili, le miniserie finora pubblicate evaporano a contatto con il cervello.

Il problema più grande del franchise fumettistico resta quello di essere un prequel di cui, almeno a spanne, possiamo prevederne i non-sviluppi. Per definizione, i prequel sono una marcia verso l’inevitabile e i fumetti di Guerre stellari devono fare a pugni con questa nozione a ogni vignetta. Nel primo numero di Star Wars Chewbecca si trova di fronte la possibilità di assassinare Fener. La scena è priva di qualsiasi tipo di tensione visto che sappiamo tutti come andrà a finire.

Su cosa hanno deciso di giocare allora? Sul fatto di trovare pagliuzze d’oro in mezzo a tutto il rumore bianco, momenti importanti nella mitologia della serie che non parranno chissà quali colpi di scena ma offrono più soddisfazione di vedere Chewbecca mancare il tiro su Darth Vader. Quando, nel finale del primo arco narrativo Skywalker colpisce, Vader scopre che Luke è suo figlio, quel momento è in canone. È così che Vader lo scopre, e ogni film, romanzo, videogioco dovrà tenerne conto quando vi farà riferimento. È una magra consolazione, ma lo è sempre stata. Qui è soltanto presentata nel suo vestito migliore.

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Però. Un prequel è, sempre per definizione, qualcosa che nasce dopo un qualcosa ma viene prima di quel qualcosa. La tensione è l’ultima cosa che cerca. Il pathos del vedere Luke che si scontra (brevemente) con Darth Vader in Skywalker colpisce prima è assente. È difficile vivere questi prodotti in diacronia. L’impero colpisce ancora è già successo, e ogni riferimento precedente vive sulla forza che il lettore abbia ben presente il film. E questo è un fattore importante da soppesare nelle nuove narrazioni starwarsiane: tutto quello che abbiamo visto è già stato e qualsiasi avventura – anche quelle inframezzate tra un film e l’altro – dovrebbe essere vissuta con uno spirito sincronico. Introducendo il modus operandi Marvel, tutte le testate sono legate dalla contemporaneità. Addirittura, il primo mini-evento Vader colpito è un crossover vecchio stile, in cui bisogna sportarsi fisicamente da una testata all’altra per seguire il filo della vicenda. La coesione narrativa è una parziale motivazione dietro a questa scelta, lo sforzo è profuso più che altro per far dimenticare ai fan in che periodo preciso si collochino le vicende, un punto delicato che lo stesso Gillen non vuole toccare (lapidario il suo «I don’t really want to talk about the specific timeframe», in una recente intervista). Nelle intenzioni degli autori, una nebbia gentile dovrebbe avvolgere la cronologia della saga, fino ad astrarre i personaggi dal loro contesto e fargli vivere storie atemporali in cui i loro caratteri restano fissi. Perché devono, non si possono concedere il lusso di evolvere psicologicamente come fanno Iron Man o Capitan America.

Si sente che queste property non sono al 100% Marvel, c’è un alone di inviolabilità dato dalla co-gestione dei personaggi con il brain trust Lucasfilm. Nessuna morte, nessun cambiamento drastico. I supereroi hanno il vantaggio di poter sempre muovere in avanti, invece che continuare a zigzagare entro i confini di quella che abbiamo scoperto essere una galassia tutt’altro che sterminata. Puoi farci le peggiori mattanze, perché la strada davanti a loro è spianata, non c’è un traguardo, nemmeno futuribile, o un punto di arrivo che ci dice che a un certo punto l’Uomo Ragno finisce a dormire nelle viscere di un Wampa. Ma gli Avengers portano con sé “l’ansia dell’apertura” per cui ogni albo deve per forza essere parte di un arazzo che mira a interconnettere tutte le produzioni del proprio universo narrativo. Ogni tessera porta alla successiva in un puzzle infinito che la Casa delle Idee vorrebbe non farci completare mai.

Forse è questa la lezione che divide Marvel da Dark Horse. Luke e i suoi sono rimossi da ogni sviluppo permanente che ne danneggerebbe la componente combinatoria. Con Guerre stellari i fumetti sono tornati al grado zero della natura seriale: invece del gattopardesco motto Marvel «Tutto deve cambiare affinché nulla cambi», un tautologico «Nulla deve cambiare affinché nulla cambi». Una considerazione minima ma che libera gli autori dall’angoscia del cambiamento tipica dei supereroi. Dato che nulla di rilevante potrà mai accadere a Luke, Han, Leila o Darth, non c’è bisogno di alzare l’asticella ogni volta, a ogni giropagina non ci deve essere necessariamente un colpo di scena. Oppure sì, ma sarà una bolla che esploderà dopo due pagine perché tanto lo sappiamo, lo sanno loro, lo sai tu, come finisce. Non c’è ragione di fare scene, tanto vale divertirsi un po’ per il gusto di farlo.

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