Il ritorno di Gipi al fumetto è anche, per Gipi, un nuovo inizio: un graphic novel interamente in bianco e nero, e interamente di fiction. Un fumetto “classico” che offre un’allegoria radicale del nostro presente narcisista. In un futuro imprecisato, un qualche evento ha segnato “la fine” della società civile. Immersi in un ambiente post-apocalittico, due ragazzi allevati da un padre eroico e disilluso scopriranno come sopravvivere. Queste le premesse de La terra dei figli, fumetto con cui l’autore sceglie, ancora una volta, di mischiare le carte in tavola sperimentando nuove strade stilistiche e narrative. Di questo libro, che segna un passaggio significativo dalla lunga stagione del fumetto autobiografico, torneremo a scrivere. Cominciamo a discuterne [CON SPOILER] partendo dal punto di vista di Gipi stesso.
La terra dei Figli è una storia interamente di fiction. Tu e la tua voce siete totalmente assenti. E questo è sorprendente, se si pensa ai tuoi lavori precedenti. Perché una scelta così radicale?
Non è una scelta meditata o strategica. Non ho ‘deciso’, dopo i libri (pochi) che hanno definito il mio percorso, di cambiare. È stata una esigenza personale. Non riuscivo più a guardare tante cose che avevo fatto in tanti libri senza vergognarmi un pochino. Intendiamoci: voglio bene agli altri libri, però avevano una sorta di richiesta di affetto al lettore della quale, ora, un pochino mi vergogno. Mi spiego meglio. La mia vita disegnata male [LMVDM] era una specie di autobiografia, così come anche Unastoria era un’autobiografia più o meno mascherata, in cui una voce narrante al presente si rivolgeva direttamente al lettore: “io sto parlando a voi, con la massima sincerità, perciò vogliatemi bene e seguitemi mentre ti parlo”.
Quella cosa, quella logica, per me è un modo di chiedere affetto. Lo puoi fare in modo buffo, come in LMVDM, o in modo drammatico come in Unastoria. Ed era il mio modo di fare racconto: la sincerità, lo spogliarsi completamente mettendosi a nudo – in LMVDM anche in modo esplicito – di fronte al lettore, sempre in una condizione di debolezza. Quasi a voler dire sempre “non fatemi del male. Vogliatemi bene, perché io a voi mi offro come in sacrificio”. Era una cosa che non facevo in modo disonesto, era una mia esigenza. Ma arrivato a questa età ho pensato che era un’esigenza che dovevo lasciare. Dovevo smettere.
Perché sentivi di essere stanco e volevi cambiare, o per ragioni anche ‘esterne’, legate al contesto in cui hai maturato la decisione?
Diciamo che ci sono due aspetti. Uno è che mi piace scappare sempre. Nel momento in cui i lettori o chi scrive del mio lavoro comincia a identificarmi in una forma, devo scappare. Quando faccio Unastoria e mi danno del poeta, devo smettere di essere poeta. Nel momento in cui faccio LMVDM e ho un approccio pop, buffo e con humour, devo scappare da quella forma. Non è una questione strategica, ma è che proprio non riesco a stare in una forma definita più di un libro o due (humour a parte, S. e LMVDM hanno lo stesso meccanismo). Era una esigenza di mia identità e “umanità”: chi voglio essere? Non voglio più essere uno di quelli che chiedono sempre amore al lettore. Un po’ perché sono cambiato io, in questi anni: mi sono successe cose buone, diciamo, che hanno fatto sì che non avessi più bisogno di questo affetto esterno.
L’altro aspetto è che, nel frattempo, il mondo della comunicazione mi è cambiato sotto i piedi. E quella “richiesta di affetto” è diventata endemica. Con l’avvento dei social, tutto è richiesta di affetto. A essere più cattivi possiamo chiamarla “richiesta di attenzione”, ma basta guardare un bambino per capire che una richiesta di attenzione è, in fondo, sempre una richiesta di affetto. Un bisogno di amore che venga dall’esterno, spesso da fonti a te ignote. E proprio questo, però, anche prive di valore: non è che così vieni apprezzato come persona… Sui social vieni apprezzato come rappresentazione, quindi su un piano molto fragile. Insomma: non avevo più quella esigenza, e riguardando i lavori passati provavo davvero vergogna per avere avuto quell’atteggiamento. In più, quell’atteggiamento era diventato sistema. Quando apri Facebook sei inondato da centinaia di persone che, in un modo o nell’altro, dicono ad altri sconosciuti: “per favore vogliatemi bene; perché sono acuto, perché sono sprezzante, perché sono romantico, perché vi racconto tutto della mia vita”. L’operazione che facevo in LMVDM, mettermi a nudo davanti ai miei lettori, è diventato qualcosa che fanno centinaia di migliaia di persone tutti i giorni.
Penso però che la narrazione abbia il compito di andare da un’altra parte rispetto a “dove si sta”. Che debba aprire porte, non seguire il flusso. Non so se io stesso ho aperto una porta, ma so che nel flusso non ci volevo più stare. E quindi mi sono detto: bisogna che testi la mia capacità di narratore in questa nuova forma. Quindi, mi sono chiesto, che cazzo racconterò? Per tanti anni ho basato il mio lavoro su una sofferenza, e per quanto la modificassi o la nascondessi con l’umorismo era sempre lì. Quel tormento, sinceramente, ora non ce l’ho più. E ho capito che non c’era tutto questo bisogno di andare ad attingere alle parti più oscure dei miei pensieri. Potevo, invece, avere un po’ di fiducia nell’esperienza acquisita con tanti anni di disegno e di scrittura e, magari, raccontare cose che mi stavano a cuore senza bisogno che questa operazione racchiudesse in sé il pacchetto del “puoi volere bene all’autore, per favore?”. La mia prima decisione, dunque, è stata: voglio fare una storia con i personaggi, il plot, eccetera.
E sei finito con il raccontare una fiction post-apocalittica.
Nelle storie, come sappiamo bene, l’ambientazione non conta. Ciò che conta è il cuore del racconto, quello di cui stai parlando. L’ambientazione per me può essere qualsiasi: va bene anche un western, se hai una cosa profonda e seria che tieni a raccontare. L’ambientazione è soltanto un pretesto. Quindi, l’idea di una storia “dopo la fine della società occidentale” mi è venuta per una cazzata galattica: dopo la visione del video Gaia di Casaleggio. Un breve filmato dove lui ipotizzava il futuro. Era chiaramente la sua opinione, con una voce narrante femminile che raccontava come per arrivare alla società ideale sarebbe successo questo: ci sarebbe stata una terza guerra mondiale, batteriologica, che avrebbe sterminato l’umanità riducendola a un miliardo di persone. Queste sarebbero sopravvissute vivendo per 20 anni e, una volta riemerse e riorganizzate, avrebbero riformato la società contemporanea basata su internet, sulla democrazia diretta, in cui tutto il pianeta avrebbe eletto i suoi leader via web, e tutto sarebbe andato bene.
Ora: già immagina la cazzata galattica di dire “tra vent’anni, il web”. È come se noi oggi avessimo una società basata sul fax. È già una scemata perché, fra vent’anni, Facebook sarà sparito e sarà stato soppiantato da tutt’altri metodi e sistemi. Ma poi ho pensato a me, da buon egoista egocentrico, e mi sono chiesto: se dovessi stare per vent’anni in uno stato di guerra, in un bunker, una volta uscito, cosa sarei diventato?. Se mettendo la testa fuori tutto ciò che amavo o detestavo non ci fosse più? E coloro che nel bunker sono finiti quando avevano 12/13 anni? E chi ci fosse nato, e ne fosse uscito dopo 18 anni? Che tipo di umanità ne verrebbe fuori? Mi sono quindi divertito a generarla. Mi sono immaginato degli youtuber di 16 anni che vengono privati di ogni possibilità di evoluzione spirituale, etica e psicologica. E poi, diventati adulti, li metto a governare il nuovo mondo che è uscito fuori da quella fase. Mi sono immaginato questo, e ho usato questo escamotage per avere uno scenario che è quello che preferisco per le storie (tra l’altro l’ho fatto anche in Appunti per una storia di guerra, la storia più simile a questa): desertico. Uno scenario che diventa una sorta di scarno palcoscenico teatrale.
L’ambientazione è davvero molto asciutta, per decine di pagine quasi astratta.
Sì. E il fatto di essere quasi astratto mi permette di non essere più legato alle meccaniche della contemporaneità. Posso eliminare un sacco di cose: i telefoni, i social, il traffico. E posso riprendere dei personaggi isolati – che per me è fondamentale – e metterli soltanto nell’ambiente naturale, gestendoli davvero in maniera teatrale e facendoli agire in maniera “inumana”, rispetto alla nostra umanità.
Fra i personaggi del libro, mi sembra di notare una divisione in due grandi gruppi: da un lato gli uomini, dall’altro i ‘fedeli’.
Secondo me i gruppi sono addirittura tre. Ci sono i “sopravvissuti”, come il padre, Aringo o la Strega, che sono quelli che hanno vissuto una vita simile alla nostra. E poi ci sono i “nuovi”, ovvero i figli, i due ragazzini e anche la ‘schiava’, che troveremo più avanti. Per me il vero stacco è fra questi: fra chi ha la maledizione di una nostalgia per qualcosa che non c’è più, e chi invece è libero, cioè i ragazzi, che non hanno un metro di paragone verso un’altra esistenza.
Su questo ho elaborato tutta la struttura e i rapporti figli-padre, e ho anche costruito il desiderio del padre, che per me è il cuore del libro. Il padre sacrifica il suo amore per tenere i figli all’oscuro e, addirittura, per formare degli organismi che siano adatti al nuovo mondo. Per farlo deve però sacrificare una serie di cose che fanno parte della sua formazione, della sua esistenza. Per esempio vieta loro di usare parole che hanno un rimando ai sentimenti: vieta di usare il verbo “amare”. Perché vuole che loro siano organismi perfetti per un mondo brutale. Dal mio punto di vista, il padre fa un’operazione d’amore mostruosa. Non fa ciò che fanno spesso gli adulti coi ragazzi – i padri coi figli, i nonni coi nipoti – cioè dire che c’era un mondo fichissimo prima, fatto di valori, rispetto, lavoro … e ora voi non c’avete nulla. Quindi il padre fa questa cosa, per me eroica, di dire “non vi dirò mai un cazzo, vi crescerò nei segreti più totali, non saprete mai nulla, di modo che possiate essere forti”.
Il padre libera i figli dal peso della comparazione fra esperienze e generazioni.
Perché li indebolirebbe. La nostalgia o il rimpianto ti rendono deboli. E lui vuole che loro siano forti. Come dice alla Strega: “i tuoi amati figli invincibili”. Sogna, spera che possano diventare così. Per farlo, però, sacrifica tutto l’amore che vorrebbe dare loro. È una cosa che fa piangere, e lo rende la mia figura eroica in questo racconto.
Si tratta però di un eroismo tragico, perché destinato a fallire.
Dobbiamo però considerare come questi ragazzini affrontano i drammi. Il loro essere ‘bestie’, come ad esempio nel modo in cui ammazzano Aringo: è qualcosa di ingiusto, eppure non ne riportano alcun trauma. O forse sì, ma noi non lo vediamo: c’è un momento in cui Lino, il ragazzino più piccolo, si tuffa in acqua dopo aver ammazzato Aringo, così come si era tuffato dopo la morte del padre, per urlare sott’acqua.
Le scene dei tuffi potrebbero sembrare degli intermezzi, delle sequenze che girano a vuoto. Eppure sono i rari momenti in cui viene suggerita una qualche angoscia esistenziale in questi “invincibili” selvaggi.
C’è un dolore, ma siccome il padre non glielo ha codificato, non glielo ha permesso, i ragazzini manco sanno come si fa a stare male. E quindi Lino che va a tuffarsi sott’acqua come se si vergognasse, come se dovesse cacare invece che piangere, va a fare una cosa di cui ci si deve vergognare, che non dev’essere vista né udita da nessuno. È come se l’affetto da qualche parte aleggiasse, soltanto che non è stato nominato.
Un altro aspetto a cui tenevo di questo libro sono le parole. In un mondo, quello dove vivo io, dove le parole sono aria, volevo che le parole nel libro fossero poche e fondamentali. Il fatto che il padre non abbia mai nominato ‘amore’, ‘bene’, ‘cura’, fa sì che i ragazzi non possano dare corpo a questi sentimenti, perché non sanno come nominarli. Quando arriva il momento di un sentimento di dolore per un amore mancato, come quello per la morte del padre, Lino non sa cos’è. È come quando ti viene un crampo per la prima volta e nessuno ti ha mai detto che cos’è un crampo. Li volevo così, perché un dolore che non puoi nominare è un dolore che non può durare.
Io penso che il vero nodo, che tra l’altro guida la seconda metà del libro, è proprio il fatto che le regole del padre non riescono ad esaurire o sopprimere tutta l’energia vitale dei ragazzi. Lino, infatti, continuerà a cercare ossessivamente qualcuno che possa leggere il misterioso diario del padre.
Perché è così. Secondo me i ragazzi hanno una sorta di fuoco genetico proprio, un segreto interno che permette loro di andare avanti comunque. E questa cosa ha effetti inaspettati.
Hai sottolineato la contrapposizione fra due antropologie – quella dei sopravvissuti e quella dei nuovi – però in mezzo a questa dialettica si inserisce un altro ceppo: quello dei personaggi che hai chiamato ‘fedeli’.
E quella per me è la contemporaneità. Un modo per riversare tutte le mie inquietudini sul mondo moderno o, meglio, le società in generale. Perciò lì dentro ci sono finite tante cose che avrei potuto tranquillamente esprimere in battute sagaci su Facebook. È anche la parte più buffa del libro. Al punto che quando ho cominciato questa parte pensavo: qui i lettori penseranno che mi sono rimbambito, perché c’è un tale cambio di registro … I fedeli parlano in modo cretino, sono tutti cretini. Spero che questo loro essere cretini non li renda meno spaventosi. Perché a me l’idiozia fa molta più paura della malvagità controllata.
Tutti cretini, i fedeli, tranne uno: il boia.
Il boia me lo sono immaginato come qualcuno che si è saturato di Male. Uno che per salvarsi il culo – il fatto che non abbia naso e orecchie vuol dire che gli è successo qualcosa di orribile, per mano di questi fedeli – si è dato una ‘forma’ e ha preso questo ruolo terrificante di boia. Non sappiamo cosa ha fatto, ma si capisce che ne ha fatte talmente tante che non ne può più.
Nel libro c’è sempre, per quanto io abbia provato a volte a toglierla, un’umanità che vuole rivenire fuori, che non vuole essere sconfitta. E c’è anche nei fedeli. La cosa tremenda è quella. Alla fine, quando i fedeli chiedono al boia di leggere loro il libro, e lui risponde “sì, sedetevi”, immagino che li farà diventare persone migliori, o che ci sia questa possibilità. Non ho voluto fare un libro pessimista. È tremendo in alcune parti, però la “lucina” c’è. Nel boia, nonostante tutto quel che può avere fatto, la “lucina” dell’essere una buona persona c’è ancora. Che venga fuori per stanchezza, sfinimento… però c’è.
Ed è lui, il boia, che libererà Lino dalla cattura da parte dei fedeli.
È un uomo stanco. E ho cercato, per quanto avessi poche pagine per farlo, di dare questa idea di stanchezza nel suo primo dialogo, quello con il fedele che gli porta Lino. Il suo rispondere in modo scoglionato spero sia sufficiente a rendere l’idea che costui è, almeno, un uomo stanco. Mi piace soprattutto l’idea che in quel cazzo di quaderno, in cui non sappiamo cosa ci sia scritto, ci sia quel testamento d’amore, quella umanità in grado di accendergli la luce di cui parlavo. Non so cosa succeda al boia quella notte in cui passa a leggere il diario, ma immagino che si commuova, o si ricordi che si può essere qualcos’altro rispetto a essere malvagi.
Cosa volevi rappresentare con quel diario? Peraltro la sequenza in cui viene aperto e sfogliato è la più bizzarra del libro: un po’ ‘stacca’ perché invece di essere disegnata è ‘scritta’, ma soprattutto è davvero una scena lunghissima. Non è la prima volta che capita di leggere, in un fumetto, sequenze interpolate di un diario (mi viene in mente persino Watchmen), però qui sono 12 pagine che rendono interminabile quel momento. Forse anche perché, nonostante nel libro non manchi la violenza, è questa la sequenza più spaventosa.
Il fatto che queste pagine siano ‘illeggibili’ è di una aggressività mostruosa verso il lettore. L’esatto contrario, forse, della richiesta di affetto di cui parlavo prima. Per tre quarti della lavorazione del libro, tranne nella porzione finale, ho combattuto una battaglia giornaliera per non inserire pezzi di voce narrante o stralci di ciò che aveva scritto il padre nel diario. L’ho combattuta e l’ho vinta perché me l’ero data come regola assoluta della narrazione: in questo libro non dovrò mai scrivere cosa c’è in quel quaderno. Mentre lavoravo mi accorgevo che sarebbe bastato mettere due boxettini, due riquadri con un pochino di testo di voce off e avrei potuto risolvere dubbi, problemi legati alla trama, accendere luci sul passato dei ragazzi, sulla loro nascita, sulla madre, su cosa avesse portato il loro mondo a quella condizione. Potevo far tutto con quella roba lì. Però mi ero dato questa regola. E la regola non era tanto il non inserire una voce narrante ma era soprattutto che volevo un’identificazione completa tra il lettore e i due ragazzini, soprattutto Lino. Il lettore non verrà a sapere mai niente di più di quello che sa Lino.
Se il desiderio di Lino è leggere il quaderno del padre, perché è convinto che nel quaderno ci sia l’opinione che il padre aveva di lui – ovvero, sostanzialmente, se gli vuol bene o no – e se io volevo creare una identificazione del lettore con lui, dovevo fare in modo che quando finalmente Lino ha accesso al diario il lettore provasse lo stesso fastidio, lo stesso disappunto e spero la stessa rabbia che prova il ragazzo. Lino sfoglia una roba su cui vuole mettere le mani da otto anni, e quando finalmente ci arriva non ci capisce niente di niente. Perché non sa leggere. Quel suo dolore volevo che arrivasse anche al lettore. Perciò ho immaginato che il lettore prende la pagina, come il ragazzino che ha preso in mano il quaderno e, finalmente, si saprà cosa c’è scritto dentro; sfoglia, sfoglia e io ci metto una paginata di roba che sembra scrittura ma è invece inintelligibile. E mi sono immaginato – spero – che qualcuno si metta a cercare le parole in questi segni. Senza trovarle.
Ammetto che ci ho provato.
Perché secondo me lo fa Lino. Un analfabeta che trova questa roba cerca di capire cosa è, e proprio per questo ho disegnato questa finta scrittura che sembra fatta di parole ma non lo è; sembrano mooolto parole, e invece non ce n’è nemmeno una vera. Ho immaginato che il lettore, o almeno quello che è entrato in maniera più profonda nella storia, cercherà di trovare un senso, e cercherà le parole. E allora gli faccio girare pagina, e ne ho delle altre; spererà che, girando le pagine, prima o poi io gli spieghi che cosa sia sta roba; e invece no, ecco altre pagine con quella roba. E l’ho fatto fino proprio allo sfinimento – anche mio, perché fare quelle tavole lì è stata una rottura di palle atomica. È chiaro che se fai due pagine così ha un effetto, se lo fai di quattro pagine ha un effetto alla seconda, se lo fai di sei così via, e se lo fai di dodici è una mazzata. Io volevo proprio essere mandato affanculo dai lettori, come Lino manda affanculo suo padre, nella sua testa.
Cosa racconta per davvero questa storia? A me pare una allegoria di varie cose, non di una sola: di una tragedia e una palingenesi sociale, dei social network. Ma anche – e forse soprattutto – è un’allegoria sulla paura delle relazioni e sulla paura dei sentimenti.
Avevo una frase che poi non ho usato, per fortuna, perché era stucchevole. Però la avevo in testa mentre lavoravo: “il cuore degli altri è un segreto”. Il desiderio di Lino di sapere il grado – o l’esistenza – dell’affetto del padre nei suoi confronti è il cuore di tutto.
È questo il motore di tutto, ovvero delle azioni di Lino. Il cui scopo è soprattutto – se posso essere stucchevole anch’io – capire se esiste l’amore.
Certo, anche perché questo sentimento ha un’ombra nel passato, anche se solo accennata. Noi capiamo che la madre di Lino è morta alla sua nascita. C’è un momento in cui dice “io avevo i piedi lunghi”, con una immagine assurda e infantile, come se lei fosse morta per colpa dei piedi lunghi che le avrebbero “fatto male alla pancia”. Pensa quindi che il padre lo odi per questo, e dunque è un aspetto che potrebbe anche non reggere se non assumiamo che esistano dei sentimenti atavici che resistono a qualunque condizione d’esistenza sociale.
Il fatto è che Lino ha un dolore che è molto “nostro”, che in teoria non dovrebbe avere in quel mondo se le misure prese dal padre fossero efficaci al cento per cento. Invece Lino ha i sensi di colpa, che è qualcosa che non dovrebbe avere. Ciò che desidera è perciò sapere se questi sensi di colpa hanno un fondamento, e se quel che è accaduto abbia fatto sì che suo padre non lo abbia mai amato. Il fratello non ha questo furore, mentre Lino sì, e secondo me ha a che fare con il peso del ricordo delle mamma “mancata per colpa sua”, che ritiene all’origine del disprezzo – che in realtà non c’è – da parte del padre. Mi piaceva l’idea che Lino impazzisse dal desiderio di conoscere la verità.
Dalla morte del padre in poi questa spinta di Lino diventa veramente il motore del libro.
Diventa una specie quest, come nei videogiochi!
Hai fatto molti libri con dentro il tema dell’amore e quell’approccio alla richiesta d’affetto, toccando i tasti dell’autenticità e delle emozioni. Ma quel che mi è parso paradossale è che proprio La terra dei figli, che invece è il libro più costruito e ‘inautentico’ che hai fatto – e che si occupa d’altro: del futuro, di relazioni padri-figli, di pasticci sociali – in realtà diventa una grande interrogazione intorno all’esercitabilità dell’amore.
Ma è proprio questo. Le persone che amiamo ci amano, è questo, fine. E cos’è quella cosa? E come la devo vivere? E questo amore, deve essere un peso o una forza? Il fatto decisivo è che Lino, alla fine, si libera del quaderno, ovvero della memoria, in cambio del presente. In teoria, se lui tenesse il quaderno, potrebbe trovare qualcun altro che sa leggere. Ma sceglie di scambiare la memoria del padre, questo quesito, questo dubbio sull’amore, con la carne della persona vivente. Decide di “scambiare” il libro per la compagnia della Strega.
Nella stesura iniziale quella scena era diversa. Lino perdeva il quaderno, e volevo fare in modo che fossero gli eventi stessi a farlo allontanare da quella domanda. Invece a un certo punto ho pensato che doveva essere una sua scelta. Anche questo per me è nuovo: non ho mai fatto personaggi che “agiscono”. I protagonisti delle mie storie sono quasi sempre degli osservatori, figure che stanno da parte e guardano altri che fanno cose: come Giuliano in Appunti per una storia di guerra che, a differenza degli altri che a un certo punto scompaiono, non fa un bel niente e non determina mai una svolta narrativa. In LMVDM addirittura non c’è un plot narrativo: c’è il racconto di uno che ha visto succedergli delle cose, ma non ha mai agito in queste cose. Lino è il mio primo personaggio che fa un gesto che determina la sua vita. Sceglie di farsi bastare quei frammenti che ha avuto dal boia, e scambia la morte, ovvero il diario, con la vita, ovvero la Strega. Cede la possibilità di avere accesso al passato in cambio di una persona viva, che lo ripaga tra l’altro nel modo più inaspettato possibile: con una carezza che sarà, forse, la prima di una serie. E con la Strega si ricrea una mamma a modo suo.
La tavola finale è una tavola molto semplice. Eppure mi ha colpito perché è difficile descriverla al di fuori del linguaggio del fumetto: in alto c’è un dialogo, in mezzo c’è un gesto, e poi arriva il vuoto. Quel bianco che fa “restare” il senso del gesto finale.
Sapessi quante volte l’ho ridisegnata, con battute in più… Però alla fine mi sono detto: o regge la carezza, o niente. Deve funzionare l’aspirazione. Lino dopo quel gesto non è più la stessa “forma”. Non lo potevo ridisegnare. Diventa un’altra cosa, e ho dovuto farlo sparire. È come un evento dopo il quale non sei più la stessa persona: per anni ti sei definito con alcune meccaniche, e a un certo punto arriva qualcosa che quelle meccaniche le spazza via. Magari sarà anche un bene, in futuro, però in quel momento svanisci.